mercoledì 30 settembre 2009

Proposta indecente.

Il Kazakistan è un paese strano, fatto di vaste aree semidesertiche e di grandi spazi contaminati da innumerevoli nefandezze compiute qualche decennio fa. Adesso risulterebbe anche un paese assai ricco e deciso a spendere a più non posso per lasciare il tranquillo medioevo centroasiatico in cui versa da secoli e transitare a pieno titolo nel terzo millennio, come si vede dallo sviluppo di Astana, la nuova capitale sorta dal nulla nel deserto, ma nel momento del disfacimento dell'URSS di soldi ne giravano pochi, in contrasto con la buona volontà di fare che sembrava assolutamente apprezzabile. A dispetto delle decine di etnie che popolano il paese, ad un primo sguardo, senza problemi di convivenza, ma da sempre attendiste alle decisioni del potere centrale assoluto, fin dai tempi di Tamerlano, gli affari, allora si facevano esclusivamente con i ministeri. E, assolutamente in linea con le sane decisioni di un paese che mira alla modernizzazione, appena liberato dal giogo delle decisioni moscovite, ci era giunta una richiesta dal Ministero della salute per un piccolo impianto di produzione di latte in polvere per i bambini, che finalmente godevano delle attenzioni dell'esecutivo dopo anni di dimenticatoio. Ci lavorammo un po' e poi presentammo la nostra proposta, interessante perchè permetteva, con una spesa ragionevole di attrezzare una linea modulare, eventualmente moltiplicabile in futuro, quando le condizioni economiche lo avessero permesso. Ritenevamo la cosa quasi fatta e io mi trovavo a Mosca proprio mentre si attendeva la decisione in merito. Come ben si può immaginare le pratiche ministeriali hanno tempi uguali in tutto il mondo, figuriamoci dove si deve scegliere tra cavallo e cammello. In quel tempo non era ancora entrato in uso il telefonino, le linee telefoniche fisse internazionali, funzionavano in quella parte del mondo con prenotazioni al giorno successivo, così la comunicazione standard era il telex, un imponente ambaradan che faceva bella mostra di sè quasi al centro dell'ufficio, dove ancora non si vedevano monitor di computer. Di tanto in tanto la macchina si svegliava, come un robot dormiente di un romanzo di Asimov e cominciava un ticchettio allegro ed autonomo che risuonava lungo i corridoi e predisponeva all'attesa della novità in arrivo. Così quel giorno al termine della trasmissione, ecco arrivare Anja sulla porta dell'ufficio con la strisciata del telex appena arrivato da Alma Ata tra le mani. Era rossa come un peperone di Cuneo e pareva che il foglio di carta le bruciasse tra le mani. Quasi balbettando disse a voce bassa:" Ministero dice che soldi per latte di bambini non c'è. Ma fa altra richiesta, ma io non posso tradurre. Troppo mi vergogna. Prego scusa, ma non traduco questo." e se ne va lasciandoci interdetti con il foglio di discreta lunghezza sul tavolo. La pruderie delle signore russe è ben nota, perciò fu con molta curiosità che ci accingemmo a leggere il messaggio, che era comunque chiaro nel suo dipanarsi. Il Ministero della salute, ci comunicava infatti, che lo stanziamento previsto per la linea era stato annullato a causa di una mancanza di fondi e si scusava per questo inconveniente, ma richiedeva comunque un'offerta urgente. Si trattava di attrezzare completamente a partire dal knowhow per l'allestimento e proseguendo con tutti i materiali necessari, un pornoshop di medie dimensioni. seguiva un lungo e dettagliatissimo elenco di materiali che spaziavano dalle bambole gonfiabili a differenti attitudini, ad una lunga serie di vibratori di ogni foggia, colore, uso e dimensione (dettagliata in cm, diametri e lunghezze), un congruo numero di cassette VHS (non esisteva ancora il DVD) suddivise per generi e un fornito guardaroba di biancheria particolare. Largo spazio era dato alle attrezzature sadomaso e così via cantando. Per questo progetto il ministero avrebbe reperito senza dubbio il finanziamento. Rispondemmo che la proposta esulava dal nostro business usuale e che pur ringraziando per la preferenza non avremmo potuto presentare un'offerta. Dopo qualche giorno Anja si licenziò per andare a fare la traduttrice presso un ufficio di religiosi in contatto con la Santa Sede.

martedì 29 settembre 2009

Cronache di Surakhis 20: discopatia.

Paularius era piegato in due dal dolore. Da quando, due giorni prima si era svegliato e scendendo dal letto gravitazionale, aveva appoggiato il piede sinistro sul prezioso tappeto di morbido pelo di Ferlak, una lama incandescente sembrava essere penetrata tra la quarta e la quinta vertebra della sua vecchia schiena. Con rabbia aveva scostato le candide membra delle tre ancelle multisex che gli avevano reso gradevole la serata e, dopo aver cercato di mettersi in piedi, si era trascinato fino allo studio, lanciando maledizioni a tutto l'universo e tenendosi qua e là per non cadere riverso, fino ad abbandonarsi nella grande poltrona in cerca di una posizione in cui il tremendo dolore provasse linimento. Subito erano stati convocati i cerusici di diverse scuole ed ognuno aveva dato un suo specifico e sempre costosissimo medicamento, dall'ultimo grido della ricerca medica, agli antichi infusi di erbe ed agli impiastri strofinati con zelo da mani sapienti di schiavi acquistati specificamente per questo uso. Nulla era servito. Era di pessimo umore, così ordinò che fosse vaporizzata all'istante la pattuglia di Morigeratores che attendeva da tre giorni di parlargli per piatire migliori condizioni per gli addetti alla miniera. Certo da quando era iniziata la crisi, si erano dovuti un po' restringere i cordoni, ma tutto era in funzione del loro bene futuro, anche se questa gentaglia non lo voleva intendere. Se la società proprietaria della miniera, cioè lui, non avesse potuto generare i soliti consistenti utili, loro sarebbero presto diventati carne per la banca degli organi, quindi le restrizioni prese erano solamente nel loro interesse e questi avevano anche il coraggio di lamentarsi, con lui e con tutto il male che aveva. Maledizione. Non ne poteva più di tutta quella democrazia, di tutti quei diritti, sparpagliati così come il parmigiano sulla pasta alla klapper (quanto gli piaceva il sugo di quei piccoli ometti spremuti e ripassati nel vino di Hort, solo che erano diventati così rari da trovare, si nascondevano sempre meglio i furbacchioni, ma sempre non abbastanza per evitare, al giusto prezzo, la tavola di un grande gourmet come Paularius). Era ora comunque, che il governo prendesse un indirizzo un po' più severo di quello di ottenere consenso tramite un lungo ma lento lavoro di induzione mentale attraverso i media, che, d'accordo, erano tutti controllati dal governo e contenevano una serie (consentita da apposita legge e controllata da apposito garante) di induzioni subliminali all'adesione totale verso l'Imperatore, ma era pur sempre un lavoro che richiedeva tempi lunghi e le proteste, seppure sempre più fioche disturbavano il buon andamento della società. Erano queste preoccupazioni che gli avevano fatto venire il mal di schiena, certamente! Si sarebbe dovuto decidere prima o poi a rivolgersi alla banca degli organi (dove, d'altra parte, aveva la maggioranza delle azioni) e prendersi una colonna vertebrale nuova. Con la crisi, tra debitori diretti e genitori che cedevano i figli non potendo più pagare i mutui, adesso c'era un sacco di donatori giovani e la banca non aveva nemmeno più dovuto ricorrere ai Twoseas bond, che l'astuto ministro aveva emesso per incastrare gli istituti di credito. Mica siamo nati ieri, pensò Paularius a bocca storta. Peccato che per ricavare una colonna vertebrale completa, bisognasse sacrificare il donatore, non aveva senso mantenerlo in vita, come quando gli si prelevava solo un arto od un organo semplice. Eh, i costi aumentano, ma la gente se ne frega, vuole tutto gratis! Anche la terza luna di Surakhis tramontò infine, in un livido cielo verde marcio e come diceva l'antico proverbio, con la terza luna verde, il bel tempo si perde.

lunedì 28 settembre 2009

Bianco gesso.

C'è una grande diatriba sul gap qualitativo tra la scuola, gli studenti e gli insegnanti odierni e quelli di un tempo, pre-68, tanto per intenderci. Si filosofeggia molto su cause ed effetti, si notano voragini di ignoranza e così via. Poi nella realtà di tutti i giorni, mentre siamo qui a commentare le nuove classi di Merystar con 41 allievi, come a Novi Ligure, i nostri ragazzi, che in fantomatici test, studiati da chissà quali teste aguzze, arrivano sempre dopo quelli del Burundi, vanno all'estero a studiare o a lavorare e sbancano quasi sempre il cucuzzaro, sono tra i più graditi ed apprezzati e ci fanno fare dei gran figuroni. Chissà com'è la realtà vera. Io, a causa dell'anagrafe, posso solo ricordarmi degli episodi, non so se significativi, ma certo quantomeno curiosi. Ho preparato diversi esami universitari con un caro amico, poi, com'era consuetudine allora, si andava a sentire gli esami degli altri, da cui si sperava di trarre utili indicazioni sulle manie ed inclinazione del professore ed altre malizie; adesso non si può più, giacchè gli esami sono tutti scritti e di fronte ad un foglio anonimo; passa anche la poesia e manca lo stimolo del combattimento verbale, la lotta corpo a corpo per sgusciare dalla presa della domanda ignorata e la ricerca di una posizione favorevole sull'argomento conosciuto su cui assestare il colpo fatale. Comunque quella mattina, grigia come tutte le sessioni autunnali, eravamo pochi nella piccola aula di chimica dove si svolgeva l'esame di organica. Un cubo vuoto dalle pareti sporche, con il fondale di lavagne a scorrimento, coi gessetti che stridevano sulla superficie rosa dall'uso ed i cancellini di feltro che da eoni non erano stati sbattuti e diffondevano nell'aria un tenue polverino bianco. In fondo all'aula un gruppetto di giovanotti in giacca a e cravatta, tremebondi gli uni, gli esaminandi, un po' più rilassati ma preoccupati per il futuro gli altri, gli auditori. Alla cattedra, vicino a due stanchi e svogliati assistenti, il pimpante professore di chimica, un toscano dalla parola facile ed aggressiva. Il mio amico viene dunque chiamato, consegna il libretto ad uno di due scherani che comincia a consultarne i voti; un tempo questa era la fregatura se eri uno studente mediocre, mentre se acchiappavi qualche trenta all'inizio, tutto era in discesa e si dispone quasi sull'attenti ad affrontare il fuoco nemico. Il prof si alzò e vergò con cura una formula sulla lavagna e chiese se l'esaminando sapesse riconoscere il composto. Lo sguardo dubbioso e confuso di E. ondivagò sulla nera superficie, cominciando a scorrere lungo la catena dei tre atomi di carbonio come sgranando le palline di un rosario di duro diaspro, alla ricerca di un qualche appiglio per non esser affondato al primo colpo. Allora si usava così. Dentro o fuori. Tra lo sguardo pensoso, mentre gli occhi umidi ruotavano qua e là alla disperata ricerca di aiuto, il cerbero, forse si commosse e se ne uscì con la battuta che per certo aveva lungamente studiato e che, certo, riteneva spiritosissima. "Dunque, vedo che non è molto preparato, ma visto che questa mattina è il primo, voglio proprio aiutarla. Se lei ha un insalatone, con cosa lo condisce? Con l'olione e con.....con.... su forza che è facile" . Uno sguardo di gratitudine affiorò immediatamente nell'occhio disperato del mio socio che si affrettò ad afferrare quella insperata ciambella di salvataggio e se ne uscì pronto e candido: " Con il limone". L'occhio del prof si vetrificò e il viso divenne d'un tratto paonazzo, poi con furia afferrò il libretto dal tavolo e lo scagliò contro il malcapitato, urlando :"Se ne vada!" Anche la polvere di gesso rimase per un attimo ferma a mezz'aria, congelando quel momento topico, che rimase a lungo nella storia della facoltà. Ma forse erano altri tempi.

