Il nastro d’asfalto malandato che va verso nord a Saint Louis è una retta infinita che taglia la brousse come uno di quei confini tracciati con la riga sulle carte delle potenze coloniali. Ad ogni chilometro si rarefanno le piante già secche e striminzite e tra i cespugli radi si fa largo il seccume e la terra rossa, quasi senza accorgersene, diventa sabbia. Il sahel è terra di confine ed il soffio rovente dell’Harmattan da nord ti ricorda che il sahara non è poi così lontano, anzi ad ogni anno si mangia qualche chilometro in più come un buco nero vorace che inghiotta stelle e pianeti, paesi e capanne. Incroci camion malandati che arrivano dalla Mauritania, macchine sbilenche cariche di una umanità varia che si trascina verso non luoghi nascosti tra gli orizzonti fluttuanti dei saliscendi della strada. Anche se c’è l’asfalto, la necessità di evitare le buche improvvise e traditrici rende più sicure le strisce di sterrato ai fianchi, così è sempre polvere quella che vedi, quella che senti, sulla pelle, negli occhi, tra i denti. La distanza è scandita da piccoli abitati anonimi annunciati da un cartello scolorito o reso quasi illeggibile dalla ruggine. Ecco tra due scheletri di alberi secchi: Mbaaya.
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