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giovedì 21 ottobre 2010

Caviale e kognak.

L'autunno a Mosca anticipa, e di molto, le nostre consuetudini. Alla fine di ottobre generalmente, le folate gelide che arrivano da nord, fanno camminare veloci i passanti che tirano su i baveri dei cappotti in attesa della prima neve. Gli alberi dei giardini hanno già perduto quasi tutte le foglie ed i rami, all'apparenza secchi e neri, mostrano al cielo la loro nuda disperazione. Una delle mie passeggiate preferite, terminato l'ufficio, era, girato l'angolo sul Kalzò, di fronte alla massa grigia e severa del vecchio Hotel Pekin, percorrere la Tverskaija che, con una leggera discesa, quasi volesse accompagnare i viaggiatori che dopo un lungo viaggio arrivavano da occidente, ti portava, lenta,come lo scorrere del tempo in Russia, fino alle meraviglie del Kremlino. E' una strada larga e un tempo elegante che invita al passeggio sui grandi marciapiedi su cui sfila ininterrotta la serie dei palazzi della Mosca di fine ottocento, un tempo ricchi ed eleganti.

Qui anche nella Mosca disperata degli anni 90, vedevi brillare gli ultimi fuochi del regime. Quel che rimaneva disponibile delle merci ormai in via di scomparsa, da ogni angolo dell'impero, arrivava qui per essere esibita nei negozi che dovevano rappresentare un lusso nascostamente esibito, al tempo stesso dimostrazione della potenziale ricchezza del sistema e della disponibilità della medesima per il popolo che, nella realtà non aveva effettive disponibilità di accedervi. Nel Dorije morie bianco e blu, potevi vedere qualche pesce secco dal Baltico e qualche cassetta di molluschi, nei negozi Atelier, qualche manichino triste su cui erano appesi vestiti che teoricamente potevi andarti a fare su misura, nei Chasì occhieggiavano ripiani pieni di vecchi orologi che invece di essere dati a riparare come nella mission del negozio, erano esposti in cerca di un compratore. Ma, superata la piazza Pushkin, lungo la leggera discesa, ecco apparire a sinistra, al numero 14, una magia inspettata.

In un grande palazzo ridondante di stucchi, si aprivano le pesanti porte dell'Eliseev Gastronom. Nel 1901, il ricco mercante ebreo di San Pietroburgo aveva creato questo negozio che doveva rappresentare il massimo della offerta gastronomica russa in un ambientazione di sfrenato lusso imperiale. Entrare in questo enorme salone decorato in stile neo-barocco era come fare un tuffo nel passato. Sotto il colossale lampadario di cristalli italiani, si alternavano gli antichi banconi lucidi di ottoni e di legni pregiati, sui quali, a settori, potevi trovare le squisitezze più rare e particolari provenienti da tutti gli angoli dell'impero. Dalla ricca sala dei vini, dove oltre alle più classiche vodke trovavi anche il Kognak Armeno, il pregiatissimo Ararat di 25 anni, passavi alla zona dei salumi, ricca di verietà dove trovavi i più pregiati pezzi del Mijasa Kombinat. Poco più in là sui mogani tirati a specchio, vasetti di composte tradizionali, ordinati come soldatini; sotto i candelabri dorati potevi comprare un barattolo di smijetana fresca e così via, passeggiando tra i banchi per il solo piacere degli occhi, inseguito dagli sguardi delle matrone in grembiule bianco che ti mostravano, indagatrici, i prezzi, stratosferici per i residenti che si aggiravano tristi con la sensazione del guardare ma non toccare. Che bello sognare sotto il grande orologio che scandiva le ore di un passato lontano. Ti sentivi circondato da contessine ed ufficiali in abito di gala, i cui fantasmi si aggiravano ancora guardando languidamente il bancone del caviale, con le sue centinaia di scatolette, i vasetti blu del Beluga prezioso, quelle rossa di Sevruga un po' più grossolane, le gialle del mar di Azov, il caviale rosso, le scatolette di bal'ik di cui era ghiotto il caro Zhenija, che mi ci portò la prima volta.