domenica 27 settembre 2009

Jūn shì

Non è facile esprimere nella lingua cinese il concetto di equilibrio, proprio per la complessità di implicazioni che genera questa astrazione. Ecco così la scelta dei due caratteri "jūn shì" che letteralmente significano forze bilanciate, con l'ideogramma di destra in cui si riconoscono in basso il segno di Forza (la vanga bidente usata nei campi dall'uomo, ricordando sempre che la lingua cinese ha alla base la cultura contadina) e in alto a sinistra uno delle tante stilizzazione della mano che questo strumento usa con fatica. Quindi l'equilibrio è un concetto assai largo, sia fisico che mentale, ma in entranbi i casi con le medesime caratteristiche che si raggiunge solo con applicazione, fatica, continua dedizione in ogni tipologia di evento umano. Questo è uno dei probabili motivi per cui tutte le tecniche del corpo orientali, in cui sempre l'aspetto mentale è strettamente legato a quello fisico, hanno in comune la pregiudiziale ricerca dell'equilibrio come fondamento della conoscenza e dell'efficacia dell'attività stessa. Tutte le arti marziali, come anche quelle artistiche, dalla pittura alla calligrafia, non possono cominciare, se prima, attraverso la respirazione o altre tecniche lungamente studiate non si raggiunge quella equilibrata serenità che consente di applicarsi alle tecniche apprese. Il fine, come è ovvio è il benessere del corpo e della mente, ecco perchè tutte le tecniche mediche , agopuntura, massaggio, diagnostica del polso e tutto il resto che fa parte della medicina cinese, ricercano innanzitutto l'equilibrio, l'assenza del quale genera la malattia o meglio il malessere. La cosa non è così fumosa come può apparire e per trovare un riscontro scientifico a quanto detto, ecco che il Centro di Medicina Sportiva di Cuneo con la collaborazione del grande Maestro Enrico Colmi, ha iniziato una ricerca che mi sembra interessante. Si vuole verificare se i praticanti di arti marziali orientali e di Tai Ji in particolare abbiano un equilibrio maggiore a chi queste cose non fa. Così con un gruppetto di amici, ieri mattina ci siamo sottoposti alla macchina infernale, dove legati a fili e a sensori ci si pone alternativamente su un piede solo, prima ad occhi aperti e poi chiusi e infine su una tavoletta basculante, liberi e poi legati, per non farsi aiutare dagli arti a contenere le oscillazioni, si misurano i tempi di resistenza senza appoggiarsi alla barra sensibile, l'ampiezza e la frequenza delle oscillazioni stesse, i movimenti del corpo grazie ad un sensore fissato sul petto, quelli dei basculanti e molti altri parametri. Pare che l'equilibrio del corpo che, con l'aiuto di meccanismi coscienti esterni come la vista e il labirinto dell'orecchio, ci consente di non cadere, sia tutto in una serie di recettori posti attorno ai tendini ed ai legamenti delle articolazioni basse che inviano informazioni ad un area non cosciente del cervello che, con istantanei micromovimenti, provvede a farci mantenere in piedi nelle varie condizioni. Sarebbe questo l'apparato propriocettivo, di cui anche un tuttologo come me, non conosceva neppure lontanamente l'esistenza; ma, come ho già detto, basta abbozzare , come insegna la tuttologia e cercare di fare domande intelligenti. L'efficacia del sistema diminuisce con l'età e con il disuso. Ecco l'interesse di tecniche che aumentino o allenino tutto questo ambaradan. Tutto questo interessa ovviamente sportivi, anziani, ma in ultima analisi tutti, che di maggiore equilibrio in molti sembrano avere necessità. Anche io che, colto fin dal mattino presto da un micidiale colpo della strega figlio della mia antica discopatia, sono stato dalle mani magiche di Enrico (ve lo consiglio caldamente), che trapanandomi i punti sensibili, in pochi minuti mi ha rimesso in condizioni di ritornare a casa. Naturalmente il verdetto comune della medicina orientale ed occidentale messe a confronto è stato unanime, nel senso che se perdessi una ventina di kili, forse le cose andrebbero meglio. Potenza dell'equilibrio.

venerdì 25 settembre 2009

Per chi suona la campana.

E' mattina presto in un parco di una città cinese qualunque. L'aria pungente dell'inizio primavera ti lascia respirare bene e tra le piante non arrivano neanche gli odori poco gradevoli di una umanità troppo numerosa per non darsi reciprocamente fastidio. Su un prato un gruppetto di anziani praticano il Tai Ji con movimenti lenti e continui che aiutano a fare spazio tra i pensieri, a rallentare le connessioni tra neuroni, a far fluire con regolarità vagotonica i tuoi bioritmi. Anche i suoni sono lontani, quasi impercettibili, ovattati dallo spazio e dalle distanze. In fondo al giardino, d'un tratto, una percussione netta fa esplodere nell'aria un suono forte e deciso che si spande nell'aria in onde sovrapposte come una pietra gettata sulla superficie piatta di uno stagno. E' una sonorità grave quella della grande campana cilindrica che sta sotto un porticato di colonne rosso laccato a cui un monaco ha spinto, con un movimento ritmato e deciso, il grande batacchio contro la parete ricoperta di minuscoli caratteri in grafia antica. Dura a lungo il suono di una grande campana, pervade l'aria come un liquido denso, scemando a poco a poco come vino che cola gli archetti di glicerina lungo le pareti di un bicchiere di puro cristallo. Lentamente, con spazi precisi e preordinati. Tutte le campane che ricordo danno queste sensazioni. I colpi frequenti ed acuti da un basso campanile bianco della chiesetta di Chamula nel Chapas, il tintinnio delle campanelle dorate dei templi buddisti di Chang Mai, la campana rituale battuta col pestello di legno dei monaci tibetani al monastero di Sera, le grandi campane giapponesi fatte risuonare dal movimento di un tronco basculante, il concerto lontano dalle torri di Notre Dame ed anche l'Ave Maria che alle otto di tutte le mattine, il campanile del mio paesetto di montagna, proprio sopra la mia testa, spara in maniera assordante e ripetuta, eppure non fastidiosa. O ancora le piccole campane che fanno da sottofondo continuo al verde ricco di sentore di spezia di Bali, i tocchi pesanti nella semioscurità della cattedrale di Colonia, il desiderio di farsi sentire dei suoni che scendono dalle cupole a cipolla del grande monastero di Kiev sulla riva del Dnieper ghiacciato, lo scampanio di quelle appese al collo degli animali al pascolo in una valle alpina o quelli un po' più sordi e rapidi dei piccoli campanacci delle capre dei monti del centro di Creta. Diversamente da quasi tutti gli altri mezzi inventati dall'uomo per produrre suoni, questo dà sempre una sensazine di misterico, di trascendente, della ricerca umana di appoggiare la propria debolezza a qualcosa di più forte e tranquillo. Chi ha inventato la campana? Certo qualcuno che cercava la pace interiore. Avrete capito che stamattina non sapevo di cosa scrivere, ma mentre scorrevo le foto che ho in archivio alla ricerca di idee, la vista di questa campana lontana si è subito accoppiata magicamente al vuoto mentale, entrando automaticamente in risonanza. Secondo voi ci vogliono più campane in giro?

giovedì 24 settembre 2009

I gradini di Palitana.

