Leggere un libro di montagna al mare è una cosa che ci sta. Corona, ormai noto e gigione personaggio televisivo, riscrive lo stesso libro ormai da una ventina di volte, diciamo che sul suo personaggio ci campa, come fanno in tanti del resto e fa benissimo a farlo. Qui manca addiritura la trama per classificarlo come romanzo, tuttavia come gli altri si lascia leggere per quella malia e desiderio di fiaba misterica che alberga in tutti noi. È sempre piacevole sentire queste storie di luoghi magici e segreti che il ragioniere di città, ritiene perduti per sempre e che desidera ad occhi aperti e gli fa comprare appena ne ha la possibilità, qualche rudere sperduto in mezzo a qualche vallata abbandonata, per una cifra d'affezione. Sono le parti più godibili del libro, quelli dove la poesia prende spazio e racconta storie antiche, ancora di più se sono mascherate da ricordi del bambinello ingenuo che nella montagna è nato e la ricorda come tutti il proprio passato, con l'animo del fanciullino. Insopportabile invece quando la vena poetica lo abbandona e parte con la saggezza antica che possiedono solo gli uomini dei monti e i pippozzi degli uomini cattivi, delle banche e delle perfide multinazionali, le auto puzzolenti ed i gitanti chiassosi, con quella mentalità tipica presente anche nelle nostre valli, in cui si piange disperati perché non ci viene più nessuno e poi se qualcuno arriva, dà inevitabilmente fastidio e meno male che presto si toglie dai piedi. Lagne da montanari a cui non va mai bene niente, no tutto, pronti però a lamentare che il governo non manda soldi. Comunque prendetene la parte migliore e sognate di boschi misteriosi e animali che parlano, di montagne che sentono e toccano e si spostano nella notte che sarà comunque piacevole.
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lunedì 14 settembre 2015
Recensione: Corona - I misteri della montagna
Leggere un libro di montagna al mare è una cosa che ci sta. Corona, ormai noto e gigione personaggio televisivo, riscrive lo stesso libro ormai da una ventina di volte, diciamo che sul suo personaggio ci campa, come fanno in tanti del resto e fa benissimo a farlo. Qui manca addiritura la trama per classificarlo come romanzo, tuttavia come gli altri si lascia leggere per quella malia e desiderio di fiaba misterica che alberga in tutti noi. È sempre piacevole sentire queste storie di luoghi magici e segreti che il ragioniere di città, ritiene perduti per sempre e che desidera ad occhi aperti e gli fa comprare appena ne ha la possibilità, qualche rudere sperduto in mezzo a qualche vallata abbandonata, per una cifra d'affezione. Sono le parti più godibili del libro, quelli dove la poesia prende spazio e racconta storie antiche, ancora di più se sono mascherate da ricordi del bambinello ingenuo che nella montagna è nato e la ricorda come tutti il proprio passato, con l'animo del fanciullino. Insopportabile invece quando la vena poetica lo abbandona e parte con la saggezza antica che possiedono solo gli uomini dei monti e i pippozzi degli uomini cattivi, delle banche e delle perfide multinazionali, le auto puzzolenti ed i gitanti chiassosi, con quella mentalità tipica presente anche nelle nostre valli, in cui si piange disperati perché non ci viene più nessuno e poi se qualcuno arriva, dà inevitabilmente fastidio e meno male che presto si toglie dai piedi. Lagne da montanari a cui non va mai bene niente, no tutto, pronti però a lamentare che il governo non manda soldi. Comunque prendetene la parte migliore e sognate di boschi misteriosi e animali che parlano, di montagne che sentono e toccano e si spostano nella notte che sarà comunque piacevole.
domenica 3 gennaio 2010
La piramide del sole.

