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sabato 10 ottobre 2020

Luoghi del cuore 69: Il sincretismo del Chiapas

Bambini di Chamula - Chapas - Messico - agosto 1997


S. Juan de Chamula
La donna era piccola ed avvolta in uno scialle liso. Portava in mano una bottiglia di liquore, una grande candela blu e, tenendolo fermo sotto il braccio sinistro un galletto nero, che quasi non si muoveva, come conscio del proprio destino. L'uomo la seguiva, un passo indietro, gli occhi bassi, come se la sua presenza fosse inutile ma obbligata dalle circostanze. La coppia proseguì silenziosamente lungo il muro laterale fino ad arrivare vicino all'altare, facendo frusciare appena gli aghi di pino che ricoprivano il pavimento. Poi la donna si inginocchiò a terra posando le offerte, accese la candela e poi cominciò a pregare silenziosamente inchinandosi più volte in avanti in un movimento ossessivo e inquietante, quasi una trance autistica; lui la guardava, lo sguardo vitreo nella penombra, immobile quasi senza respirare, le braccia nascoste sotto lo huipiles fittamente ricamato che la moglie gli aveva donato per le nozze. Infine lei si alzò e assieme ripercorsero il cammino verso l'uscita, sfiorando con la mano le statue dei santi lungo la parete, il gallo stretto sotto il braccio, verso il locale, dietro la chiesa dove stava il Majordomo, per concludere l'ultimo atto di quella supplica. La chiesa, scura rimase così quasi deserta e muta, senza neppure avvertire la nostra presenza, in modo da non renderla disturbante. Rimaneva solo il grande cero blu, con la fiamma che tremolava fumando verso l'alto ad omaggiare il dio e ad implorare la grazia, per un figlio malato o per un fratello, una madre, un padre. 


Il cimitero di Chamula
L’auto che ci avrebbe portato poi fino a Zinacantan sulla montagna, ci aspettava fuori in fondo alla piazza. Miguel dai grandi baffi spioventi si stringeva le spalle nella giacchetta leggera, silenzioso. L’umidità e la temperatura pungente delle prime ore del mattino avevano reso gradevole il percorso tortuoso, anche in quell’agosto torrido. Eravamo arrivati a Chamula dopo una sosta ad un cimitero cosparso di piccole croci di legno colorate. Ogni tomba, appena rigonfia di terra nera, conteneva diversi defunti della stessa famiglia, sepolti uno sopra all’altro, in tempi diversi. Nomi e date successive che si sovrapponevano negli anni, in un abbraccio di eternità. La piazza del paese era semideserta, solo pochi ragazzini curiosi che facevano la posta ai nuovi arrivati, ma quando sei in tre, difficilmente dai troppo fastidio. Per questo entrammo nella chiesetta bianca con le profilature blu e verdi, che chiudeva la piazza, di soppiatto, quasi non visti. Questo è veramente un luogo magico, dove, a patto di stare acquattati e silenziosi nella penombra del fondo senza disturbare nessuno, si può assistere ai riti cristiano-maya in una atmosfera pagana ed allo stesso tempo di rara intensità. Si dice che il solo sciocco mostrare una macchina fotografica, abbia provocato talvolta violentissime reazioni, ma nessuno fa caso a chi si mescola ai fedeli con rispetto. Tutto il pavimento della chiesa, completamente vuota era cosparso di aghi di pini che riempivano l’aria di odore di resina, mescolato ad uno spesso fumo di incenso che rendeva l’ambiente ancora più oscuro, appena scandito dalle lame di luce che entravano dalle alte finestre. 

Le camicie a fiori

Le pareti erano circondate da piccoli altari con statue di legno di santi vestiti di stoffe colorate, croci e simboli diversi. Qualche gruppetto di due o tre persone, famigliole o singoli, entrò ancora a chiedere grazie, erano passati prima dal negozio del Majordomo, dietro la chiesa. Lui, dopo aver sentito il caso, aveva prescritto la tipologia dell’offerta, il colore delle candele, il rituale da compiere e il Santo a cui fare riferimento. Le persone allora sono entrate e, dopo essersi fatte il loro spazio nel luogo indicato, scostano gli aghi di pino per mettere le candele, rosse per i soldi, blu per la salute e così via, tanto che tutto il pavimento della chiesa è pieno della cera sciolta, poi hanno deposto le offerte, un uovo, una lattina di Coca Cola, una bottiglia di Tequila con cui viene irrorato il gallo da sacrificare per ottenere la grazia richiesta, con una lunga preghiera, in ginocchio davanti al Santo specializzato nel settore. Segni di croci e prostrazioni pongono fine al rito, poi la gente se ne va in silenzio e lascia il posto ad altri. Si sente solo un brusio nell’aria pesante di odori forti e densa di fumo che ha annerito quasi completamente il soffitto. Una volta o due all’anno compare un prete, che fa finta di non accorgersi di quanto è successo nella chiesa e tiene una funzione a cui gli abitanti del villaggio e tutti quelli che abitano la selva degli Altos del Chapas partecipano, mostrando grande devozione e facendo finta per un giorno che i loro dei si chiamino San Juan, San Francisco, San Antonio, San Miguel. Uscimmo dalla chiesetta quasi intontiti, la nostra bambina era molto colpita soprattutto dal silenzio che sembrava avvolgere tutto. In fondo alla piazza la macchina di Miguel, anche lui silenzioso, ci aspettava.