Oggi di nuovo India. D'altra parte sapete quanto sono legato a questa terra e quindi mi verrà perdonato il fatto di non mollare il filone una volta intrapresa la strada. Tra le altre cose io sono morbosamente attratto dai luoghi di culto di massa. Mi piace perdermi nelle folle oranti con gli occhi e la mente rivolti al trascendente. La speranza di un premio alla sofferenza reale, il desiderio di ricevere protezione alla debolezza propria dell'uomo, il voler credere in ciò che razionalmente non è credibile per assopire la sofferenza; tutto questo crea atmosfere ed emozioni che difficilmente si vivono in altri contesti. Palitana, una città templare perduta su una alta collina del Gujarat, è uno di questi luoghi. Ma per raggiungerla, come per altri di queste realtà, bisogna soffrire, forse aiuta ad ottundere la mente o solo prepararla al trascendente. Intanto, quando si raggiunge il villaggio situato alla base del monte, si è già depurati fisicamente da una dieta rigorosamente vegetariana, che in questo stato indiano è obbligatoria e da qualche giorno nei ristorantini avrete trovato solo pappe di cereali, verdure in ogni salsa e quantità di chilly tali da avere la mucosa del palato ormai completamente insensibile. Il calore estivo brutale, coopererà a levarvi ogni volontà e forza. I vostri chackra ormai saranno belli e bolliti, quando ai piedi del monte osserverete con orrore l'inizio della scala che con ottomila scalini si inerpica sinuosa lungo le cornici, prima di giungere al Nirvana. Ma a tutto c'è rimedio, dove non arriva la divinità ecco l'inventiva dell'uomo misericordioso che si preoccupa del benessere del pellegrino. Come non ricordare che ogni luogo santo è anche business e fonte di reddito per molti, oltre che per le gerarchie religiose naturalmente, che attendono in cima alla collina. Dunque, agli sgomenti pellegrini che si affastellano nella piazza antistante la salita, ecco offrirsi degli uomini muniti di attrezzature atte al trasporto umano manuale, anzi a spalla. Ogni coppia di portatori è dotata infatti di un robusto fusto di bambù, le cui estremità vengono poste a bilancere sulla spalla. In mezzo è appeso un sedile approssimativo dove prende posto il trasportato e così, lentamente, faticosamente, inizia la salita, scandita dal passo ritmato dall'esperienza e dal dondolio ansimante dei portantini. Saggiamente la coppia è formata da un piccolo che sta avanti per pareggiare berlusconianamente la statura con quello che segue, ma non dovete pensare a giovani nerboruti abituati a sostenere senza sforzo delle ciccione ricoperte di sari colorati. Il bisogno (e la dieta) in effetti, costringe a questa attività degli omarini di magrezza inquietante che danno l'impressione di esalare ad ogni passo l'ultimo respiro. Questo non pare commuovere affatto i buoni e ricchi indù che vogliono raggiungere la vetta, i quali, anzi, con noncuranza sembrano incitare i portatori a muoversi con maggiore alacrità. Fatto sta che ogni cinquantina di gradini ci si ferma per una breve sosta. Gli omini appoggiano gli estremi del bilancere sul tripode di robusti bastoni che servono loro anche per sostenersi nel cammino (sarà da qui che è nata la moda di camminare con i bastoncini?) e tirano il fiano. Era l'86 e casualmente in quel tempo questo numero corrispondeva alla mia massa in kg. Alla prima sosta i miei due ansimavano come mantici. Il sudore colava lungo le schiene dal colore del cuoio battuto come se piovesse; le pupille dilatate faticavano a mantenersi nelle orbite nell'afa opprimente. Si tolsero la pezzuola che tenevano sulla spalla per evitare l'attrito e solo allora mi accorsi con orrore dei due grossi lividi violacei che occupavano tutto l'incavo sulle clavicole dei miei due, così come a tutti quelli che ci circondavano ansanti. Scendemmo subito dai bilanceri e versammo il compenso pattuito per la salita al monte, tra i dinieghi timorosi di non essere stati sufficientemente confortevoli. Se ne tornarono indietro, i nostri, senza ben comprendere, spiaciuti di non essere stati apprezzati, ma pronti per altri clienti. Così a noi toccò l'onere della salita dei rimanenti 7950 scalini. La giornata fu molto pesante ed il bramino che, tra i mille templi ci impose il punto rosso sulla fronte, mormorò parole meditate, forse di comprensione, forse di pietà, prima di raccogliere l'obolo e sparire tra le mille antiche colonne di pietra scolpita.

mercoledì 23 settembre 2009

Rosso betel.

Qui da noi ci si va a prendere un caffè. Così, per socializzare, per fare una pausa, per interrompere per un poco la tensione quotidiana, non per niente si parla di bevanda euforizzante. In India di caffè se ne beve poco, anche se a Mumbai c'è un negozietto a Colaba, che vende una miscela, a suo dire, la migliore dell'India. Però il bisogno rimane. Come una sera di qualche anno fa, mentre il monsone scemava di intensità e il cielo cominciava ad arrossarsi, tra le nuvole ancora grigio piombo, anche se meno cariche di pioggia. Si tornava in città da Surat, zona incentivata, dove sorgevano parecchie fabbriche che avevamo visto in relazione ad una fornitura di una linea per fare tappi. Il proprietario aveva attaccato un pippozzo su come erano alte le tasse, sulla difficoltà di avere buone maestranze e sul fatto che un sacco di farabutti aspettavano che le operaie uscissero la sera per tornare a casa in campagna per violentarsele e quindi molte famiglie non volevano più mandarle a lavorare (non bisogna pensare che tutti gli indiani siano come Ghandi). Così chiacchierando arriviamo ad un grande incrocio con parecchie baracche, banchetti di street food, un mercatino notturno. Da noi si sarebbe detto "dai prendiamoci un caffè". Scendiamo e il gruppetto si dirige verso un baraccotto con un tizio patibolare in attesa in camicia viola. L'ordinazione richiede un certo tempo, deve essere come da noi, chi lo vuole macchiato, chi con latte freddo o latte caldo ma ristretto, americano o al vetro, insomma tutte le varianti che fanno impazzire gli stranieri. Il tizio allora comincia a confezionare i pan; prende da un bacile una bella foglia verde, fresca e turgida, la netta con le dita, poi la dispone piatta sulla mano aperta, la spennella con un liquido di cui ha versato alcune gocce sulla superficie tesa, ci spalma con una apposita palettina una pasta morbida di caolino, poi vi depone qualche seme della noce di palma betel, piccoli e rossi come quelli del melograno, spolvera ancora con qualche spezia a seconda delle richieste specifiche (ecco le mille varianti), quindi ripiega i bordi della foglia a fornare un pacchettino di piccole dimensioni che consegna con deferenza al cliente che lo soppesa un attimo e sembra dire "Se non è buono non vengo più in questo bar" tra i dinieghi sdegnati del barista e se lo mette in bocca cominciando a masticare. I clienti vengono serviti a turno, quindi si continua a chiacchierare rilassati mentre il cavo della bocca si colora di rosso vivo che un poco fuoriesce dalle labbra. Il problema che il caffè va subito giù, mentre il pan si mastica per parecchio tempo e produce anche un sacco di salivazione rosso sangue, così di tanto in tanto, partono degli sputazzi generosi che ricoprono gli spazi antistanti di chiazze vermiglie che solo il monsone porta via col tempo. In fondo basta fare attenzione a non farsi centrare mentre si cammina per la strada, perchè anche gli schizzi macchiano parecchio. E comunque un caffè non si nega a nessuno.

martedì 22 settembre 2009

Yak e tori.


Se meditate un viaggio che abbia molti punti di interesse e magari anche diversi spunti di riflessione, vi consiglierei di progettare un paio di settimane (almeno) in Tibet. Non è difficile, con internet a disposizione, e se ci andate con mente aperta e senza preconcetti, cosa inusuale, ma almeno tentare è già positivo, si possono portare a casa riflessioni interessanti. Magari uno crede o è convinto di certe cose, poi, guardando con i propri occhi, ascoltando campane diverse, comincia a far lavorare il santo germe del dubbio che dovrebbe stare nella testa delle persone pensanti. Dare più spazio al relativismo e cercare di restringere quello delle certezze assolute. Magari partendo da osservazioni marginali, teoricamente di poca importanza. Ad esempio, uno degli animali più conosciuti ed ammirati della zona è lo yak (Bos grunniens mutus), tutti i turisti sono bramosi di toccare con mano questo magnifico animale che, puro tra le vette, sa vivere nella rarefazione dell'alta quota permettendo che la vità si svolga anche lassù. Come sempre, però le cose vanno interpretate e capite. Sì, popolava un tempo solitario gli altipiani dall'aria fine, ma era (ed è) animale stizzoso, per nulla docile all'aiuto dell'uomo con le sue bizze fastidiose e le sue bizzarrie continue. Ma verso il suo territorio, col tempo ci fu una continua infiltrazione di bovini (bos taurus), possiamo dire uno stillicidio di migrazione clandestina di animalacci dediti a faticare senza lamentarsi che, pur molto malvisti dai duri e puri, hanno cominciato a mescolarsi con gli aristocratici yak, dando luogo a sempre più frequenti incroci. Questi ultimi chiamati Dzo o Dzopkio, assai più resistenti e validi (probabilmente anche più intelligenti) che assommano i pregi di entrambe le razze, sono ormai la maggioranza assoluta sul territorio. E' un po' la storia del mulo, insomma. Forse qualche gruppo di yak ha cercato di contrastare questo andazzo, non gli andava certo di spartire il territorio con i nuovi venuti, sporchi di letame e incolti al massimo, che, tra l'altro, si sdraiavano dappertutto senza rispettare le tradizioni e le convenienze, se potevano si acchiappavano le femmine e muggivano anche in un modo del tutto incomprensibile, ma la storia compie inevitabile il suo corso ed è difficile opporsi. Inoltre gli yak, a suo tempo non avranno avuto neanche giornali o capi partito o non avranno potuto formare leghe o gruppi per opporsi al destino che incombeva inevitabile. Ma tant'è così sono andate le cose nel lontano Tibet. Tra l'altro, se ci andate, evitate di chiedere, come ho fatto io, informazioni agli abitanti, sul famoso burro di yak, che è un po' la bevanda nazionale. Infatti lo Yak è un nome riferito soltanto al maschio della specie, la femmina si chiama Dri, un po' come toro e vacca e chiedere del burro di yak ha un significato assolutamente disdicevole.

lunedì 21 settembre 2009

Bianco argento.


Io ci casco quasi sempre. Sono attratto con una certa morbosità dal lavoro dell'artigiano, di qualunque tipo esso sia, forse per l'invidia che provo verso chi ha capacità manuali, io che ho "les deux mains gauches", come diceva la mia zia Blanche di Parigi, forse per la bellezza dell'opera che nasce e cresce sotto i tuoi occhi, prende forma, ricopre l'idea di materia, sempre diversa, sempre unica anche nella sua ripetitività. Mi piace fermarmi a guardare il lavoro nelle piccole botteghe, spiare le donne turche che annodano un tappeto, i sarti indiani attaccati alle vecchie Singer che pedalano furiosi, gli intagliatori di legno duro di Ceylon che creano le loro piccole statue serene. Ricordo un tardo pomeriggio, in un piccolo vicolo di Surabaya a Giava, mentre il sole insanguinava il cielo dietro i vulcani lontani (porca miseria se sono melenso oggi!), un negozietto stretto e lungo pieno zeppo di lastrine di argentone sbalzate, con tanti scaffali lungo le pareti colme di bicchieri, scatole di ogni dimensione, quadri, da cui nella penombra emergeva il tuttotondo di figurine di dei, guerrieri, fanciulle a cantare di un'epopea antica, di fasti perduti. Con la scusa di guardare la merce mi attardai a lungo, sedendomi infine su un basso sgabello a tre gambe, proprio davanti al piccolo deschetto in fondo al negozio dove un rugoso vecchio picchiettava con un martelletto una lastrina quadrata. Pareva non vedermi e continuò il suo lavoro lento e costante. Dava piccoli colpi con una serie di chiodi dalle punte diverse e sotto le spinte si gonfiava una testina, un torace possente, le strie sinuose di una lunga chioma, due seni voluttuosi di una fanciulla. A poco a poco la lastrina si completò sotto i miei occhi, più volte voltata e rivoltata per precisare i contorni dello sbalzo. Quando giudicò finito il lavoro, alzò gli occhi con un lieve sorriso, guardò il lavoro con soddisfazione e me lo mostrò. Era una scena con il demone Ravana che rapisce Shita. Si poteva apprezzare, pur nelle piccole dimensioni, il viso spaventato della principessa, i muscoli gonfi del feroce assalitore in un equilibrio complessivo che riempiva completamente il piccolo quadrato lucido. Aveva gli occhi contenti il vecchio. Trattai poco, più per onor di firma che per far calare il prezzo. In fondo compravo un lavoro, un progetto, un opera, non un oggetto.

domenica 20 settembre 2009

I fiumi non ritornano.

