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Lavorazione del bambù |
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Sdraio di bambù |
La
strada che lascia lo stato Mon e risale a nord verso Taungoo passa attraverso
un’area rurale popolosa e piena di attività che puoi vedere in atto continuamente. Le bancarelle delle venditrici
di
pomelos, sono cariche di frutti
mostruosi, quasi dalle dimensioni di zucche gialloverdi, palle giganti disposte
in ordinate piramidi che la massa dei pellegrini che tornano dalla Golden rock,
acquista volentieri a prezzi di affezione, sia perché dovremmo essere nel pieno
della stagione, sia in quanto questa è una delle zone più rinomate di
produzione. Anche qui i concetti di km
zero ed eccellenze si insinuano nelle menti. E’ la globalizzazione figliolo,
fattene una ragione. Dove c’è materia prima fioriscono le attività. Sulle
colline sono infatti presenti veri e propri boschi di bambù, i cui fusti,
l’umidità del monsone rende grossi e rigogliosi. Il signor Wata per esempio, ha
messo in piedi una attività che coinvolge diversi suoi vicini di casa. Attorno
alla sua capanna, dove vengono portate le grandi canne verdi, appena tagliate,
si formano grandi piramidi dove il bambù rimane per i mesi della stagione secca
a perdere umidità, prima di venire spaccato per il lungo, poi tagliato a misura
e ridotto in strisce e stecche a seconda del bisogno. Poi un altro gruppo di
artigiani provvede a montare, intrecciando, forando, incastrando e legando,
sedie, poltrone, sdraio e letti veri e propri di grande robustezza e comodità,
non disgiunti da un certo stile. L’esposizione è direttamente sulla strada e la
vendita si svolge dal produttore al consumatore diremmo noi.
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Essiccazione del caucciù |
Quando
ancora le colline non sono finite, ma la boscaglia selvatica comincia a
diradarsi, noti subito l’ordine artificiale della presenza umana. Lungo i
fianchi ormai dolci della terra, si dispongono ordinate file di alberi;
cominciano qui le piantagioni di tek e di alberi della gomma, una
selvicoltura che si sta allargando, data la ripresa della richiesta di materie
prime e che, se da un lato cambia lo stato selvatico di un territorio,
dall’altro lega la gente alla campagna impedendone il rapido inurbamento. Si
potrebbe anche obiettare ai puristi del naturale, sempre meglio del
disboscamento selvaggio che ha interessato tante zone di questa parte del
pianeta. La famiglia Khanet, ha circa quattro ettari di collina proprio al
limite della statale. Tutto il suo terreno, a parte qualche piccolo spazio
dedicato all’orto per le esigenze della sua numerosa famiglia, è impiantato con alberi della gomma già in piena
produzione. Il padre mi accompagna a fare un giro nella proprietà. Il ciclo
produttivo è piuttosto semplice e può essere seguito bene anche a livello
familiare. Accanto ad ogni tronco è appesa una scodelletta fatta con una mezza
noce di cocco. Con un coltello affilato si esegue sulla corteccia un taglio curvo
in discesa in modo che la linfa bianca e gommosa che l’albero secerne in
seguito alla ferita scivoli verso il basso e si raccolga nella ciotola,
riempiendola quasi completamente nel corso delle 24 ore.
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Colatura del caucciù |
Il
contenuto rappreso di una ventina di queste tazze, viene impastato assieme e
successivamente fatto passare a manovella tra due cilindri che riducono la
massa ad un foglio grossolanamente rettangolare, spesso qualche millimetro, di
circa mezzo metro quadro, che viene quindi disteso ad asciugare al sole su
tralicci di legno. Quando il signor Khanet ne riempie il cassone della sua moto
agricola, li porta al grossista in paese che glieli paga attorno ai 4 dollari
l’uno. Anche senza fargli i conti in tasca si vede che non se la passa male,
lui, i tre figli e relative nuore, tutti al lavoro nell’azienda. Si sono
costruite case di mattoni, dove non mancano le parabole, in luogo di quelle di
stuoia che si vedono di norma lungo la strada; sotto il portico ci sono
motorini, la pompa del pozzo sembra nuova e c’è anche un generatore e un grosso
pannello solare. Nel cortile non razzolano né maiali, ne anatre, forse conviene
ormai comprarle al mercato. A prescindere dalla puzza, il caucciù che si
asciuga al sole, non ha la fragranza della rosa, il volto del signor Khanet è
disteso e sereno. I bambini tornano da scuola e le divise bianche e verdi sono
nuove e linde di bucato, la nonna, l’anziana signora Khanet ride dalla panca
del cortile, mentre ti saluta con la mano. In paese, suoni di tamburelli, sotto
una tettoia di frasche un gruppo di volontari raccoglie offerte per restaurare
il vicino tempio che innalza una guglia dorata sulla collina. Uno striscione
disteso attraverso la strada ed i ragazzi che sporgono le ciotole di metallo,
la benedizione è garantita. Poi la strada diventa diritta e taglia all’infinito
la pianura ricoperta di risaia.
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Una trebbiatrice |
Anche
qui vedi una agricoltura non completamente arretrata. Benché la maggior parte
del lavoro sia svolto a mano, cominci a scorgere qualche macchina rudimentale
di origine cinese, addirittura una piccola mietitrice all’opera. In generale
però, le vaste camere delle risaie sono invase da gruppi numerosi di mietitori
che tagliano il riso con piccole falci ricurve, raggruppandolo in covoni,
ammucchiati poi ad essiccare al sole. In qualche caso vedi anche l’arcaico
sistema dello sgranare a mano, sbattendo il mazzo di spighe secche a terra su
uno spiazzo ricoperto da un telo; ma sempre più spesso al bordo del campo sosta una piccola
trebbiatrice che due o tre uomini alimentano coi forconi, che sputa da dietro
ciuffi di culmi strappati e privati delle preziose cariossidi. Queste vengono
poi stese lungo la strada e infine quando l’essiccazione è completata, sono
raccolte in grandi mucchi in attesa di essere insaccate e caricate sui camion
dei grossisti che le porteranno alle riserie. Vedi addirittura qualche campo
sperimentale con tanto di paline e parcelle delle diverse varietà; se hai
l’occhio attento, spunta qualche sacco con marchi di produttori di sementi o concimi. Mi
immagino già qualche bioamatore, agricoltore della domenica che griderebbe
subito di certo al subdolo strapotere delle bieche multinazionali, rappresentate
dalla Monsanto in testa, icona del male assoluto. Intanto, girando per questi
paesi di campagna, vedi povertà ma di certo non malnutrizione, la gente appare
ben pasciuta e non pare avere problemi dal punto di vista alimentare, casomai
le carenze sono di tipo sanitario. I produttori, grazie ad un clima tutto
sommato favorevole all’agricoltura, hanno di che nutrirsi e possono vendere il
surplus, a seconda della dimensione dei loro terreni e procurarsi quanto serve
loro per vivere.
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Mietitura del riso |
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Descrivi un mondo ed un popolo ricco di
RispondiEliminafantasia,adattabilità e attaccato al lavoro.
Mi pare di capire,un'economia tipicamente familiare,ma che funziona.Apprezzo sempre le tue foto,perfetto corredo di quanto scrivi,ma questo già lo sai...
@Chcchi - Grazie . Effettivamente un'economia rurale a tutti gli effetti, con la calma e la laboriosità orientale, inclusi pregi e ovviamente i difetti.
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