Toeletta a Chamula

La chiesa di Zinacantan
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venerdì 9 ottobre 2020

Luoghi del cuore 68: Matrimonio messicano

Miguel - San Luis de Potosì - Messico - luglio 1999


Secondo me i luoghi del cuore si identificano più che altro con le sensazioni e le emozioni provate, piuttosto che negli spazi fisici. Quasi sempre infatti quando vado con la memoria a qualche mia esperienza del passato che mi riscalda la memoria e che ripercorro a poco a poco quasi accarezzandomela, per non farla svanire nella melassa confusa dei ricordi, quello che ancora mi sembra di sentire, sono gli odori, le sonorità, i gusti che ancora ti pare di sentire in bocca, il freddo, il caldo, spesso per contrasto. Infatti in questi giorni in cui i primi refoli di vento freddo arrivano dalle montagne già spruzzate di bianco, hai voglia di calore, quello di cui ti sei lamentato fino a ieri, di quel soffio rovente che fa sudare, che ti invoglia a stare seduto all'ombra a goderti quello che ti passa intorno. E' il contrasto della diversità quella che ti fa pensare e fa affiorare i ricordi. Subito mi rivedo in un luglio caldissimo a San Luis de Potosì, come in tanti altri paese del Messico coloniale profondo, il millennio stava per finire, ma da quelle parti nessuno, almeno io non me ne accorgevo, si interrogava sui problemi del millennium bug, qualcuno ancora se lo ricorda? No, il Messico centrale ha un senso di immobilità permanente, neppure carica di attesa; si sta lì senza misurare il tempo, respirando piano, per difendersi dalla fatica. I Me ne stavo seduto in una Cantina sul Zocalo di fronte alla chiesa in cui entrava una vaporosa e bianchissima sposa. Una torta alla meringa accompagnata da uno stuolo di damigelle festanti. Anche lo sposo è bellissimo, giovane e altero coni capelli corvini impomatati. Intorno ragazze coi vestiti pastello e cappelli a tese larghissime. Mentre sorseggiavo un margarita ghiacciato, il corteo sparisce nella fresca ombra delle navate, mentre fuori, nel pronao barocco rimane il gruppo dei Mariachi che continua a suonare in attesa della fine della messa, incurante della calura. 

Mariachis

Cascata di note che pioveva fuori dagli strumenti senza infrangersi, contro gli archi del portico, ma proprio per quella calura pesante, si adagiava scivolando sul battuto di mattoni che portava alla soglia della chiesa e alla balconata coperta dove me ne stavo spaparanzato a godermi lo spettacolo. Gli acuti della tromba che sottolineavano la melodia faticavano ad uscire, un po' striduli, in fondo dovendo soffiare poderosamente nello strumento, il trombettista era quello che apparentemente si affaticava di più con quelle guance gonfie a palloncino e gli occhi che sembravano scoppiare nello sforzo. L'altro che sembrava più provato era il portatore del basso, il guitarròn, panciuto ed obeso anche lui, che doveva stare piegato un po' all'indietro sulla schiena in una curva innaturale per bilanciare i perso dello strumento, gli altri si limitavano a pizzicare le corde e a gorgheggiare ad alta voce, mentre le coppie e gli invitati entravano a passo lento dal grande portale. Anche la massa delle statue di pietra della facciata che il barocco coloniale affollava a centinaia in ogni spazio libero, prese da un horror vacui ossessivo, sembravano guardare tutto quello sforzo, affaticate da una attesa centenaria, che tanti ne aveva già visti di quei suonatori di contorno alle cerimonie che si consumavano sotto quegli archi. Straordinari, grandi, grossi, grassi, strizzati nei loro costumi, tanto stretti da sembrare cuciti addosso. Col sudore che cola loro a rivoli dalle fronti rugose a macchiare di aloni le candide camicie mentre gli ultimi invitati invitati li schivano per entrare in chiesa. Senza neanche il sombrero per ripararsi dal sole allo zenit. Altro che siesta messicana. Che s'adda fa' pe' ccampà! Camarero, otro margarita si puedes, muy frìo por favor.