Oggi voglio invitare tutti coloro che hanno la bontà di seguirmi a dare un’occhiata al bellissimo e struggente blog di Sill Scaroni, Te Pito O Te Henua, grande fotografa, che approfondisce la storia e il presente dei nativi americani. E' in portoghese, ma con un piccolo sforzo , lo apprezzerete ugualmente. Per darvi un motivo in più, vi propongo, tratta dal suo post di ieri, una poesia di Mario Molina Cruz, di cui tenterò una traduzione, come al solito, pressapochistica , ma volenterosa.



Binhakbiá chét guyedll
Ibi'chlloki,ka' yeo bill yabin nhák ke
Bál'ake, yeo'nhan ka' yózen
Zéj llnhiten, chét biyabillen
Lo' yix'kuan
Chét bi yechen tnhez,
lo'nhis'tao yalhanhe...
Yel'yachnhan muslhas llíw ga'tezé.

L’acqua dei fiumi non torna indietro,
e neppure le lacrime.
I fiumi si vanno consumando a poco a poco,
nelle fenditure del terreno, nei laghi,
usati nelle semine
o in mare aperto,
oppure semplicemente vengono asciugati dal tempo.


Non posso e non voglio aggiungere altro. A domani.

sabato 19 settembre 2009

The big brother.

Ho frequentato un paio di banche, una piccola e quasi familiare dove, quando entri ti salutano per nome e il cassiere ti dice che l'addebito delle spese condominiali è in ritardo, l'altra molto grande, dove per un piccolo prelievo ti chiedono il documento e nessuno sa chi sei. E' un po' l'eterna dicotomia del paesino dove tutti si salutano e le vie di Hong Kong dove sei anonimo in mezzo alla folla o il condominio di New York, dove nessuno sa chi è il proprio vicino. Due situazioni con aspetti negativi e positivi al tempo stesso che ti fanno ondivagare tra l'abuso di nickname e la voglia di scoprirsi. E non è che la dimensione fisica del luogo porti obbligatoriamente ad una delle due soluzioni. Un esempio l'ho trovato durante un viaggio in Islanda, una terra semideserta grande quanto la pianura padana. Avevamo affittato una piccola Skoda gialla per le tre settimane necessarie a fare con calma il periplo completo dell'isola. Ci si fermava a dormire a casa della gente in paesini di poche abitazioni o in scuole che durante la chiusura estiva mettono a disposizione (pagando) i dormitori degli studenti. Lo splendore naturalistico di questa terra non ha uguali nel mondo. Non c'è altro luogo con una tale concentrazione di fenomeni naturali, paesaggi e panorami così estremi. Cammini sui ghiacciai più grandi d'Europa le cui lingue terminali finiscono nel mare con le foche che abbaiano tra i piccoli iceberg, vai alle pendici di una concentrazione di vulcani che presenta tutte le manifestazioni esistenti della terra nascente, eruzioni, fumarole, geyser, campi di lava, isole intere nate dal mare che crescono e scompaiono in pochi anni, vedi almeno una decina di cascate tra le più belle del mondo per dimensioni e forme diverse, deserti di sabbia nordafricani a pochi kilometri da fiordi scandinavi e molto altro ancora (se non avete capito è un invito alla visita, se vi piace il salmone a colazione e spot gratuito per l'ente del turismo islandese, che mi sarà grato). Le strade sono quasi tutte sterrate e deserte, così quando forammo una gomma vicino a Thingvellir, non fu semplice sistemare la questione aggirandoci per paesini e torbiere con antiche case dai tetti di erba. Quando dopo qualche centinaio di kilometri tornammo a Reykiavik, la piccola capitale ci sembrava una metropoli tentacolare e solo il persistente odore di uova marce che usciva dai rubinetti dell'acqua calda ci certificava il fatto di essere in una terra dove l'energia geotermica la fa da padrona. Riconsegnando la macchina, rassicurammo il gestore che avevamo avuto una vacanza senza problemi e la sua risposta ci lasciò senza parole. "Lo so - disse sorridendo - avete soltanto bucato una gomma...". Il grande fratello, se qualche volta rassicura, generalmente intimidisce e preoccupa. Ce ne andammo perplessi, guardandoci le spalle. Però temo che col casino che hanno combinato gli islandesi con le banche, ci deve essere una falla nel sistema.

venerdì 18 settembre 2009

Giallo granturco.

Mezzo sole e mezze nuvole. Tempo buono per girare in campagna, almeno finchè non piove. Sul bordo del campo, stando attento a dove metti i piedi. Nella mia prima vita, quando facevo il sementiero, questo era il tempo di andare, prima ad Idice e poi a Badia Polesine, a vedere le novità nei campi sperimentali. Il mais era lì, quasi pronto in belle file ordinate, quasi completamente secco lo stocco e le foglie, la pannocchia apicale ancora eretta, ma per poco, le spighe enormi che quasi scoppiano nel tentativo di liberarsi delle brattee con le barbe ormai scure e le centinaia di cariossidi dorate che fremono per mostrarsi ancora traslucide, ansiose di lasciarsi alle spalle quello stato ceroso interno che le fa gonfie, prima di cominciare il rattrappimento che precede la completa maturazione. Che pianta straordinaria il granturco. Una vera macchina da produzione. Completamente artificiale, nulla di quanto si vede oggi esisteva anche solo poche centinaia di anni fa. La selezione prima, poi gli incroci continui, infine l'ibridazione hanno trasformato una timida pianticella, il teosinte, che metteva sul pennacchio poche unità di sparuti granelli in un fenomeno produttivo che sforna centinaia di semi in pochi mesi aggiunti a kili di massa verde. Tutto artificiale; la specie scomparirebbe in una stagione se qualcuno non sgranasse la spiga per separarne i semi prima di riseminarli. Se cadesse a terra tal quale, le centinaia di germogli, troppo vicini non avrebbero la forza di dare luogo ad una nuova pianta. Ci infilavamo tra le file di piante tastando, confrontando, misurando il miracolo della ricerca, del miglioramento genetico, allora non avevano ancora cominciato a chiamarli OGM, incuranti del fastidio micidiale sulla pelle, che dopo un po' veniva rossa e il prurito si faceva quasi insopportabile. Ma volevamo valutare se il carattere foglie strette permetteva di seminare più ravvicinato o se l'incrocio con quella femmina più resistente alla siccità aveva dato piante più vigorose. Poi ce ne tornavamo a casa e si organizzava la visita al campo prova, dove le nuove varietà faceva bella mostra di sé su qualche fronte strada della provincia. Si controllavano i cartelli con i nomi, la qualità delle piante, poi il giorno della manifestazione, arrivavano gli agricoltori e i concorrenti ad osservare, ad informarsi , a criticare. Il rinfresco, semplice per la verità, era un po' il clou della festa; molto vino della nostra cantina sociale che si auto pubblicizzava e i tavolini con le file di cartelline preparate in bell'ordine con i dati delle varietà. Andavano subito a ruba, come tutti i gadget di qualsiasi tipo appoggiati di fianco, dai cappellini alle biro, ma le cartelline erano le più richieste, forse perchè corredate da un bel block notes per gli appunti. Quasi sempre un paio di agricoltori burloni ritiravano subito le prime e infilavano di soppiatto tra i fogli un paio di biglietti da 100.000 Lire, aprendole poi, come per caso di fianco ad un gruppo di altri ed infilandoseli con noncuranza in saccoccia e subito, con sguardi prima incerti e poi avidi tutti correvano a servirsi, sfogliandone con precipitazione i depliant interni, poi delusi di non trovare nulla, posavano il malloppo e lo scambiavano con un altro, più volte, guardandosi intorno furtivi, non prevedendo la nuova delusione, tra le sghignazzate degli abitué che già conoscevano lo scherzo. Poi invariabilmente cominciava a piovigginare e si tornava tutti a casa bagnati con qualche grande spiga di mais dorata da appendere in cucina.

giovedì 17 settembre 2009

Sogno kazako.


