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lunedì 9 agosto 2010

Fritto misto al Gran Truc!

Oggi mi corre assolutamente l’obbligo di una citazione. Sabato era la festa di Pramollo, piccolissimo centro di poche case, in una delle valli laterali valdesi. L’esibizione prevista dei Lou Dalfin è stata una molla ineludibile. Come tutti fans accaniti, non appena nota la location dell’esibizione, io e l’amico Giulio ci siamo preparati all’evento (altro che U2) scendendo verso valle già nel primo pomeriggio. Raggiungere questa deliziosa località è assai semplice, infatti, non appena arrivati, seguendo la statale del Sestriere, a San Germano Chisone, si prende la strada che dopo il paese si inerpica per qualche chilometro per una valletta laterale dall’aspetto selvaggio e solitario.

Si sale subito e decisamente tra borgate isolate fino a raggiungere dopo poco il poggio, dove Pramollo è mirabilmente esposto su una balconata naturale rivolta verso il piano. Mentre il popolo occitano, ansioso di scatenarsi ai ritmi della nostra band favorita, affluiva a poco a poco intasando di macchine i pochi spazi non usi alla pressione delle masse, noi, pur sostenendo la preponderanza dell’arte e della cultura su ogni altra cosa, ci siamo diretti verso un luogo che primariamente desse sostegno fisico, convinti che un corpo debilitato, mal si attagli ad apprezzare l’arte, men che meno ad intraprendere le attività coreutiche che la serata prevedeva. Il nostro obiettivo è stato dunque l’albergo Gran Truc (dare un'occhiata al bel sito da cui ho preso l'immagine per farvi invogliare,) , in posizione dominante sul borgo, con una terrazza protetta, disposta per apprezzare gli ultimi raggi del sole che pennellano i contrafforti verde cupo della valle, posti come quinte naturali al confine della pianura.

Dietro quella di destra, occhieggia lontana la rocca di Cavour, sul fondo ti par di indovinare, nel tremolio dell’umidità dell’aria, una Torino estiva sonnacchiosa e semideserta. Il locale non è scevro da una certa eleganza che ben ti dispone ad accomodarti con piacere nella sala con la colonna in pietra e le travi di legno antico a vista. Il menù propone una buona varietà di antipasti tipici piemontesi, dai salumi, alla carne all’albese, al vitello tonnato, ai tomini al verde e così via, mentre per i primi sceglierete tra gnocchetti alla toma, lasagnette ai porcini, crepelle tradizionali ed altre piacevolezze, il tutto in porzioni generose, ma noi che non siamo del tutto sprovveduti e che eravamo qui giunti, sull’onda di una precisa segnalazione, abbiamo subito chiarito all’amabile anfitrione che il nostro target era una strafogata di fritto alla piemontese, di cui ci erano state narrate meraviglie. Ecco dunque che, accompagnato da un dolcetto di assoluta gradevolezza, siamo stati destinatari di un ragguardevole vassoio ricolmo di bistecchine tenerissime, salciccette croccanti, bocconcini di pollo e poi le classiche animelle e filoncini, il tutto così leggero ed aereo e senza alcuna traccia della sgradevole untuosità spesso frequente in questo piatto, da invogliarvi a tentare di finire tutto anche se il vostro fisico ed il buon senso vi consiglierebbero di trattenervi. Infatti l’altra metà del gran vassoio è dedicato alla frittura dolce, dall’amaretto, ai piccoli e voluttuosi baci di dama, ai biscottini ripieni di marmellata e alle rondelle di mele, per terminare con i dadini di semolino dalla croccante e dorata panatura, assolutamente deliziosi che ti obbligano a finirli, l’un dopo l’altro come le ciliegie.