Al matrimonio


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venerdì 24 dicembre 2010

Natale.


José aveva occhi vispi ed intelligenti. Con i suoi dieci anni più o meno e le sue guanciotte ammiccanti non faticò molto a convincermi. Il suo banchetto era piccolo e stava in un angolo un po' defilato in quel mercatino di Guadalajara pieno di colori e di ombre forti. Così non stetti neanche lì a contrattare e in un attimo le sue manine veloci mi incartarono quelle quattordici figurine non più alte di quattro o cinque centimetri. Le icone classiche del presepe messicano bianche e blu con solo qualche piccolo tocco dorato. Sta tutto in un piatto, così come deve essere l'essenza, l'idea, la suggestione. Quando lo guardi ti dà sensazione di serenità, di desideri tenui, di sentirsi carezzati dagli affetti.

Ed è proprio questo che voglio augurare a tutte le mie lettrici e ai miei lettori. Una tranquilla serenità appagante. Un lasciarsi andare agli affetti che ci circondano senza acrimonie o distinguo.

Buon Natale a tutti.

sabato 30 gennaio 2010

Laguna umida.

Il giorno dopo, alla bambina la febbre era scesa e decidemmo di fare un lungo giro in macchina traversando tutto il nord dello Yucatan fino a raggiungere la parte rivolta verso l’interno del golfo del Messico. La strada che tagliava tutta la foresta era una retta quasi perfetta che per decine di kilometri sembrava dividere il verde chiaro della massa di alberi, evidenziavano un terreno rosso e poco fertile. Più o meno a metà, Merida, una cittadina piuttosto anonima dove vi consiglierei di comprare un Panama, se vi serve naturalmente; li fanno lì, quindi a un acquisto a kilometri zero, tanto per essere à la page. Dopo altri duecento kilometri arrivammo a Celestùn, su una grande laguna, che è anche un immenso parco nazionale ornitologico. Ci prendemmo una lancha guidata da un vecchietto, Miguel, che sembrava dormire sempre, mentre la dirigeva adagio tra la foresta di mangrovie. E’ il classico posto dove si può far finta di essere Indiana Jones alla ricerca del tempio maledetto. Si scendeva, ogni tanto dove il terreno sembrava più solido, cercando, a fatica di camminare tra le mangrovie in precario equilibrio, fino a che non diventavano troppo fitte per proseguire a piedi. Ci aggirammo per ore scivolando tra anhingas, gli uccelli serpente ed egrette, per nulla timide e disponibili a mettersi in posa senza problemi, ma le centinaia di flamingos che stazionavano in fondo allo specchio di acqua, quando si levarono in volo, coprirono il cielo con tutte le sfumature del rosa, come in una debole fiammata tremolante. L’emozione fu così forte che, appena scendemmo dalla barca, Tiziana scivolò sulle tavole umide e batté una testata così forte che tememmo il peggio. Ma si sa, le donne hanno la testa particolarmente resistente e ce la fece anche quella volta. Cercammo di metterne insieme i cocci in un ristorantino lungo la spiaggia, bianca di minuscoli frammenti di conchiglie, caldissima e completamente deserta. Servivano dei camarones alla plancha in salsa tex-mex assolutamente enormi e deliziosi. Ne mangiammo molti, diverse porzioni direi, anche per lenire il dolore e tirarci su il morale e toccando il bozzo che gonfiava. Se ne ricorda ancora adesso della botta, poverina, però non è mai più scivolata da allora, su una barca almeno. Quando ritornammo sulla costa est, era ormai notte fonda, il giorno dopo ce ne saremmo tornati a casa, con la nostra borsa piena di esperienze nuove, sperando di aver capito qualche cosa tra le tante che avevamo visto, cercando di incasellare le emozioni per non perderle troppo in fretta. Sono tornato altre volte in Messico, è un paese dolce.

venerdì 29 gennaio 2010

Rosso sangue.