Il Kazakistan è una terra un po' desolata. Quasi tutto deserto e pianure sconfinate. La gente, che probabilmente aveva passato durante il periodo dell'URSS qualcosa di simile a un lungo sonno, sembrava ancora un po' stordita dai cambiamenti provocati dal passaggio alla CSI, di cui però nella vita di tutti i giorni si sentiva poco o nulla. Gente varia anche lì, come in tutti i melting pot, costituita dalle diverse etnie dell'Asia centrale, uzbeki magrolini e barbuti, turkomanni rubizzi, kirghisi più montagnini mescolati alla maggioranza kazaka, formata da personaggi immensi, alti, grossi, dai visi simili a statue orientali. Sembra che ci sia poco da fare in quei posti, invece, il soldo circola bene anche da quelle parti e avevamo clienti anche lì. K. era uno di questi. Se dovevi figurarti le fattezze di Gengis Khan o di Attila questi era perfetto per la parte. Smisurato nell'altezza e nelle dimensioni, dava l'idea di un forza disumana, con mani enormi e dure come tenaglie, ma era la testa quella che più impressionava. Quadrata, completamente piatta davanti, con labbra spesse e gli occhi ridotti a due fessure sottili. Se te lo immaginavi con un elmo a cavallo con una spada in mano, sapevi che non avresti potuto chiedergli mercede. Invece era sorprendentemente gioviale ed allegro, sempre pronto a fare festa e a dare temutissime pacche sulle spalle con le tremende manone, mentre cercavi di schivare i suoi tentativi di baciarti sulla bocca con affetto. Era ricco ovviamente e si voleva sentire munifico come un satrapo orientale, per sentirsi amato dai suoi, come quando regalò mille dollari (cifra esagerata per il posto) al matrimonio di un suo scagnozzo, quando gettava mazzi di banconote ad un gruppo di cavalieri incontrati lungo la strada perche dimostrassero per i suoi ospiti un buskashì, la gara in cui ci si strappa di mano, cavalcando, una carcassa di montone o come quando voleva organizzare un marito appropriato per la nostra Stefania, scelto con cura tra la sua gente migliore. Gli avevamo venduto una linea per produrre ed imbottigliare bibite gasate, ma aveva tanti sogni, tanti progetti. Un sistema di serre per ortaggi, una fabbrica per produrre alimenti per neonati; tutte cose utili al paese e infine la cosa a cui teneva di più un grande albergo moderno come ancora non ce n'erano nella sua città, un po' periferica rispetto alla capitale. Voleva che fosse all'altezza dei migliori del mondo, come quelli che aveva visto durante il suo viaggio in Italia e ci mandammo appositamente un architetto specializzato perchè vestisse da occidente il fabbricato che stava per essere costruito. Fu portato in pompa magna sul luogo dove già sorgeva una fatiscente costruzione a due piani. Qua e là emergevano tratti di calcestruzzo eroso, putrelle corrose dalla ruggine, pietre spezzate sui davanzali di finestre cieche; pareva uno scheletro dopo il bombardamento. Il nostro chiese se quello era l'edificio da abbattere per far posto al nuovo albergo. K. ci rimase male perchè quella era la sua costruzione appena finita, fresca di muratori, che lui considerava un po' il suo capolavoro. Allora non se ne fece niente. Era un candido K., così quando chiedemmo spiegazioni per i trecento euro di extra che ci erano state esposte in fattura, quando lo portammo a pernottare a Venezia una notte sul Canal Grande, ebbe difficoltà a capire un meccanismo estraneo alla sua cultura. Disse che aveva telefonato tutta la notte ad un numero indicato da un canale televisivo e che iniziava con 144, per chiedere che gli mandassero in camera quella gentile odalisca che veniva mostrata nel programma, ma non era riuscito nell'intento ed a tarda notte aveva desistito. Non lo turbammo più con spiegazioni troppo complesse.

mercoledì 16 settembre 2009

Elogio della tuttologia.

Uno dei motivi per cui alcuni miei amici mi disapprovano (vero Mariuccia?) è che il mio assunto principale recita: "Piuttosto che fare una cosa molto bene, preferisco farne molte male". Sarà pigrizia congenita, sarà incostanza cronica, sarà una curiosità genetica che mi spinge a sfarfalleggiare suggendo il nettare della conoscenza qua e là a piccoli morsi come per testare cucine diverse. Tanto per farvi un esempio, non conosco bene neanche l'italiano (come avrete notato spesso), ma per contro, mi sono interessato di penetrare i meccanismi di almeno una decina di lingue e di altre lo faccio ogni volta che ne ho la possibilità. Così mi sono iscritto alla benemerita congregazione dei tuttologi come avrà notato chi ha la bontà di seguirmi. Questa disciplina, negletta e vituperata, quando non derisa e disprezzata, mi affascina e mi conquista ogni giorno di più. Si è detto che lo specialista sa quasi tutto su quasi nulla, mentre la stupenda posizione del tuttologo è che non sa quasi nulla, ma su tutto. Questo lo mette in una straordinaria posizione di vantaggio, in quanto (se riesce ad essere anche intelligente e questo purtroppo non si impara) lo mette in grado, quando è in presenza di uno specialista, di poter ascoltare qualunque cosa, riuscendo, quanto meno a capire di cosa si sta parlando e potendo quindi fare al medesimo, domande pertinenti che lo rendono partecipe, mentre con gli incompetenti della materia può comunque tenere banco, certo (sempre se è intelligente e non si allarga troppo) di non dire scemenze. Può partecipare, con i suoi limiti a tutte le discussioni e questo fatto continuerà ad arricchirlo e a stimolarlo a guardare in altri pollai. Vi ricordo che comunque tutte le grandi teste dell'umanità sono stati enciclopedici, come si diceva un tempo. Oggi però, con lo sterminato aumento delle cognizioni possibili, l'appellativo di tuttologi mi sembra più calzante, proprio perchè data la mole di materiale disponibile bisogna contentarsi di sempre minori informazioni su ogni campo, visto che anche questi si moltiplicano a dismisura. Non dimenticate che il tuttologo è poi sempre il centro della festa, proprio perchè è in grado di parlare ma, soprattutto stare ad ascoltare tutti, virtù questa molto rara e quanto mai apprezzata in particolare dagli specialisti. Vi sarà capitato di chiedere ad un amico appassionato di montagna se preferisce arrampicare libero o in cordata e quello non vi mollerà più, se gli date retta mentre vi enumera le ultime novità tecniche e così via. Certo da un lato, questa esasperazione specialistica mi preoccupa, dall'altra mi consola. Chiedevo l'altro giorno ad un amico medico il nome di un buon angiologo, specializzazione assai specifica (consentitemi la tautologia) e lui di rimando, mi ha chiesto di precisare se mi interessava specializzato nelle vene o nelle arterie! Tra un po' sarà dura anche per noi tuttologi stare dietro a tutto. Comunque, uno dei maggiori difetti imputatici è quello di essere troppo prolissi e parolai, forse per coprire la nostra ignoranza e nascondere i nostri limiti, per cui la pianto di allungare il brodo, tanto avete capito tutti che oggi non sapevo cosa dire ma non volevo esimermi da questo appuntamento quasi quotidiano, d'altra parte sono o no il miglior blogger degli ultimi 150 anni di repubblica?

martedì 15 settembre 2009

All organic!

Non ho dubbi su cosa farei se dovessi cominciare un business. Una delle poche cose che credo di aver imparato è che nel commercio bisogna seguire la corrente, non devi sprecare preziose energie per convincere la gente di qualcosa di cui è già convinta, quello che è talmente evidente a tutti da non aver bisogno di prove o conferme. Qualcuno ha detto che questo secolo sarà il tempo delle religioni, perchè emerge prepotente quella parte del pensiero che vuol credere a tutti i costi anche nell'incredibile, che vuol lasciarsi andare alla tranquillità di chi ti da assicurazioni senza bisogno di cercare conferme. E' difficile e faticoso accettare la debolezza e l'insicurezza della realtà, mentre è così facile individuare il male e abbandonarsi a chi ti dice: credi in me che ci penso io, rilassati e consuma. I grandi gruppi lo hanno capito da tempo e si sono buttati nell'affare, non vogliono certo sprecare energie ad andare contro corrente. Io mi metterei senz'altro nel biologico-organico-natural-eco-comesistavabeneuntempo. I consumatori apprezzano entusiasticamente questa linea, aumentano con ritmi cinesi di anno in anno e accettano qualunque proposta, disponibili a pagare di più e certi di fare la cosa giusta specie per i bambini e le future generazioni. Qualche giorno fa, una mia amica inglese nutriva amorevolmente il nipotino in fase di postsvezzamento con delle strane cose, tipo quelle che si trovano nei sacchetti colorati a base di patata cosparsa di spezie varie, che normalmente noi chiamiamo le schifezze. Mentre il bimbo se le succhiava di gusto, rispose alla mia meraviglia con un: -All organic- mostrandomi il sacchettino che riportava una serie di dati impressionati. Oltre ad assicurare la mamma compratrice che il contenuto era totally organic, snocciolava una serie di cose buone contenute, una certificazione che tutte quelle kattive e kimiche(?) tipo glutine o colesterolo, non c'erano o se c'erano erano in percentuali assolutamente accettabili (quasi buone) ma comunque naturali (colori, grassi, ecc.) quindi facevano anche bene, assicurava la totale assenza di cose allergiche (adesso tutti pensano di essere allegici a qualche cosa, mi raccomando è un punto importante su cui spingere) e infine conteneva una vera perla che certo copierei per la mia linea di prodotti. Nell'elenco dei contenuti, brillava in ultima posizione : Junk food, 0%. Capito, la legge inglese evidentemente consente di scrivere che il tuo prodotto contiene lo zero per cento di schifezza, assieme al 12% di proteine e al 25% di carboidrati e la gente lo compera felice di aver protetto il proprio pargoletto (pagandolo il quadruplo). Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa l'amico Bressanini. Comunque la forma delle crocchette o quello che sembravano era in tutto e per tutto simile, bitorzoli giallastri cosparsi di puntini rossi tipo salse piccanti (but they are organic carrots!), alle normali schifezze, forse per cominciare ad abituare l'occhio dell'infante ai futuri consumi, un po' come le sigarette di cioccolato che c'erano quando io ero piccino. Potenza del marketing, c'è sempre da imparare.

lunedì 14 settembre 2009

Fēi.

Volare è il sogno dell'uomo, in tutti i tempi ed in tutte le culture. Per alcune più che in altre è assieme sogno e poesia. Seguendo le indicazioni dell'amico Ferox, quindi volevo portare la vostra attenzione su uno degli ideogrammi più poetici della lingua cinese. Nell'antichità per trascrivere l'idea del volo si tracciava un complesso carattere che voleva raffigurare delle cicogne in volo col collo slanciato mentre attraversano il cielo al tramonto, in stile un po' Lufthansa tanto per capirci. Nel tempo l'ideogramma si è andato stilizzando come si vede nella versione tradizionale a sinistra dove si lascia spazio alle ali distese, mentre nella versione moderna "semplificata" la grafia veloce ha letteralmente spennato le maestose ali della cicogna riducendole a due misere alucce e alla lunga gamba visibile del trampoliere in oggetto. Così unito a jī (macchina) abbiamo abbiamo (macchina che vola) quindi "aereo", perchè oggi bisogna produrre di più e più velocemente e lo spazio per la poesia deve essere necessariamente ridotto, ma ecco che il germe non si spegne e si fa strada comunque, perchè la bellezza anche se calpestata dall'economia non muore mai e se uniamo il nostro fēi al carattere di "bianco" abbiamo il significato di parola scritta, in quanto se i caratteri sono vergati con la giusta attenzione e lentezza della bella calligrafia, rimangono molti spazi bianchi , come se il pennello volasse.... Ma insiste Ferox che i cinesi non solo solo dei poeti sognatori, ma sanno credere anche alle cose reali e vogliono capire a fondo anche quelle cose che da noi si sottovalutano o vengono prese come scherzi estivi. Ecco allora che mi porta l'attenzione su : bu ming fei xing wu. Le prime due sillabe le abbiamo già viste e quindi ve le ricordo soltanto () "non chiaro" , mentre le due che stanno accanto a fēi (volare) significano oggetto. Dunque? Oggetto volante non identificato, UFO, detto anche fei die (碟) "piattino che vola". Ehehehehe, loro pare che ci credano, anzi li studiano con attenzione, ci sono addirittura delle riviste che ne parlano dettagliatamente, poi basta dare un'occhiata su iutiub e se ne trovano a iosa (es. qui , qui , qui ). Ferox dice che è per questo che ci stanno fregando, magari gli omini verdi erano gialli in effetti; d'altra parte se la moglie del neo-primo ministro giappnese dice di essere stata rapita dagli UFO, qualcosa di vero ci sarà.

domenica 13 settembre 2009

Ricami rossi.

