martedì 21 maggio 2013

Il salice ritorto.

Ormai è un tarlo fisso. Ogni volta che lo chiamano e se ne va in giro sulle carrarecce fangose, tra queste colline piemontesi che l'autunno colora di rosso e la primavera riveste di tutte le sfumature del verde, cerca quella concentrazione assorta che in fondo non sa descrivere a chi gliene chiede spiegazione e che forse non è altro che un'assenza di pensiero, un lasciarsi andare al contatto con la terra, l'unire il proprio essere a qualcosa di più grande a comprensivo, ma quell'idea ansiosa non lo lascia mai, turbandone la tranquillità necessaria alla ricerca e ad ogni anno che passa diventa più forte ed imperiosa. A chi passare il dono. A Giuseppe, che tutti in paese chiamano Pinotu, lo aveva passato la zia, tanti anni fa in una afosa mattina d'estate, quando le spighe nei campi erano ormai rosso bruciato e gridavano la voglia di essere raccolte, falciate, affastellate in covoni a completare la loro agonia nei campi riarsi. Era vecchia, zia Manin, o forse, lo sembrava soltanto, così curva nei suoi vestiti neri e lunghi, come portavano allora le donne nei paesi più isolati, i capelli grigi raccolti a chignon e la pelle rugosa, forse per il sole feroce delle campagne, forse perché parlava poco con tutti. Viveva sola da quando erano morti i vecchi ed i fratelli si erano sposati ed aveva tutte le caratteristiche per avere il dono, anche se nessuno sapeva davvero chi glielo avesse passato. Era nata settimina intanto e poi non si era mai sposata, non aveva mai conosciuto uomini e questo la rendeva adatta al compito. 

Così, senza che nessuno ricordasse come la cosa si era risaputa, quando serviva, venivano a chiamarla anche da lontano. Lei si metteva un pastrano pesante se faceva ancor freddo e tirava quel vento da neve dall'alta valle o così com'era se era ormai estate, saliva dietro sul biroccio, lasciandosi portare sul posto dal dondolio lento del cavallo, senza lamentarsi dei sobbalzi dei sentieri segnati dai passaggi precedenti. Arrivati, guardava il cortile o il campo e i suoi occhi azzurri si perdevano quasi all'orizzonte, lontano come se cercasse qualcosa nell'aria, poi tirava fuori da sotto il grembialone bigio, un ramo di salice sottile, e cominciava a camminare lentamente, tenendo allargata con le due mani la biforcazione della forcella. Sembrava odorare l'aria o qualcosa di più profondo, muovendosi senza mai parlare, fino a che non si fermava di colpo e il rametto tra le sue dita sembrava prender vita propria e si torceva con forza verso il basso, prepotente ad indicare imperiosamente qualcosa. "A l'è sì ch'à iè l'aqua" diceva allora con forza insospettata in quel corpo magro e all'apparenza fragile, pronunciando le parole nettamente come se non ci fosse possibilità di disaccordo. Una verità inoppugnabile da non discutere. Così mentre cominciavano a scavare il pozzo se ne tornava a casa, e dopo un po' l'acqua invariabilmente saltava fuori. Certo i maligni dicevano che in tutta la zona, la falda era a una ventina di metri e l'acqua c'era dappertutto. 

Sarà, ma intanto se si doveva fare un pozzo, nessuno si sarebbe sognato di cominciare a scavare senza avere prima l'assenso di magna Manin. Quando passò il dono al nipote, in quella estate lontana, non ci furono annunci, ma non si sa come, la voce girò in un attimo e da quel momento tutti sapevano che bisognava andare a chiamare Pinotu per avere il servizio. Da quel momento Manin, la videro in pochi, solo quando andava a messa la domenica mattina presto, poi, scivolava via quasi senza farsi vedere e spariva nella grande casa vuota in fondo al paese. Morì poco dopo. Pinotu ha fatto il suo dovere per tanti anni, anche lui non si è mai sposato e l'acqua l'ha sempre trovata, anche se adesso bisogna andare molto più giù per farla saltar fuori. Sarà che quando lo chiamano al telefonino, ne ha uno vecchio coi numeri grandi, perché non ci vede più tanto bene, che gli ha regalato il fratello, prende la sua vecchia Simca 1000 per andare sul posto, di birocci col cavallo ormai non ce ne sono più. Lui è un po' più chiacchierone, è sempre stato di carattere gioviale e gli piace rassicurare chi lo chiama: "Sta tranquil, ch'à la truvuma l'aqua" dice sempre prima di cominciare. In verità lo chiamano più per tradizione che altro, magari per non dispiacere ai vecchi, sembra che porti male scavare il pozzo se non lo chiami prima di cominciare. Ma da un po' di tempo Pinotu si è messo in cerca di qualcuno a cui passare il dono. 

Pare l'abbia individuato in un nipote, un ragazzo abbastanza giovane che vive vicino a lui, Angelo, forse anche il nome ha la sua importanza. Quando va a mangiare da lui, nel pomeriggio, lo porta nel campo dietro casa, gli mette in mano il ramo di salice e lo fa camminare lentamente qua e là. Ma zio, non sento niente, come devo fare? "Sta tranquil, Angilìn, pensa nèn, camina piàn, che po' t'la senti l'aqua ". Angelo gira un po' di qua e un po' di là con l'aria dubbiosa, poi rientrano assieme in casa, lui con gli occhi abbattuti e quasi infastidito da questi continui fallimenti. Pinotu invece non demorde, forse sente qualcosa di più, avverte potenzialità ancora nascoste da coltivare. D'altronde rabdomanti si nasce non si diventa. Forse è difficile portarle allo scoperto, sarà il disturbo dell'smartphone, che Angelo tiene sempre in mano o lo schermo al plasma, che occupa tutto lo spazio sulla credenza, dove una volta c'erano i piatti di peltro della nonna, o forse sarà perché Angelo è già sposato, con una di città per di più, anzi ha addirittura un figlio, che quando lo zio tira fuori il ramo di salice, scappa di là e tira fuori la Playstation.


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2 commenti:

Juhan ha detto...

Mitico!
Che poi sarà vero che ci credono?
;-)

il monticiano ha detto...

Adesso ho capito, per essere bravi rabdomanti non bisogna sposarsi.
A saperlo prima...

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