Sarà che qui ci sono -15°C, tanto per fare alta montagna, ma per la serie del non essere mai contenti, mi vengono in mente solo storie al caldo. Lasciamo quindi la Russia per un po’, tanto abbiamo già dato e lasciamoci trasportare dal vento dell’est, buscando el levante para el ponente, come altri avevano già fatto. Ma sì, il Messico, un paese chiave della latino-america, dove sono stato qualche volta e che mi attrae senza una ragione specifica, forse per le molte facce diverse che questo solido lontano sa presentare, se ti lasci andare senza fretta ai suoi ritmi. Non ho mai capito se un tempo fosse uno dei tanti luoghi dove i nostri arrivavano coi gommoni di quei tempi a cercare fortuna. Un mio zio la cercò, subito dopo la guerra, appena sposato. Vendettero tutto quel poco che avevano, mobili e suppellettili e presero il piroscafo che li portò dalle parti di Campece dove lontani parenti della moglie gli avevano dato speranze e possibilità. Come sono simili le storie nei tempi, magari a senso inverso, ma come è facile dimenticarle e cambiarsi cappello. Durò un paio d’anni, poi le cose non andarono bene e se ne dovettero tornare indietro per ricominciare. Il Messico è stato sempre un paese travagliato dalle difficoltà economiche e non credo che fosse mai stato facile farci fortuna. Ma la gente sembra cordiale e latinamente molto incline alla chiacchiera. Una volta che ci andammo da turisti, con la bambina, morbosamente interessata alle piramidi e a quel passato così colorato e violento, almeno nei racconti che ci sono pervenuti, conoscemmo a Città del Messico un tassista particolarmente simpatico, Francisco, e lo assoldammo diverse volte per scoprire la città e i dintorni. Era un tipo piccolo e grassoccio, coi baffi spioventi e la barba di parecchi giorni, portava sempre una camicia bianca senza bottoni aperta sul petto. Mancava il sombrero, poi sarebbe stato il messicano delle barzellette. Si tergeva continuamente il sudore che scendeva copioso dalla fronte, con un fazzolettone rosso che gli pendeva dalla tasca di un largo pantalone chiaro. Parlava uno spagnolo facile e cadenzato che risultava comprensibile anche alla mia bambina che lo guardava affascinato. Ci portò in giro per tre giorni qua e là sul suo maggiolone verde con una cassetta sparata a palla, per mostrarci gli angoli più interessanti della città, raccontando storie e magnificando i posti. Piazza Garibaldi coi mariachi e la musica più messicana che si possa immaginare, il Zòcalo, col palazzo del governo e i magnifici murales di Ribera, plaza des tres culturas col suo mercatino, la straordinaria cattedrale barocca dalla facciata tutta storta per il cedimento del terreno sottostante, la parte vecchia ancora devastata dal terremoto degli anni ’50 con la torre panamericana, l’unico grattacielo dell’epoca che miracolosamente sopravvisse all’evento. Un giorno ce ne andammo a Teoticauan, il bellissimo sito archeologico azteco con le più alte piramidi del Messico. Che colpo d’occhio dall’alto della piramide del sole! In fondo al lungo viale quella della luna, più bassa, il contraltare della teogonia. Già immaginavi le lunghe processioni colorate dallo sfarzo delle piume che portavano i prigionieri delle guerre fiorite al sacrificio. La bambina era eccitatissima, anche nel calore del pomeriggio e voleva continuamente sentire storie di sacerdoti e cerimonie. Lungo la strada del ritorno ci fermammo da un vecchio che campava mostrando tutte le virtù dell’agave e i suoi usi, dalla produzione della carta, alla fibra utilizzabile anche con l’ago naturale in cima alle foglie carnose, a tutti i prodotti alcoolici derivati, dal pulque al mezcal col verme, che toccò assaggiare a me naturalmente, mentre Francisco sogghignava divertito. Dissacratore continuo, mi aveva già demolito Pancho Villa e quando mi dichiarai consumatore di birra Corona, mi guardò con compatimento scrollando la testa: -Tripla Ekis o San Miguel estan bien, pero que Corona es ligerisima, no se puede beber, una cerveza que no sirve a nada.- e, deluso, ci lasciò davanti all’albergo.