Sono molti anni che non vedo più Zhenjia. Quando l'ho conosciuto cominciava l'inverno russo, con le sue poche ore di luce, il colore giallo delle lampadine e dei lampioni sovietici così fiochi, l'odore di benzina scadente per le strade quasi deserte di auto, con la neve sporca che si accumulava prima di ghiacciare fino a primavera. Mi guardava con sospetto malcelato all'inizio, timoroso come sempre delle cose nuove. Glielo aveva insegnato una vecchia zia nata a San Peterburg prima della rivoluzione, che era stata allo Smolnji da ragazza, che ogni cambiamento porta disgrazie e dolori. E ne aveva viste parecchie la vecchietta prima di morire, ma per lo meno le era stata risparmiato lo sfacelo dell'URSS con tutto quel che stava capitando alla maggioranza debole della gente. Zhenjia temeva sempre che ci fosse sotto qualcosa e quindi cercava di mettersi di lato, diremmo contro il muro, avendo imparato a lasciar passare la furia della corrente per non farsi portare via. Mi divenne amico affettuoso o forse fedele, temendo chissà cosa come sempre, cercando di mostrarsi servizievole, apprezzando che fossi interessato ai suoi racconti del passato. Di quando lo zio che raccontava barzellette sul regime, non era più tornato a casa, una komunalka nelle vie della vecchia Mosca; di quando poco più che adolescente visse con sgomento la morte di Stalin, delle sirene che per quindici minuti lacerarono l'aria per annunciarla in un silenzio tombale, di come si sentì orfano in quel momento; di come si sentiva felice e padrone del mondo, quando ebbe il primo stipendio di trecento rubli come traduttore. Parlava un italiano forbito, con lentezza, scegliendo con cura le espressioni e usando parole ricercate come "corpulento", che gli piaceva molto, anche se non ruscì mai a correggere il forte accento, per cui lo prendevamo un po' in giro. Non corresse mai la sua espressione proverbiale con cui cominciava tutti i discorsi. "Prego la scusa" iniziava sottovoce ed in tono dimesso, sempre timoroso di disturbare e quindi di subire chissà quali punizioni. E dire che la sua famiglia aveva visto grandi fasti un tempo; si favoleggiava delle sette gioiellerie che il nonno possedeva a San Peterburg prima della rivoluzione. Grande giocatore di scacchi, anche nella vita, cercava sempre di avere una seconda ed una terza soluzione ai problemi, una via di fuga, se andava male la prima scelta; questo aveva insegnato la vita a lui, ebreo, in un paese che gli ebrei non ha mai amato, nel migliore dei casi ha disprezzato, come qualche trombone di cliente che ci apostrofava: "Ma com'è che vi tenete quel giudeo?" mentre lui si ritirava nell'ombra. Una vita a prepararsi vie d'uscita, a declinare responsabilità, a scegliere il profilo più basso per non farsi notare, per tenersi nella penombra, eventualmente, se c'era bisogno per dare la pugnalata fatale. Non voleva il thé, ma si accontentava di un po' di "calda acqua" e a all'Hotel Kimik di Cerkiesk aveva rifiutato la camera Liux che per i cittadini sovietici costava un dollaro in cambio di quella Standàrd che costava mezzo dollaro a notte, per non fare spendere troppo alla ditta. Aveva voluto per sé un ufficetto misero, un vero bugigattolo, però situato strategicamente in fondo al corridoio, in modo che si avvertissero nitidamente i passi di chi arrivava e che lo sorprendeva sempre alacremente al lavoro. Quando era venuto a Roma ad accompagnare dei clienti era stato derubato dei pochi soldi che aveva da alcuni zingarelli davanti al Colosseo e non si dava pace. - Devo essere punito, assolutamente per la mia sbadataggine, nonostante tu mi avessi avvertito.- dichiarava come un mantra in una continua flagellazione, in perfetto stile da autodenuncia alla Lubjianka. Eppure era felice della sua vita, felice di lavorare per una azienda italiana, mai per i tedeschi che odiava senza fraintendimenti. La relativa agiatezza che questo gli dava, lo rendeva sereno anche se continuamente timoroso che tutto avesse fine prima o poi. Era felice a modo suo, pago delle piccole cose che amava. - Sai Enrico - mi diceva, quando ormai si era maturata una certa confidenza - non c'è piacere più grande di quando arrivo a casa, mi metto le pantofole d'orso che ho preso ad Irkutsk e mi sdraio nella mia vecchia poltrona con un bicchiere da 50 grammi di vodka (la vodka va a grammi in Russia) a pensare ai tempi felici. - Non so cosa intedesse per tempi felici; è un'espressione che dipinge bene la melanconia russa che leggevo spesso nei suoi occhi acquosi e gentili. Chissà come se la passa adesso, ma lo spero con quel bicchierino appoggiato sul vecchio bracciolo ed il bicchiere di thé fumante col manico di alpacca, sul vecchio tavolino di Kiev con la tovaglietta dai ricami ukraini rossi. Na sdarovjie Zenjia!

sabato 12 settembre 2009

Una lettura dei tarocchi.

C’era un posto straordinario a Pekino, lo Xue Shue Market, una minuscola traversa della Chang An, la grande arteria che attraversa da est ad ovest tutta la città passando davanti alla piazza Tien An Men, vicino alle ambasciate. Quando ci passavi davanti quasi non la vedevi, con lo stretto ingresso quasi otturato da tre o quattro grossi negozi. Al di la del varco, un vicolo lungo qualche centinaio di metri che si biforcava a metà, lungo il quale, uno vicino all’altro si affastellavano in una sequenza infinita una serie di bugigattoli larghi non più di due metri, con le entrate quasi otturate da cascate di merce taroccata di ogni genere e tipo. Una scia di folla continua, a due per due, ché la dimensione del vicolo non permetteva di più, sfilava davanti ai negozietti lentamente, osservando, valutando, scegliendo, contrattando con il tizio o la tizia che emergeva, quasi sepolto dalla sua stessa merce in vendita. Tutte le più importanti marche del mondo erano esposte con ordine e pignoleria, dall’abbigliamento, alle calzature, agli occhiali, alle borse, agli accessori, ai foulard, agli orologi. Qualunque cosa che nel mondo fosse valorizzata da un qualsiasi tipo di griffe, vi era rappresentata in ogni modello più noto e conosciuto. Era il regno della contrattazione accanita. Venivi prima invitato a verificare la qualità del prodotto, poi partiva la richiesta esosa (sempre ridicola in termini assoluti, tipo 68 euro per una giacca a vento North Face) che terminava invariabilmente per 8 o 80, che porta fortuna e cominciava il balletto dei ribassi, delle disperazioni del venditore che doveva sfamare la famiglia, le finte fughe del compratore che veniva invariabilmente richiamato con un ulteriore ultimo sconto; poi a poco a poco offerta e richiesta si avvicinavano fino ad incontrarsi, meglio se avevi una qualche dimestichezza con un po’ di cinese, i numeri almeno e le parole fondamentali come tai quei la (troppo caro) e te ne andavi col sacchetto nero pieno del tuo bel tarocco a dieci dollari. In realtà c’erano diverse fasce qualitative nel taroccamento, da quelli di alta fascia, in pratica gli originali che uscivano dalle fabbriche che facevano le stesse cose, incaricate dalle griffe autentiche che inviavano i materiali veri per risparmiare sul costo del lavoro e che quindi si autopunivano con le loro stesse mani, a copie via via più scadenti a volte addirittura commoventi, come quella maglietta che portava scritta davanti la dicitura LENTINO GARAVA. Mi confessò il venditore che la sua fabbrichetta copiava dalle foto delle riviste e in quel caso non avevano capito che il capo vero era siglato Valentino Garavani, ma nella foto i due estremi non si vedevano e loro non sapevano neanche chi fosse. Altri offrivano tutta la serie di orologi da tre a trenta euro per i Rolex meccanici, i più belli, disapprovatissimi dal mio amico Ping che sfoggiava invece un Rado da 2000 dollari; le cinture venivano via ad due euro, mentre all’ingresso del vicolo, un gruppo di donne vendeva le T-shirt Lacoste a un euro l’una cercando di bloccare i clienti prima che entrassero nel budello. Più avanti, in una casetta a due piani, dei veri e propri negozi che offrivano merce più sofisticata, alcuni venditori cercavano di dare un loro proprio design per vestiti offerti con il loro marchio cinese, roba piuttosto creativa secondo me, che di massima, gli occidentali obnubilati dal tarocco snobbavano senza pietà. Questo luogo è sempre stato una spina nel fianco per le griffes mondiali che hanno cercato di farlo chiudere in ogni modo, non comprendendo scioccamente che ti si copia solo se vali qualcosa, che la copia è un tuo messaggio pubblicitario gratuito, che chi compra il tarocco non compra l’originale, quindi le vantate perdite sono in realtà inesistenti, anzi chi compra oggi un Rolex a 30 dollari, quando se lo potrà permettere sarà il primo acquirente di quello da 3000. Se io avessi una griffe sarei molto preoccupato se nessuno me la taroccasse. Poi qualcosa è accaduto, il progresso avanza, la stradina è stata cancellata, al suo posto un palazzone di sei piani, il Silk Palace, enorme, in cui trovavano posto gli stessi negozietti a costi un po’ superiori a cui le griffes mondiali coalizzate finalmente hanno fatto causa, vincendola. Adesso, mi dicono che tutte le merci esposte, le stesse di prima, hanno etichette cinesi; per avere il tarocco, devi faticare parecchio, poi qualcuno lo tira fuori con aria complice da sotto il banco, naturalmente a prezzo raddoppiato e la magia se ne è andata a farsi friggere. Poco per volta anche il regno di mezzo verrà omologato.