Il giorno seguente, lo dedicammo a Chichenitzà, forse il più conosciuto e visitato tra i siti Maya, oltre ad essere probabilmente il meglio conservato. Fu appena dopo un temporale che attaccammo la ripida salita alla piramide di Kukulkan, perfetta e bellissima, mentre il sole forte graffiandone impietoso i bordi, disegnava l’ondulazione del serpente piumato sul prato sottostante. L’ombra sembrava muoversi sinuosa sul terreno seguendone lenta le piccole asperità. L’aria era perfettamente pulita e ti consentiva di penetrare per chilometri la selva alle spalle dei monumenti di pietra bianca. Potevi contare le foglie lontane ad una ad una. C’era poca gente quel giorno in giro tra le rovine silenziose e lungo il muro basso dietro, il tempio dei giaguari, un gruppo di donne silenziose parevano attendere l’arrivo di qualcuno. Quando entrammo nel grande campo rettangolare del gioco della palla, eravamo soli. Sembrava di sentire cupi colpi di tamburo provenire da Tzompantli, il tempio dei teschi, la piattaforma che conteneva le teste di tutte le vittime sacrificate, e da un momento all’altro le squadre dei giocatori, passando lungo il fregio ornato di festoni di teschi in rilievo e di aquile che dilaniano i petti aperti per divorarne i cuori, dopo essersi a lungo purificate nella retrostante Casa del Sudore, sarebbero entrate, coperte dai mantelli di piume di quetzal a sfidarsi, a colpire la palla di caucciù coi gomiti e con le ginocchia per indirizzarla nel grande anello di pietra verticale su di un lato del campo, mentre la folla sui gradini gridava, inneggiando ed incoraggiando le squadre, per vincere ed annichilire gli avversari e permettere così al proprio capitano, il più meritevole di tutti, il preferito dagli dei, sarebbe stato condotto, ricoperto dalle vesti più belle nella sacra processione al tempio delle colonne, avrebbe lentamente salito la lunga scala santa fino alla cima del tempio dove era posto il Chak Mol, l’altare su cui, volontariamente si sarebbe disteso, mentre il sacerdote avrebbe alzato il grande coltello rituale di ossidiana verde, gli avrebbe squarciato il petto per prendere con le mani il cuore palpitante, lo avrebbe mostrato alla folla urlante, prima di gettarlo giù lungo la scala a fecondare la terra, a garantire raccolti migliori e la pioggia mandata da Chak, abbondante e fertilizzatrice. Ce ne andammo a sera dopo aver a lungo vagato tra le rovine, avendo forse preso troppo sole. La bambina sembrava scossa, andò a letto con la febbre alta.

giovedì 28 gennaio 2010

Passione bruciante.