Questi son la vera spia della qualità del fritto misto e del valore dell’olio adoperato; nessuna pesantezza, nessun gusto sgradevole a sfiorare, turbandola, la delicata dolcezza del cubetto. Non siamo riusciti a finire tutto e ci siamo quindi concessi solo un monumentale gelato alla crema con Grand Marnier, che come di dice in Piemonte, disnàusia. Il caffè ci ha quindi rimesso definitivamente in pace con il mondo. Alla richiesta del conto, in questi casi si teme sempre la sorpresa, anche se non si può non ammettere che la qualità va pagata ed in effetti sorpresa c’è stata. La gentile incaricata infatti ci chiede 24 Euro, che mi sono di buon grado disposto a pagare, dopo che l’amico aveva già consegnato i suoi, alla romana come giustamente si usa. Ma la signora me li rifiuta con sguardo interrogativo, precisando:- No, fa 24 in due.- Siamo rimasti entrambi basiti, constatando che evidentemente è possibile, fornire una qualità eccellente ad un prezzo decisamente allettante, unito alla piacevolezza del posto. Io, dopo aver dato un occhiata al sito, fossi in voi mi affretterei a studiare la cartina per programmare una visita conoscitiva, tenendo conto, se vi pare, che al venerdì, prenotando, si può avere un menù tutto di pesce.

E subito è cominciata la lunga notte, mentre le ghironde e le pive dello strepitoso Berardo e dei suoi Lou Dalfin (vedere il sito) popolavano il grande prato di centinaia di aspiranti occitani saltellanti, al ritmo di rigudùn, farandule e courente. Solo le stelle sopra di noi, i ballerini si dispongono in file alterne per il Brand de chevaux, sembra rock duro, il ritmo ti penetra sottopelle come la scossa della chitarra elettrica, ma è stato scritto nel 1582. E' come per il fritto misto, la roba buona non muore mai. Lontanissime nella pianura, le luci della città tremolano nella notte.


P.S. L'amico Giulio, commosso, sottoscrive.

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domenica 9 agosto 2009

Delfini d'Occitania


Eh sì, in queste vallate c’è un sound particolare, il suono occitano della ghironda che tutto avvolge, che riporta a tempi più antichi, in cui questi spazi erano percorsi da fremiti di lotte religiose, da guerre tra dinastie e nazioni ormai scomparse. Tanti i gruppi che, per la gioia degli amatori suonano nelle serate estive per allietare i balzelli dei ballerini che subito si buttano nello spazio lasciato libero dagli spettatori alle prime note della curenta. Ma c’è gruppo e gruppo; un conto sono gli appassionati, magari anche bravi e gradevoli da sentire, un conto sono i grandi artisti. E qui incontestabilmente, almeno credo, bisogna parlare dei Lou Dalfin che da venticinque anni portano anche al di fuori del territorio, queste note, arricchite dalla loro particolare visione del sound occitano. Strumenti antichi accanto alla ghironda (la viulo della tradizione), alle cornamuse, all’organetto e a tutta una serie di flauti, ma anche bouzaki, chitarre e batteria per aggiungere un colore inevitabilmente rock che non solo non stona affatto, ma arricchisce di forza, ritmo e potenza attrattiva una musica che non lascia insensibili già al primo ascolto. L’altra sera a Miradolo, tre ore senza sosta, dove accanto alle più tradizionali bourrè e farandoule o agli antichi brand de chevaux cinquecenteschi, si sono sentite dolci scottish ed indiavolati rigudùn per terminare con una appassionata Se chanto, l’inno dell’Occitania, seguita in coro da tutti gli spettatori e chiuso da uno strepitoso assolo della chitarra elettrica, vero e proprio tributo a Jimmy Endrix. Difficile anche per chi non ama la musica folk, rimanere insensibili, al di là del fatto che nessun ballerino riesce a tenere ferme le gambe durante queste performances. Il prato dell’agriturismo il Tiglio, che ha ospitato la manifestazione, era tutto un sabba di folli che saltellavano con metodo prima di cadere esausti dopo la mezzanotte. Secondo me da sentire assolutamente se capitano dalle vostre parti; se no dare un’occhiata su Youtube. Sempre a causa della chiavetta non riesco a postare gran ché al di là di una foto del grande Sergio Berardo, l’anima del gruppo.

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