mercoledì 10 marzo 2010

Mare nero.

Lasciammo le foreste, dove a poco a poco le radure diventavano più vaste e lasciavano completamente lo spazio alle zone coltivate. Questa volta la strada correva lungo argini malfermi e fangosi, dove l'acqua diventava l'elemento predominante, sotto ed attorno a noi, oltre a quella che continuava a cadere dal cielo. Eppure nonostante il fango e gli schizzi, il monsone ha sempre una sensazione di lavacro purificatore, di pulizia. L'acqua porta via i residui, lo sporco, il marcio dalle strade e forse dalla testa della gente. Dappertutto è un continuo lavarsi. Dietro o di fianco ad ogni capanna vedi ragazze, donne con grandi recipienti di alluminio che si lavano i capelli o a mollo fino alla vita, seminude nelle pozze, riparandosi un poco con i bordi colorati dei sari tesi attorno a sé. La pioggia cade battente, ma senti arrivare le risa degli scherzi e di chissà quali prese in giro. Arrivammo finalmente al mare, anticipato da immense lagune da circumnavigare a fatica, lungo file interminabili di palmeti alti e piegati dal vento. Qua e là montagne di cocchi con ragazzi intenti a pulirne le noci, a scorticarne la fibra, a farne ammassi da lavorare successivamente. Sulla riva, villaggi di pescatori poverissimi, anche questi Adivasi, ma all'apparenza più integrati con il mondo induista, dai quali si distinguono solo più per l'aspetto dravidico più piccolo e scuro, ma forse proprio per questo all'apparenza, ancora più poveri e disperati. Le capanne sul bordo del mare apparivano più malandate, circondate di sporcizia ed affastellate le une contro le altre, dove una umanità dall'aspetto triste, composta di donne con una miriade di bambini silenziosi e nudi, attendeva con lentezza alle incombenze quotidiane. Tutta la spiaggia intorno era coperta di escrementi e delle scorie della vita quotidiana; verso la spiaggia, decine di legni putrescenti delle barche più malandate che abbandonate sul bagnasciuga attendevano la definitiva dissoluzione per rientrare nel ciclo naturale, che da Visnù il creatore porta fino a Shiva il distruttore. La ruota infinita delle nascite e delle morti che caratterizza l'esistenza, lo schema da cui per queste genti non c'è speranza di uscire. Una cappa triste che incombe ancora più della impossibilità di un miglioramento delle condizioni di una vita misera, anche solo per qualcuno di loro. Oltre la battigia, le onde alte e violente del golfo del Bengala, di un mare scuro, grigio pece come il cielo da cui non lo separa più neanche l'orizzonte, si ergono come bastioni facendo impennare le barche dei piccoli uomini scuri, quasi impedendo loro di lasciare la riva o peggio, di ritornarvi, per punirli della loro impudenza di voler affrontare l'Oceano, obbligati dalla fame, anche se il dio dei mari non lo vorrebbe. Lasciammo il villaggio con un senso di vuoto nel cuore, ripercorrendo la spiaggia lentamente sotto la pioggia, seguiti da cani magri ed infidi che stavano comunque a distanza di sicurezza, usi di certo a subire il bastone o la pietra in caso di incauto avvicinamento. Non avevamo però troppo tempo per riflettere, intenti come eravamo ad evitare di calpestare le scorie della vita che ricoprivano quasi completamente la sabbia bagnata e scura.



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1 commento:

Angelo azzurro ha detto...

Alla miseria non ci si abitua mai, giusto?
Immagino che certe immagini si siano impresse nella memoria per sempre

Nevica ancora dalle tue parti?
Mi chiedevo se gli amici sono riusciti ad arrivare per il pranzo...

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