Volammo dunque, quella volta, sulla riviera maya per finire la vacanza che, anche per la bambina, era stata abbastanza faticosa anche se densa di emozioni piacevoli. Per la verità sconsiglierei a chi fosse interessato al Messico, questo tipo di vacanza marina, che, pur se di riposo, dà ben poco in più della riviera romagnola, con anche molti punti a sfavore per chi cerca queste cose. Anche località che un tempo erano meno affollate come Playa del Carmen, oggi sono ostaggio di una massa opprimente di gente che poco vi potrà dare dal punto di vista della conoscenza del paese, meglio allora scivolare più in giù verso i cayos del Belize che ha spiagge sicuramente più belle e più vicine al vostro immaginario del Caribe. Così, anche se il caldo d’agosto era davvero opprimente, noleggiammo l’ormai noto maggiolino giallo e ci spostammo prima verso Tulum, un piccolo sito della civiltà Maya ormai in declino, sorta sul mare attorno all’anno 1000 e che deve alla posizione straordinaria, il suo fascino. Immaginate lo sbalordimento di Juan de Grijalva che risalendo la costa vide per primo la cinta di mura sulla scogliera e dietro, gli edifici dipinti di colori accesi e il grande fuoco sulla torre di guardia; che stupore vedere i primi indios atterriti di fronte alla grande nave velata. Poi li sterminò quasi tutti naturalmente, ma sono state tutte anime guadagnate alla cristianità, quindi in fondo… Sotto le rovine, piccole spiagge deliziose dove rinfrescarsi senza riuscire ad evitare il sole, ma intanto, se non è il vostro primo giorno, sarete già orribilmente scottati come wurstel sulla griglia. Girovagammo lungo la costa, col parco divertimenti di Xcaret (anche qui deve esserci giustamente la Mirabilandia locale), ma avevamo la scusa della bambina che voleva vedere i Voladores e fare il percorso sotterraneo nelle caverne carsiche di un paio d’ore con pinne e maschera (mica male in verità) e uno strepitoso cenote vicino alla costa, un buco largo più o meno 300 metri e largo altrettanto, col fondo coperto di acque verdissima e scure che nascondeva chissà quali orribili misteri nelle sue viscere. La sera si finiva a Playa del Carmen, allora ancora un villaggio con una popolazione turistica numericamente accettabile e piccoli alberghi ancora spartani o in qualche bungalow lungo la costa. Un bel bagno ristoratore, una bella cena e poi a letto presto. Era mezzanotte, quando ci svegliò un gran frastuono e un rumoreggiare forte, fuori della camera che dava su un piccolo patio pieno di fiori. Dato che l’assembramento aumentava, ci alzammo per vedere cosa stava capitando. In realtà aveva preso fuoco la pensione vicina e le fiamme lambivano già il terzo piano. La stradina era piena di gente, mentre la proprietaria disperata gridava a tutti di prendere le proprie cose e di andare verso il mare. Corremmo dentro a svegliare la pargola che, assonnata non ne voleva sapere, poi mettemmo tutto sull’auto, bambina inclusa e parcheggiammo più in là sotto le palme. L’incendio era abbastanza imponente anche a una certa distanza. Si susseguivano le voci di bombole del gas in procinto di esplodere, mentre la proprietaria, italiana, che aveva lasciato soldi e documenti in un cassetto segreto, convinse il suo amore locale a sfidare le fiamme per andare all’interno a recuperarli; di fianco a noi, due ragazzi italiani, completamente straniti, che tornavano dalla discoteca poco più che in costume da bagno e che così rimasero, avendo tutti i bagagli nel punto dove più alte erano le fiamme. L’incendio perse forza, non essendoci più nulla da bruciare, verso le tre, quando non rimasero che spuntoni, travi annerite e fumo; finalmente arrivarono trafelati i bomberos da Chetumal, ma visto che non c’era più niente da fare, se ne andarono. Pare che, nel sottostante ristorantino, un gruppo di turisti avessero voluto assolutamente i gamberoni flambé e il cuoco, poco pratico, aveva provveduto, dando fuoco altre che ai camarones, anche al sovrastante soffitto di paglia che in un attimo si propagò al resto. Visto il risultato il proprietario ristoratore, timoroso delle conseguenze, si diede subito alla macchia e risultò rifugiato a Cuba nei giorni seguenti.

domenica 17 gennaio 2010

Finanziare la rivoluzione.