Tra le enormi colonne in marmo colorato che si levano fino al soffitto, pesanti decorazioni in oro circondavano grandi ritratti, tra cui spiccava il suo, eccolo lì il famoso Eliseev che guarda la sua sala con occhio malizioso, come per farti capire che lui non era stupido e che ha saputo ben nascondere il suo segreto. E già, perchè la leggenda racconta che il ricco epulone, sentita l'aria che cambiava direzione, prima di far fagotto , abbia nascosto in una nicchia segreta, tra gli stucchi dorati e le colonne, tutto il suo immenso tesoro, che ahimé, non è poi riuscito a tornare a riprendere. La rivoluzione lo ha trascinato via nel gorgo della storia, lasciando soltanto lo splendido ambiente che aveva creato. Ne uscivi a malincuore, nella sera ormai scura e triste, mentre risuonavano sui larghi marciapiedi le risate dei drappelli di splendide ragazze che si avviavano verso l'Inturist ad adescarne i clienti.



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venerdì 8 ottobre 2010

Toccare nel portafoglio.

Hai voglia a dire che alla gente le cose bisogna insegnarle, che con la civiltà e l'istruzione viene anche la correttezza e il rispetto delle regole. Mica vero. Se vuoi ottenere qualche cosa su larga scala, c'è un solo sistema: certezza di essere acchiappati e essere toccati nel portafoglio. Si impara subito e non si sgarra più, diventa una specie di riflesso pavloviano. Siete mai stati a Singapore?. E' una magnifica città, colori e sapori esotici del sud-est asiatico, modernità assoluta ed efficienza, sensazione di tranquilla sicurezza quando giri per le strade, pulizia inusuale per l'Asia (ma le cose stanno cambiando rapidamente anche dalle altre parti), immagine di benessere abbastanza diffuso e qualità di vita occidentale. E' un melting pot di almeno quattro etnie principali che sembrano vivere assieme senza troppi attriti. Per forza, mi direte, si tratta a tutti gli effetti di una dittatura e quando c'è un tiranno che comanda, la maggior parte della gente riga diritta se no gli spaccano la testa e le insofferenze tra gruppi diversi non sono visibili, si credono inesistenti, invece, magari, sono solo assopiti in attesa di deflagrare come Yugoslavia insegna.

Certo, però in riferimento all'assunto iniziale, Singapore è una città molto indicativa. Viene chiamata anche The fine city, gioco di parole che accanto al significato La bella città, lascia trasparire anche quello di Città delle multe. Infatti la cosa che più mi colpì mentre passeggiavo per i magnifici parchi e per le eleganti strade del centro, fu la impressionante serie di divieti segnalati dappertutto da appositi cartelli con icona facilmente interpretabile, una figurina indicativa attraversata da una sbarra rossa con l'indicazione dell'entità della multa. Ad esempio Vietato fumare, multa 50$. Severamente vietato fumare, 100$. Vietato sputare, 150$. Vietato fare pipì nell'ascensore, 200$ (questo stava dentro l'ascensore). E così via con un impressionante serie di divieti da fare invidia al più fantasioso sindaco padano. Allora? Sono in fondo cose vietate dappertutto. Perché lì si rispettano? Semplice, perchè ti beccano sempre, invariabilmente e paghi senza pietà. Si era fuori da un locale e un mio amico fumava sul marciapiede, essendo ovviamente vietato farlo all'interno. Terminata l'operazione, prima di rientrare, gettò la cicca per terra, incurante del cartello barrato di rosso con la manina che gettava una cartaccia.

Tanto chi vuoi che ti veda. Non aveva ancora fatto un passo che una mano lo toccò sulla spalla e un piccolo cinese con apposita fascietta al braccio, gli disse:- Sorry sir - e intanto aveva già cominciato a scrivere su un blocchetto la ricevuta di 50 $. Mai più buttata una cicca. A parte i 50 $, è la certezza di essere beccato sempre a rendere insensato il gesto. Se tu fossi sicuro che ogni volta che dai o prendi una tangente (anche piccola, sui 100.000 €) o quando ti trovi un appartamentino senza sapere chi te lo ha regalato, ti porteranno via con le manette, avremmo i politici più onesti del mondo. Però non ho mai capito come facevano a beccarti, quando ho visto in un cesso di Sentosa Island, proprio davanti al porto di Singapore, il cartello Vietato non tirare lo sciacquone, multa di 50 $. Ho guardato con imbarazzo se ci fosse una webcam sopra il water, ma nell'incertezza ho premuto il bottone due volte.


PS Aggiungo questa che mi manda Diego e che anche io ho visto frequentemente in Cambogia.











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venerdì 9 luglio 2010

Sulla spiaggia.