venerdì 11 settembre 2009

Solo pasta e fagioli

E’ accaduto quello che tutti temevamo sarebbe successo e non avremmo mai voluto che succedesse. Si parte sempre così, due parole tra amici, ma certo, sicuro, ci vediamo solo così, tanto per stare assieme, facciamo solo una pasta e fagioli e poi via. La realtà è che i poveri B. e C. erano già ai fornelli dal mattino presto, coi fagioli messi a bagno nella notte, causa dimenticanza della sera precedente. Ubbidienti, ci siamo presentati alle otto con i nostri pacchettini di ordinanza in mano e subito abbiamo dato fuoco alle polveri. Un aperitivo, kyr di ribolla gialla di Cormons accompagnato da un’entrée di tartine di salmone e ricotta fresca insaporita all’origano, seguite da altre, ricoperte di salsine con diverse gradazioni di piccantezza. Ma non avevamo detto che si faceva solo la pasta e fagioli? Ma è tanto per rompere un attimo l’appetito; spazzate via in un istante. Il tempo di sederci a tavola, giusto per permettere lo stappo di un paio di bottiglie di Chambave Muscat valdostano che avevamo già precedentemente avvicinato e dal cui fascinoso bouquet eravamo già stati irrimediabilmente accalappiati e anche il delicato preantipasto di lardo dalla grande fascia rosata con marroni sciroppati e spennellati dell’ambrato miele di questa valle, ci ha lasciato orfani, ma per poco, perché il profumo che ci ha avvolto all’apertura del forno ci ha subito predisposti alla curiosità di investigare la natura dei fagottini dorati che lo hanno sostituito. E’ stato duro pazientare quanto bastasse a non subire l’offesa del calore nelle nostre gole ingorde, ma che piacere constatare l’equilibrio delicato che l’apertura della fragile e sottilissima pasta sfoglia ci ha regalato con il matrimonio tra un tenero radicchio rosso ed una morbida e vellutata crema di gorgonzola. Una vera delizia e anche se la previdente padrona di casa ne aveva forgiato un numero piuttosto elevato, conoscendo i suoi polli, anche qui, in poco tempo sono andati via tutti. D’altra parte pareva brutto avanzarne, come se non fossero stati graditi, nella maggior parte delle culture potrebbe apparire offesa e critica alla cuoca. Poi, e la colpa è stata data alla necessità di smaltire comunque la gran quantità di verdure di cui l’orto di L. ci ha deliziato per tutta l’estate, è giunta in tavola una splendida caponata tradizionale dal giusto mordente. Neanche il tempo di togliere da tavolo le bottiglie vuote ed ecco l’oggetto del desiderio per il quale avevamo affrontato la traversata del paese e che avrebbe dovuto essere l’unica attrice della piece che si stava rappresentando con così attenta partecipazione di pubblico e di critica, mai così concordi nell’entusiasmo: la regina della festa, una strepitosa, cremosa, densa, sapida e corposa pasta e fagioli. Un tocco di pepe e un filo di olio di fruttata fragranza di olive appena spremute quasi per decorare, se mai ce ne fosse stato bisogno quella perfezione. I maltagliati che il sapiente tocco della padrona di casa aveva prodotto nel pomeriggio complice il mattarello nuovo acquistato per l’occasione, si confondevano quasi con la presenza dei fagioli, parte dei quali ormai avevano perduto la loro forma originale, si potrebbe dire il loro eidolon fagiolifero, per formare un tutt’uno con la cremosità che avvolgeva il tutto, per cambiare la loro forma identificativa rendendo partecipe della loro essenza di fagiolità tutto il piatto nel suo insieme col fondersi completo di più strumenti in un unica indimenticabile sinfonia sonora, come ha da essere tra l’altro come conseguenza di questa preparazione. Qualcuno, non dirò chi per carità di patria, ha voluto un bis, complice il Morellino di Scansano, giusta morte di questo piatto sacro. Un assaggio, per chi ancora ne sentiva il bisogno da un principesco plateau de fromages che ospitava capra in tre differenti presentazioni, da un delicato fresco ad un gustoso stagionato, una toma profumata di fiori primaverili, un castemagno dalla bianca gessosità e un tradizionale gorgonzola per non omettere il posto dell'erbornato e infine delle patate al forno di René al profumo d’erbe; poi tutti abbiamo sentito la necessità di alzarci, di lasciare quella tavola imbandita che ci aveva regalato tante delizie, più che altro perché la torta veniva servita in salotto, giusta cornice a questa festa di fine estate. Una miscela di pere e sentori di cioccolato decorata con le insegne occitane che hanno fatto da cornice costante a questa vacanza, durante la quale il piacere più forte è stato quello di stare con gli amici più cari. Difficile è stato staccarci e riguadagnare le nostre case lentamente pensierosi, le gambe molli, forse per la sottile malinconia che precede la partenza, forse per le troppe bottiglie stappate. Ma non dovevamo fare solo una pasta e fagioli? E non ce l’abbiamo neanche più fatta a mangiare il gelato. Mi sa che toccherà vederci stasera per finirlo, vuoi mica portartelo giù in città!

martedì 8 settembre 2009

Fenomenologia dello gnocco.

Ci sono molti settori in cui le femmine amano cimentare la propria abilità per mettersi in discussione o in competizione. Quello che preferisco, per estetica ed etica o più semplicemente per inclinazione naturale, diranno i miei detrattori, è la cucina. Quindi niente di più logico che la bagarre si sia scatenata per tutta l’estate, anche nel nostro piccolo gruppo, microcosmo testimone di tendenza. Una dopo l’altra le nostre ragazze si sono scatenate per superarsi a colpi di piatti semplici o ricercati, sempre riuscendo a stupirci con tecnica, fantasia e qualità. L’ultima prova è toccata ancora a Carla che ha voluto esibirsi in una prova difficilissima nella sua semplicità. Il tema della serata è stato sua maestà lo gnocco. Esclusa proditoriamente la sua versione femminile che pure avrebbe suscitato entusiasmi quantomeno di facciata, verbali e per onor di firma, si era deciso che il candido ed all’apparenza umile grumo di pasta, sarebbe stato il protagonista unico ed assoluto della serata che non doveva essere turbata da altri motivi di distrazione per non sviare l’attenzione gustativa delle nostre stanche ma mai dome papille in religiosa attesa. Niente ordalia di antipasti dunque, per lasciare largo spazio alla cascata gioiosa che attendeva la bollitura dell’acqua, ma che piemontesi saremmo se non avessimo ceduto almeno a qualche fetta di sapido e stagionato salume nostrano e a due calde teglie di peperoni di Carmagnola ricoperte dall’abbraccio di una delicata bagna cauda. Sarebbe stata un’offesa alla tradizione e soprattutto il periodo stagionale lo richiedeva d’imperio. Ma solo un tocco e poi via a calare con cautela, a piccole falangi per non affastellarli troppo al primo bollore, le prime tranche di gnocchi delicatamente sporcati di farina per non farli attaccare tra di loro, chè anche se amici, non devono stringersi troppo, avvinti in un abbraccio che li danneggerebbe irreparabilmente, lasciandoli ad un a uno separati, al nostro affetto interessato. Erano stati, già dalla mattina, preparati con cura ed amorevolmente l’impasto trattato ed i lunghi cilindretti formati e stirati rivoltolandoli sulla tavola prima del taglio cadenzato che ne aveva dato la forma definitiva, piccolissima come si confà alla grande qualità, prima del tocco fatale della forchetta a formarne l’aspetto finale, con le quattro unghiate dei rebbi e la dolce concavità resa così più atta a sposarsi col sugo alla quale saranno destinati. Già, l’impasto, qui sta il segreto, a cominciare dalla patata utilizzata, la Desirée, una varietà a buccia rossa e a pasta tra il bianco e il giallo, compatta ma tenera, coltivata dall’amico René sopra i mille metri, che si sa, con la montagna il gusto ci guadagna come recitava uno slogan famoso. La qualità della patata è fondamentale nello gnocco, così come lo è la giusta proporzione di acqua e farina, ovviamente segreta, perché il risultato finale deve essere dominato dalla assoluta leggerezza, da una aerea levità che sola eviterà l’intozzamento dovuto alla quantità e alle difficoltà sgradevoli della pesantezza postprandiale. E come create da mani angeliche sono state le schiere di piccole pallottole che a poco a poco emergevano dal bollore galleggiando felici come a dire, forza pescateci che siamo pronti. E la schiumarola cominciò a svolgere il suo impegnativo compito per formare i piatti attesi con ansia. Una prima ondata attese l’abbraccio di un saporoso ragù di carne che da tempo a fiamma bassissima scaldava le polveri sopra altro fuoco, seguita da altre ondate senza tregua per spossare le truppe e renderle idonee all’attacco finale, di ulteriori piccoli cumuli ricoperti da un’onda di bianca e marezzata crema al gorgonzola. Naturalmente sul tutto, parmigiano come se piovesse. Un rosso maghrebino di grande interesse col ragù ed un altrettanto intrigante Chateau del Luberon, con il gorgonzola, hanno bagnato le gole aiutando la sequenza dei piatti. Di colpo siamo crollati senza avere la forza di contare il numero di piatti che con astuzia i nostri anfitrioni preparavano piccoli ed innocenti, come il successivo non potesse in alcun modo ingombrare più di tanto lo spazio già occupato dai precedenti. Poco onore abbiamo così potuto fare al pur leggerissimo tiramisù e alle pesche ricoperte di gelato che come si sa disnausia e che ha concluso le nostre fatiche. Grande gnoccata, ma bisogna farsi forza che l’estate sta per finire e domani sera ci attende una ulteriore e difficile prova: la pasta e fagioli, di cui se ce la farò, vi darò conto nei prossimi giorni.

lunedì 7 settembre 2009

Luberon 3.