Il mattino dopo, affittammo un maggiolino per raggiungere alle rovine di Palenque. Anche il mezzo, tra i più comuni in Messico, serviva a tornare indietro nel tempo, con la sua forma così rassicurante e d’antan. La strada scendeva tortuosa e ripida con curve continue lungo i fianchi della montagna, nell’alternarsi di radure e di selva più fitta. I radi e corti rettilinei erano cosparsi di topes, piccoli dossi artificiali, che attraversano proditoriamente la strada per moderare la velocità, che spesso, purtroppo, compaiono a tradimento impegnando con severità le già esauste sospensioni di Herby, come avevamo battezzato il nostro mezzo. Prima di raggiungere la piana, le cascate di Agua Azul compongono un quadro di tale gradevolezza e frescura, mentre la temperatura si alza senza posa, da imporre una sosta per riprendere fiato, seduti lungo le rive del corso d’acqua a godere degli spruzzi e del colore dei salti eleganti che si susseguono lungo il bosco. Un quadro di Fragonard in cui le ninfe sono sostituite dai venditori di mocillas colorate che, senza invadenza si dispongono nei punti critici del passaggio. Poi Palenque, con i suoi monti di pietra che emergono dalla selva verdissima e che senti mossa dal desiderio di seppellire nuovamente e in fretta quanto a fatica è emerso dall’oblio dei secoli. Ci rifugiammo in un piccolo alberghetto con un giardino arruffato, dove una serie di amache ti riconciliavano con i kilometri percorsi e ti facevano prendere il ritmo corretto del paese. Il mattino dopo, la scoperta delle costruzioni che emergevano quasi a fatica tra le piante diradate per scoprire una nuova scalinata, una ulteriore piccola piramide, furono un entusiasmante percorso ad ostacoli pieno di sorprese continue e di faticose salite per esplorare il sito. La piramide di Pakal è naturalmente, il pezzo forte. Dopo averne indagato l’interno con la tomba del misterioso re alieno, rimanemmo a lungo seduti sugli alti gradoni della cima a sentire il sole che saliva nel cielo illuminando a poco a poco gli angoli più segreti della città morta, indovinando ai suoi estremi confini, nascosti dalla selva, altri monticelli, altri rigonfiamenti che di certo nascondevano le altre meraviglie che anno dopo anno vengono alla luce ad arricchire questo già splendido sito. La strada del ritorno fu assai più faticosa. Risalire la montagna sembrava penoso, forse per il rammarico di aver lasciato un luogo così intenso o forse perché l’usura del motore rendeva problematico l’arrampicarsi lungo le balze de Los Altos. Vicino ad Ocosinco, un paesetto di poche anonime case, improvvisamente un blocco, tutte le macchine ferme e la strada chiusa da barriere. Cercammo di capire cosa succedeva, mentre le macchine venivano fatte passare lentamente ad una ad una. Notammo con una certa preoccupazione dei mitra senza accenno di divise militari, se pure l’organizzazione della cosa pareva non troppo concitata e diremmo alla messicana, per essere pericolosa. Ci spiegarono che si trattava di un blocco dell’esercito di liberazione zapatista del mitico subcomandante Marcos, che chiedeva un contributo alla lotta, con tanto di blocchetto di ricevuta. Questa di Marcos è una storia abbastanza curiosa e indicativa delle tante incongruenze del paese. Detentore effettivo di un certo potere nella regione, la gente fa continuo riferimento alla presenza sua e dei suoi uomini e lo sente come una specie di difensore dei diritti di una popolazione dimenticata e deprivata delle esigenze elementari, mentre il potere centrale a volte tollera questa presenza ingombrante, anzi pare coesistere con questo antipotere senza troppi contrasti, in una sorta di vivi e lascia vivere, dosato da entrambe le parti; in altri momenti invece esplode in fiammate di repressione che amplificano l’importanza del movimento e lo rinfocolano. Comunque donammo i nostri 30 pesos alla causa, di cui purtroppo ho perduto la ricevuta, non si sa mai, con una certa eccitazione; tutto sommato una cifra onesta, considerato che non fummo discriminati in quanto visibilmente gringos. Anzi, mentre procedevo nell’operazione, incitai le mie due trasportate a riprendere in qualche modo la scena, documentando comunque tutta la fase estorsiva a futura memoria, ma mi giunsero solo borbottii di non fare il cretino e di non cercarmi delle grane, così passammo la barriera e mentre uno scalcagnato zapatista con bandoliera alla Pancho Villa, ci faceva un cenno di saluto con la mano, riguadagnammo la strada principale mentre il sole scendeva dietro la foschia tra gli alberi fitti della pianura lontana.

sabato 16 gennaio 2010

Il poncho ricamato.


Ancora pochi kilometri nella selva poi, un altro piccolo paese, Zinacantan, poche case sparse attorno ad una chiesa bianca profilata di giallo vivo. Era in corso una festa e tutto il sagrato era addobbato di colori e di festoni, mentre gli uomini con in testa il Majordomo ballavano al suono di una orchestrina . Suoni che curiosamente mescolavano sonorità latine a ritmi più cupi, più antichi e severi capaci di dare un senso di estraneità senza vera allegria. Gli uomini a piedi nudi, ballavano ritmicamente e anche rimanendo a prudente distanza era tutto un rutilare di colori vivacissimi che emergevano con prepotenza dai mille ricami delle loro camicie che la tradizione vuole preparate con cura dalle donne della famiglia. Questa è una delle principali attività delle donne Tzoziles che abitano questa parte della selva e si dice che se non è in grado di ricamare una bella camicia per il suo uomo, una ragazza non è ancora pronta per sposarsi. Lasciammo la piazza lungo un sentiero laterale senza dare nell’occhio, dopo aver visto l’interno della chiesa in tutto simile a quella di Chamula, con un piccolo specchio alla base delle statue lignee dei santi, dove il postulante per liberarsi della brujerìa, il malocchio, dopo aver preso la pozione di erbe suggerita dal curandero, esegue la limpia, raccontando la sua storia tra le lacrime e pregando fino a che la sua espressione non appare serena. Lo specchio la restituisce tale solo quando il dio-santo lo ha perdonato, dopo l’offerta magari di quattro uova e della lunga preghiera protratta fino allo sfinimento. Niente sacerdote, neanche qui, un cappuccino viene solo qualche volta all’anno per somministrare i battesimi e se ne va dopo aver celebrato una breve messa. Curiosando tra le case, il volto triste di una bimba che fungeva da butta dentro, ci invitò ad entrare in una capanna a due stanze. Nella cucina, con il fuoco al centro bolliva una gran pentola nera con verdure, mais e fagioli, mentre il fumo usciva dalla piccola apertura sul colmo del soffitto. Buttò dentro una gran manciata di chilli rossi come il fuoco e come i ricami che ornavano la sua camicia bianca, mentre nell’altra camera, la figlia grande lavorava su un telaio mobile una lunga pezza di stoffa colorata. Su uno sgabello in un angolo, un vecchio televisore in bianco e nero forniva il rumore di fondo dell’ambiente. Comprammo un sacco di cose e non solo per gli occhi tristi della bambina, poi prima di andarcene, la vecchia, con un calcolato coup de theatre, ci mostrò uno straordinario huipiles, una sorta di poncho, vecchio di qualche decennio, con un fittissimo ricamo di uccellini colorati disposti con ordine attorno al buco centrale, un lavoro talmente bello e piacevole da non poterlo lasciare là. Breve trattativa con la vecchia tzozile, di poche parole, ma rigida nella definizione del prezzo e ce ne tornammo alla macchina accompagnati per mano dalla bambina, che già sembrava avere gli occhi un po’ meno tristi. Tornammo a San Cristobal mentre calava la notte, felici come ragazzini e festeggiammo la serata a El Tuluc. Tortillas con formaggio fresco e infine un piatto imperiale: uno strepitoso filetto relleno de queso amarillo con espinachas, completamente avvolto da fette di bacon e, come diceva Tex Willer accompagnato da una montagna di patate fritte.