La spiaggia è un ecosistema particolare. Non so perchè o quale siano le spiegazioni tecnico-scientifiche, ma la striscia magica che sta appena al di qua del bagnasciuga, ha su di me effetti assolutamente particolari e di difficile spiegazione. Il più importante tra questi è rappresentato da un generico ottundimento dei sensi che mi trasporta in una fase spazio-temporale indistinta e dai ritmi dilatati che trascendono i normali strumenti di misura e sono avvolti da un senso gradevole di torpore che rende tutto accettabile, piacevole, riposante.


Da quanto frequento Mentone e le sue pertinenze, questo aspetto è diventato sempre più evidente, anche se era presente in passato, in altri luoghi. Le sue strisce di spiaggia sassosa, che all'inizio detestavo per le pene che i ciotoloni infliggevano ai miei teneri piedi, ma di cui ho presto imparato ad apprezzare i vantaggi (avete presente che significa non essere perseguitati dall'azione erosiva della sabbia sulle vostre parti più nascoste e preziose?), accolgono con affetto il mio corpaccio stanco in un abbraccio suadente e soporifero allo stesso tempo. Quando calo dalla scaletta munito delle apposite attrezzature, ombrellino, stuoino e asciugamano, arriva subito la sensazione che ha colto Ulisse nella terra dei Lotofagi.


Un ottundimento dei sensi che ti fa considerare tutto dall'alto, da lontano come se tempo e spazio non ti riguardassero. D'accordo, luglio e agosto, in teoria non sarebbero i mesi più adatti a questo approccio. Subito la visione che ne hai è quella della bella foto di Anna M. della colonia di bagnanti di Cape Cross in Namibia che riporto in testa al post e che raffigura esattamente l'immagine che potreste avere dal bordo della passeggiata. (Chiedo scusa, ma il torpore mi impedisce di andare a cercare una diapo delle mie, sepolte nello sgabuzzino di un'era predigitale). Migliaia di otarie spiaggiate tra cui scendere, cercare un rettangolino di spazio e stendersi per entrare in un'altra dimensione. Qui il tempo ha una scansione diversa; ore e minuti scorrono secondo ritmi misteriosi.


Con la palpebra perennemente a mezz'asta, il mio corpaccione si muove lentamente, attento solo, ma inutilmente, ad evitare le ustioni che i raggi dell'astro impietoso provocheranno anche questa volta. Il meccanismo interno di valutazione della temperatura, di tanto in tanto fa scattare un clic e allora, lentamente l'otaria panciuta scivola lentamente nel mare a cercare refrigerio e deliziosa diminuzione di peso avvertito (Archimede docet). Riguadagnare la riva e spiaggiarsi nel proprio territorio è poi cosa facile, ma tutto lentamente, senza affanno. Tutto intorno, la vita della colonia, rumorosa e caciarona come quelle di ogni pinnipede che si rispetti, scorre tranquilla. Le molte immagini che ti scorrono davanti si rendono fruibili all'occhio, ma che non necessariamente il cervello scansiona, passano così senza impegno. Nordici rossi come gamberi paiono non provare alcun pensiero per l'epidermide che certamente cadrà a pezzi tra pochi giorni; nonni trepidi al servizio di bimbi impegnati a scoprire il loro livello di acquaticità; balde settantenni ed over che esibiscono nudità dalle forme imbarazzanti e che in altri ambiti si potrebbero considerare offensive, mentre qui scivolano via sventolando come borse vuote in disequilibrio tra spalle e ombelichi; tatuaggi mostruosi che invadono spazi impensati anche su corpicini di fanciulle in fiore, che dovranno essere in qualche modo spiegati quando tra cinquanta anni resisteranno impavidi alle ingiurie del tempo.


Ecco un tipo che lancia sguardi torbidi da sotto la visiera verso ogni rotodità che scopre spazi proibiti; più un là una coppietta di cinesi, attenti sotto un ombrellino a non offrire troppa superfice ai malefici raggi UV per non ingrigire ulteriormente la loro pelle, che tentano di affogare la loro piccina, che guaisce disperata all'aggressione dell'onda impietosa. Un magrissima madamina, immobile sul lettino da un tempo infinito, pare senza peso, forse morta, con la pelle rinsecchita e scurissima come cuoio mummificato, espone due borsellini avvizziti ai morsi del sole; poco più in là due norvegesi statuarie si esibiscono con noncuranza uscendo dalla spuma del mare. Corpi sudati o ben oleati, bagnati dalle onde o rinfrescati dalle docce, la colonia di otarie si bea di esistere e giace in pace senza chiedersi chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Nulla di questo mi infastidisce, anzi godo di far parte della colonia crogiuolandomi, protetto dai miei vicini; il numero è la nostra forza, se il predatore verrà, ne acchiapperà solo uno tra le migliaia, per gli altri tutto andrà avanti come prima.