Un’altra mattina luminosa, come lo è la luce della Provenza, che ti piega l’occhio e ti apre il cuore, che conquistava gli artisti di fine ottocento, richiamandoli qui ammaliati da questa luminosità che avvolge tutto, che scalda, che rasserena. Un salto al vicino museo dell’olio a vedere un gigantesco torchio di quattro secoli fa da sette tonnellate, in un luogo che ha spremuto olive senza soste per duemila anni, però questi romani che tecnici! Poi un giro tra le stradine semideserte di Goult, prima di una sosta un po’ più attenta a Carpentras. L’idea è di lasciare alle spalle il Luberon e prima di cominciare a macinare la strada verso casa, vedere le rovine di La romaine e Nyon, ma ad un bivio, l’insegna è irresistibile: Mont Ventoux – KM 21, con un gran negozio che affitta biciclette da corsa sull’angolo. Ovviamente non degniamo di uno sguardo il negozio, ma la decisione è già presa e il volante gira verso questa meta mitica. Non è facile farsi strada tra le frotte di ciclisti che arrancano lungo la salita con una pendenza media dell’11%. Dappertutto, vistosi cartelli intimano agli automobilisti, considerati un po’ intrusi da queste parti, di fare spazio alle due ruote ed in effetti siamo noi quelli fuori posto. La strada sale costante in una foresta densa e corposa, i tratti rettilinei sono lunghi a sufficienza da farti considerare la fatica immensa ed innaturale che serve a raggiungere la curva lontana e appena dopo il successivo tratto e poi ancora un altro, sempre così lontani dalla fine della fatica. Chi sale non ha tempo né voglia di godere del paesaggio stupendo che scorre piano ai lati, solo la sofferenza è compagna nella salita; si vedono gruppi di amici che cominciano a pedalare sicuri sulla sella, ma subito l’amicizia finisce e il gruppo si sfilaccia, ognuno sale con le sue forze, solo di fronte alla fatica con il suo ritmo o almeno con quello che crede di poter sostenere e poi magari ti tradisce a metà percorso. Coppie partono sorridenti, poi vedi che lei comincia subito ad arrancare e lui sale con piglio deciso, chi si ferma è perduto, non c’è pietà per chi rimane indietro. Tipi diversi, ma uguali nella determinazione, fanciulle decisamente steatopigie che salgono determinate e per contro maschiacci segaligni, magari con aiutino, che ansimano disperati per aver sopravvalutato le proprie forze, sul punto di cedere. A cinque kilometri dalla vetta superiamo un attempato signore in piena cotta, testa infossata, sguardo spento, le gambe che girano meccanicamente, la bici che zigzaga pericolosamente, ma niente, si va avanti, non si molla. Capisci cosa è la passione. Nell’ultimo tratto la foresta si dirada e poi finisce per lasciare spazio alla pietraia bianca, la testa pelata del monte spietato spazzata da vento, teso e gelido. La vista sulla pianura e strepitosa, ma nelle ultime centinaia di metri, la nebbia avvolge pastosa la cima e si arriva sulla piazzola celebrata e desiderata, dove il povero Simpson, ancora non presenti EPO e CERA, crollò stroncato da quello che si prendeva allora pur di arrivare primi. Gente che arriva alla spicciolata, gli amici si ritrovano, i gruppetti si ricompongono, le coppie si riuniscono e si baciano, c’è qualcuno che ha le lacrime agli occhi, è la gioia di avercela fatta, di avere compiuto l’impresa, di avere vinto la montagna, il mostro, forse quello che sta dentro di ognuno di noi. Le foto si sprecano. Un solitario cerca qualcuno che gli faccia la foto sotto la palina celebre, che testimoni ai posteri che ce l’ha fatta. Lo accontento, poi, il diavoletto fa capolino e non resisto, gli chiedo in prestito la bici e la foto me la faccio fare anch’io, non si sa mai. Una signora, mi guarda storto, scrolla il dito indice e mi apostrofa: “Eh,Eh, tricheur!”.

venerdì 4 settembre 2009

Luberon 2.


Hai la sensazione che sia una giornata piacevole appena ti alzi e vai a fare colazione nella vecchia salle à manger della antica casa di famiglia dove abbiamo dormito. Mobili di un passato notabile, poltroncine decorate al piccolo punto, una tovaglia e tovaglioli ricamati a mano su una tavola imbandita solo per noi due. Caffettiera e lattiera d’argento, coltellino per il burro col manico d’avorio ingiallito dal tempo, croissant caldi e spremuta d’arancia, torta e marmellate fatte in casa, frutta lucida in una elegante alzata provenzale. Sei già di buon umore al mattino presto, saluti gli anziani proprietari sorridenti e dal belvedere di Saignon ti si apre davanti tutta la pianura, il Luberon alle spalle, lontano la calva cima del Mont Ventoux, una promessa per il giorno successivo. Dopo il mercatino di Apt, ricco di prodotti locali, dal miele di lavanda, alle confetture e ai formaggi di capra, ancora paesini, Bonnieux arroccato sul colle col museo della Boulangerie e gran vista sulla foresta dei cedri, tralasciando Lacoste nota non per le magliette, ma per il castello di DeSade che domina il paese dall’alto, poi Ménerbes, con la place de l’horloge e l’originale museo del Tire-bouchon. Ma com’è che questi francesi riescono a valorizzare qualunque piccola cosa, impreziosendola, raccontandoti una storia, vendendoti un’idea. La gente ci viene, paga 4 euro per vedere un po’ di cavatappi e poi compra sei bottiglie di vino e se ne va a casa contenta, qui non riesci neanche a far pagare un euro a uno che da piazza San Marco guarda il Canal Grande. Pochi kilometri e sei a Oppede-le-Vieux, straordinaria cittadina già centro romano e poi medioevale (parcheggio 3 euro, tanto per capirci). Una dura salita ti porta fino in cima attraverso le rovine della città, fino alla chiesa ed al castello per una vista folgorante tra le pietre avvolte dalla vegetazione. Che periodo strepitoso quello della Provenza dell’età romana. Città aperte lungo le grandi vie che portavano genti e commerci in ogni parte dell’impero senza preclusioni. Già ti vedi carri di vino e olio che percorrono le strade lastricate, passano grandi ponti a schiena d’asino, sotto gli immensi archi degli acquedotti; gente che lavora, che parla la loro lingua ed una lingua franca comune, aperta al nuovo e all’esperienza. Che popolo, ‘sti romani; costruttori e ingegneri, pragmatici, pronti ad inglobare lo straniero e farne proprie le sue esperienze; forse poca cultura, ma aperti a tutte le culture, alle idee nuove; bastava che non rompessi molto le scatole accettando il sistema e poi via libera; direi una mentalità un po’ cinese, non vi sembra? Forse è così che si conquista il mondo. Sta di fatto che poi il tempo è passato, le città si sono chiuse al nuovo e avviluppate su sé stesse, si sono arroccate, ritirate sui colli, cinte di mura, serrate dalla paura e dal timore, diminuiti i commerci, fermato il movimento delle idee, bloccate sotto il ferro di tanti piccoli signorotti locali. Un medioevo delle menti tra il terrore dello straniero e l’odio per il mercante che vengono a portare via la ricchezza sudata, razziandola o peggio comprandola. Agli uni ti puoi opporre con le falci e i forconi ricacciandoli in mare, agli altri no, qualcuno cederà comunque alla vile moneta. Ancora piccole strade di campagna, ancora il villaggio delle Bories, costruzioni in pietra alla moda dei trulli, testimoni di un passato duro succeduto alla gloria romana e Gordes, dalle stradine ripidissime che si precipitano lungo le mura. Infine Roussillon circondato da una falesia di rocce gialle e rosse di ocra. Una passeggiata in un cañon dai colori americani illuminati dal sole che fatica a concludere la giornata. Siamo finiti a dormire in un paesetto di quattro case attorno ad una chiesa del 1100, con un alberghetto con tre camere. Il ristorante sarebbe stato chiuso, ma la signora ci ha fatto ugualmente per cena una kisch di gourgettes e anatra alla provenzale con un bicchiere di rosato locale. Non voleva che restassimo senza cena.

giovedì 3 settembre 2009

Luberon


D’accordo, mi sono assentato qualche giorno. Ma non è per pigrizia innata, ma perché mi sono ritagliato una piccola vacanza nella vacanza estiva (che è parte della vacanza globale annuale). Tre giorni bighellonando senza meta nel Parco del Luberon in Alta Provenza. E’ il tipo di vacanza che preferisco, un po’ di informazioni prese a priori e poi via decidendo di volta in volta secondo quanto ti propone la strada. La meta di un viaggio non deve essere altro che uno stimolo a partire. Anche per questo amo molto la Francia, per la dolce tranquillità che ti sa proporre, qualunque sia la zona che ti accoglierà. Così di buon mattino, abbiamo lasciato la val Chisone ancora immersa nel sonno del giusto delle nove del mattino, con i bar ancora chiusi, chè ormai a settembre i turisti se ne sono già tornati tutti a lavorare e dopo poco abbiamo gustato il primo croissant in terra francese, lasciandoci andare dopo Briançon lungo la piacevole valle della Durance, un nastro verde azzurro chiaro che scorre in basso quasi rettilineo, dopo il lago di Embrun, le alture di Gap e la rocca di Sisteron, resistendo alla voglia di fermarci per dare un’occhiata dall’alto, al suono di versi di antichi poeti provenzali. Così, nel primo pomeriggio, già la luce forte del sud ed il frinire delle cicale facevano da contesto alle foreste del Luberon, una zona di rara gradevolezza. Di villaggio in villaggio, vedi antiche chiese, abbazie quasi deserte, vecchi borghi all’apparenza abbandonati ed invece curatissimi in ogni casa, balconi fioriti, angoli valorizzati anche se il loro interesse storico o estetico è relativo. Si segue l’antica via Domizia, lungo la quale la pax romana, già nel primo secolo aveva dato una svolta decisiva. Si passa da Céreste con l’antico castello e poi Granbois arroccato sulla collina , La Tour d’Aigues con gli imponenti ruderi di un castello rinascimentale all’italiana e Ansouis, dove non potrete rinunciare alla visita di un maniero appena acquistato da una ricca famiglia marsigliese che lo sta riempiendo di mobili d’epoca con un restauro accurato. Ancora la chiesa di Cucuron con il suo Cristo seduto in legno e Lourmarin dove lungo le stradine piene di atelier di artisti e di gallerie d’arte, ci si ferma a uno dei numerosi caffè a lasciar passare il tempo. Sullo sfondo il massiccio del Luberon e le sue foreste di querce a nord e di conifere marine a sud che si attraversano continuamente nello spostarsi da un borgo all’altro, fino a Sivergues nel suo cuore silenzioso e selvaggio come lo definisce Henri Bosco, luogo romito di poche case dove cercarono rifugio numerosi valdesi, altro contatto con le nostre valli. Mentre il sole scendeva a poco a poco dietro la montagna, ci siamo infine fermati a Saignon, un paesetto su un promontorio roccioso, assolutamente delizioso, dormendo in una antica casa affacciata sulla centrale Place de la Fontaine con l’unico rumore dell’acqua che scorreva dalle sue antiche cannule. Un vicino ristorantino ci ha sedato l’appetito con provenzali tartine di tapenade di olive, bocconcini di chèvre, brochettes e una sontuosa tartare con molte salsine e uovo crudo. Una tarte tatin tradizionale o a scelta una ancora più classica mousse au chocolat con succo di lamponi ci ha portato verso il sonno dei giusti.

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