venerdì 15 gennaio 2010

Una chiesa silenziosa.

L’auto che ci avrebbe portato a vedere due villaggi sulla montagna, ci aspettava fuori dell’albergo. Miguel dai grandi baffi spioventi si stringeva le spalle nella giacchetta leggera, silenzioso. L’umidità e la temperatura pungente delle prime ore del mattino rendevano gradevole il percorso tortuoso, anche in quell’agosto torrido. Arrivammo a Chamula dopo una sosta ad un cimitero cosparso di piccole croci di legno colorate. Ogni tomba, appena rigonfia di terra nera, conteneva diversi defunti della stessa famiglia, sepolti uno sopra all’altro, in tempi diversi. Nomi e date successive che si sovrapponevano nel tempo, in un abbraccio di eternità. La piazza del paese era semideserta, solo pochi ragazzini curiosi che fanno la posta ai nuovi arrivati, ma quando sei in tre, difficilmente dai troppo fastidio. Così entrammo nella chiesetta bianca con le profilature blu e verdi, che chiudeva la piazza, di soppiatto, quasi non visti. Questo è veramente un luogo magico, dove, a patto di stare acquattati e silenziosi nella penombra del fondo senza disturbare nessuno, si può assistere ai riti cristiano-maya in una atmosfera pagana ed allo stesso tempo di rara intensità. Si dice che il solo sciocco mostrare una macchina fotografica, abbia provocato violentissime reazioni, ma nessuno fa caso a chi si mescola ai fedeli con rispetto. Tutto il pavimento della chiesa, completamente vuota era cosparso di aghi di pini che riempivano l’aria di odore di resina, mescolato ad uno spesso fumo di incenso che rendeva l’ambiente ancora più oscuro, appena scandito dalle lame di luce che entravano dalle alte finestre. Le pareti erano circondate da piccoli altari con statue di legno di santi vestiti di stoffe colorate , croci e simboli diversi. I gruppetti di due o tre persone, famigliole o singoli, che entrano a chiedere grazie, sono passate prima dal negozio del Majordomo, a fianco della chiesa. Lui, dopo aver sentito il caso, ha prescritto la tipologia dell’offerta, il colore delle candele, il rituale da compiere e il Santo a cui fare riferimento. Le persone allora entrano e, dopo essersi fatto il loro spazio nel luogo indicato, scostano gli aghi di pino per mettere le candele, rosse per i soldi, blu per la salute e così via, tanto che tutto il pavimento della chiesa è pieno della cera sciolta, poi depongono le offerte, un uovo, una lattina di Coca Cola, una bottiglia di Tequila con cui viene irrorato ad esempio un gallo da sacrificare per ottenere la grazia richiesta, con una lunga preghiera, in ginocchio davanti al Santo specializzato nel settore. Segni di croci e prostrazioni pongono fine al rito, poi la gente se ne va in silenzio e lascia il posto ad altri. Si sente solo un brusio nell’aria pesante di odori forti e densa di fumo che ha annerito quasi completamente il soffitto. Una volta o due all’anno compare un prete, che fa finta di non accorgersi di quanto è successo nella chiesa e tiene una funzione a cui gli abitanti del villaggio e tutti quelli che abitano la selva degli Altos del Chapas partecipano mostrando grande devozione e facendo finta per un giorno che i loro dei si chiamino San Juan, San Francisco, San Antonio, San Miguel. Uscimmo dalla chiesetta quasi intontiti, la nostra bambina era molto colpita soprattutto dal silenzio che sembrava avvolgere tutto. In fondo alla piazza la macchina di Miguel, anche lui silenzioso, ci aspettava.