Un dormiveglia senza tempo inframmezzato dallo scorrere delle pagine di un libro, senza fretta, mentre l'acido lattico accumulato si scioglie lentamente in pace. Quando, dopo un tempo indeterminato, il sole cala dietro le montagne lontane, tra i profumi della macchia mediterranea, un branzino al sale o dei moscardini alla provenzale, riporteranno la ruota senza tempo verso un nuovo inizio, per ripetere il ciclo, in questo kali yuga infinito, nel quale perdersi senza affanno.



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mercoledì 30 giugno 2010

Quarta giornata: I misteri del Beaujolais.


E siamo giunti anche all’ultima giornata di questo intenso viaggio di studio dell’Associazione Museo dell’Agricoltura del Piemonte. Studiare è faticoso, ma spesso piacevole, così per questo quarto giorno l’organizzazione puntuale della Italian Wine Travel ha predisposto una total immersion nei misteri del Beaujolais. Ancora una volta debbo ripetermi, ma mai come in questo caso si vede l’esemplificazione di come sia possibile che un territorio punti le sua carte su un punto di forza e di qualità, facendone traino per tutto un sistema.

Il Beaujolais non è un vino di altissima qualità come può esserlo il Borgogna o il Brunello o il Barolo, eppure è probabilmente il vino più conosciuto del mondo. C’è stato un periodo in cui il vino non andava, i prezzi scendevano, sembrava compromessa tutta la filiera che ruotava attorno a questo prodotto. Ebbene cosa hanno fatto i nostri bravi vignerons, si sono messi a piangere? Hanno invocato aiuti dallo stato per spiantare i vigneti salvo poi chiederne altri per reimpiantarli?

No, hanno pensato e si sono inventati il Beaujolais nouveau, attraverso una innovativa tecnica di lavorazione che ha rinnovato il prodotto, ma poi hanno saputo battere la grancassa a non finire a adesso dopo tanti anni, l’appuntamento alla mezzanotte del terzo mercoledì di novembre è atteso con ansia spasmodica in tutto il mondo. Attraverso feste, manifestazioni, eventi, sfilate di confraternite partono i camion carichi verso le destinazioni di tutto il mondo al grido magico di: -Le beaujolais nouveau est arrivé- Questa attesa creata ad arte per i dieci cru di questo vino valido, ma non straordinario, è riuscita a far conoscere in tutto il mondo un prodotto dell’intelligente marketing transalpino.

Basta visitare lo strepitoso museo del vino dell’Oenoparc Hameau Duboeuf, creato con mezzi moderni ed accattivanti nella vecchia stazione di Ronamèche Thorins che termina con una degustazione di qualche cru di questo vino piacevole e beverino nella grande sala degli organi meccanici dalle pareti rivestite di antichi manifesti, per rimanere attoniti e passare entusiasticamente alla sala vendita. E se non vi basta ancora, sostate come noi, alla Maison du Beaujolais a Belleville sur Saône per un pranzo d’addio dove gustare, assieme alla consueta salade con crostino al caprino tostato, prima del gran finale (sorbetto al cassis con marc de Beaujolais), uno strepitoso jambon au miel dalle suggestioni delicatissime.

Un Beaujolais village fresco e fruttato lo ha accompagnato nel più degno dei modi, lenendo così la tristezza del ritorno al pullman carico di bottiglie sulla strada di casa (per me una limitissima fornitura dei cru: Saint-Amour e Moulin à vent, necesse est). Bisogna saperci fare ragazzi. Stamattina ho visto del Chianti Gallo nero a 5 euro al supermercato, mentre il cru più scalcagnato di Borgogna non lo trovi a meno di 12 sul posto, potenza della comunicazione. Meditate e intanto, mentre approntate le bocche a cul di gallina per l’assaggio con gli occhi rivolti verso il cielo, date un’occhiata al bell’articolo sulle prove di giudizio alla cieca dei vini dal sempre ottimo Bressanini, da cui mutuo il sottostante video che non può essere meno calzante.





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Polli ruspanti.
Gran bollito.
Chablis e Romanée-Conti.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!