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giovedì 14 gennaio 2010

El rincòn proletario.

San Cristòbal de las Casas è una pigra cittadina coloniale distesa sui contrafforti digradanti delle montagne del Chapas. Le lunghe vie che si intersecano ortogonalmente, dividendola in quadrati regolari, degradano lentamente a valle, creando lunghi scorci dove la vista si perde lontana tra le brume delle nuvole basse. Una interminabile teoria di case ad un piano, dipinte a colori sgargianti ne scandiscono l’impianto preciso, interrotto dalle piazze dove sorgono maestose, le facciate dell’orgoglio latino, barocche all’eccesso, frastagliate di ornamenti complessi, totalmente ricoperte di fregi, in un horror vacui tipico del barocco coloniale. E’ una cittadina stranamente silenziosa, dove la gente cammina per le strade senza parlare, dove i molti mercati che, quasi per assimilazione al non lontano Guatemala, sono una esplosione di colori forti, di stoffe iridate persino eccessive nelle forme primitive che simulano uccelli dal piumaggio spumeggiante, piante e fiori rigogliosi, stilizzazioni e geometrie complesse, non risuonano mai di quelle grida, di quel brusio così comune ai luoghi di aggregazione del commercio di ogni parte del mondo. Questi mercati sono popolati di Indios, soprattutto di donne che al mattino presto portano le loro cose, si siedono, magari a terra e le espongono in silenzio tenendo al collo un bimbo. Sono visi duri, forse li potresti definire tristi, sono gli stessi che hai visto intagliati nella pietra delle piramidi dei templi. Sono volti di un mondo vinto, sovrastato da una civiltà differente a cui non cerca neppure di adeguarsi, diresti che la sopporta per sopravvivere, per andare avanti con rassegnata attesa. Anche la contrattazione, non dà la stessa soddisfazione degli altri luoghi dello scambio. E’ breve, stanca, se non si raggiunge subito l’accordo, non viene insistita, anzi la controfferta è spesso rifiutata, quasi con fastidio. Nell’aria si sente chiara la situazione di provvisorietà, di un potere centrale mal sopportato, di una forza di contrasto locale evidentemente tollerata per evitare problemi più grossi, dovunque incombe, non nominata, ma reale e costante, la presenza incorporea del subcomandante e dei suoi seguaci. Tutto ufficialmente è controllato dallo stato e dalla chiesa, ma la crosta esterna ricopre la verità sottostante del potere e delle credenze religiose locali, un sincretismo che accetta la forma esteriore di Santi e Madonne, ma che li sostituisce nella mente della gente con gli dei preesistenti che vogliono i loro riti, le loro offerte, le loro cerimonie. Le chiese stesse, sono un po’ spazi aperti, dove non vedi circolare preti tradizionali, che si fanno vedere solo in rare occasioni, ma luoghi dove la gente va, chiede le proprie grazie, offre candele, segue rituali particolari, personali. Noi ci muovevamo in questo mondo rarefatto, affascinati e quasi straniti da questa atmosfera così poco latina. Poi una sera, passeggiando per digerire un abbondante cena con tacos, guacamole, queso fundido e uno strepitoso asado di capretto presso un’ insegna che recitava “Rincon proletario – cocina economica” seguimmo un effluvio proveniente da una viuzza laterale. Un profumo di caffè intenso e gradevole che ci condusse in un piccolo negozio quasi interamente occupato da sacchi rigonfi, un piccolo banco e qualche sgabello di legno. Nel retro oscuro, delle artigianali macchine da tostatura svolgevano il loro lavoro silenzioso. Eravamo come completamente avvolti da un aroma intenso ed allo stesso tempo delicato. Miguel, appena qualificatici come italiani, ci prese in consegna stretta e ci volle far provare il meglio della sua produzione che spaziava tra tutti i migliori caffè della zona coltivati al di sopra dei duemila metri, su cui vantava conoscenze approfondite e competenza di comporre miscele di grande qualità. Ne testammo molte varietà, sotto i suoi sguardi compiaciuti, prima di assicurarcene un paio di chili da riportare a casa. Dormimmo poco quella notte, chissà se per l’altura o per l’eccitazione del viaggio a Chamula che avremmo fatto la mattina dopo.


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