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sabato 5 dicembre 2009

Rosa salmone.

Lasciammo Riga che era già buio pesto e si arrivò subito alla frontiera creata da pochi giorni. Erano le due di notte. Qui capitò l'avventura più preoccupante dell'intero viaggio, ma avendone già parlato qui, ricordo solo che si corse il rischio di rimanere per sempre nei due kilometri di terra di nessuno, in mezzo alla neve, in pigiama, a meno venti. Lo scampato pericolo, provocò una sorta di choc termico al povero Eugenio che prima di prendere sonno, mi fece vincere due partite a scacchi di seguito, cosa mai più accaduta in seguito. E finalmente fummo a Mosca, dopo quasi un mese in cui avevamo percorso tutta la parte occidentale dell'Unione Sovietica. Ne eravamo partiti quando era capitale dell'URSS e ne ritornavamo che era diventata capitale della Russia. In quelle tre settimane si era sfaldato un impero, sulla carta, seconda potenza del mondo, ma corroso nelle fondamenta da una marcescenza a lungo nascosta sotto il tappeto e sulle sue ceneri erano nati 15 stati, economicamente sull'orlo del baratro, nel quale precipiteranno rapidamente i più deboli tra questi e dal quale i più ricchi di materie prime (Russia e Kazakistan) vedranno il fondo prima di preparare una lentissima risalita decennale, colma di situazioni terribili per la gente comune, che in fondo aspirava soltanto a trovare dei negozi dove comprare un paio di jeans. Non fu loro risparmiato nulla nel decennio successivo, iperinflazione che distrusse tutti i risparmi e annullò i redditi di pensionati e poveracci, chiusura della maggior parte delle attività economiche, crescita esponenziale delle malavite, con una insicurezza impensabile fino a pochi anni prima, finanziarie piramidali che spolparono i pochi soldi rimasti, la crescita e la presa di potere dei furbi e di molti malandrini e soprattutto una depressione psicologica senza pari, derivata dalla presa di coscienza dei fatti, quella di essere precipitati dall'essere il secondo impero del modo (in lotta per diventare primo) alla constatazione di essere al fondo della classifica del benessere. Capitali occidentali arrivarono, ma per entrare e salvare le fabbriche che facevano missili, le riciclavano in linee di riempimento della Cola; gente di tutto il mondo, interessata e volpina, giunsero a spiegare loro come erano sciocchi e incapaci, pifferai che indicavano la giusta strada, gatti e volpi che conducevano i neofiti del mercato ai nuovi e promettenti campi degli zecchini. Una gigantesca frittata si rivoltò in un paio di mesi e chi non aveva la forza, la capacità di adeguarsi subito e di seguire il carro Tespi della nuova era, fu travolto senza pietà. Lacrime senza sangue, si direbbe e più che un crollo fu come un afflosciarsi su sè stessi ad esasperare la vena malinconica ed autocommiserativa del comune sentire. Dappertutto si avvertiva il timore del nuovo, perchè era ormai chiaro che non sarebbe stato il paradiso sognato e fatto credere da Gorby, ma la nuova terra di nessuno, nata dal golpe di Elzin e della sua ghenga di furbacchioni. Un far west selvaggio dove sarebbe partita una fase di primo stadio del capitalismo, con una accumulazione primaria di nuove colossali fortune. Questo spiega molto bene il fatto che Gorby non goda di alcuna simpatia in Russia, contrariamente a quanto si crede da noi e non ho dubbi che sarà ricordato laggiù come colui che ha distrutto la potenza sovietica in cambio di nulla e forse per questo è così popolare in Occidente. Con tali vibrazioni ritornavo sulla Piazza Rossa, il cuore di tutto questo, dove al posto della bandiera rossa, sventolava ormai il nuovo tricolore ed proprio lì che appariva evidente il cambiamento epocale. Di fronte alle mura antiche del Cremlino, i marmi severi e scuri del mausoleo in cui riposa tuttora il cosiddetto salmone (dal colore incredibilmente rosato che gli imbalsamatori hanno voluto dare alla salma) che, fino a poco prima era perennemente assediato da una lunghissima fila di persone che passavano ore in silenzio, battendo appena i piedi al gelo per poter passare per pochi minuti davanti al cadavere mummificato di Lenin, dominavano uno spazio completamente deserto. Solo i due militari scandivano col passo cadenzato il rito del cambio della guardia. Lo stesso silenzio di prima, dove il vuoto assoluto aveva però sostituito il tronfio orgoglio di un fallimento annunciato. Passeggiai a lungo sulla piazza deserta, la stella rosso rubino brillava sempre sulla torre Spaskaija, ma la neve che scricchiolava sotto le suole aveva un suono cupo e le basse luci della Tvierskaija lontana, non riuscivano ad alleggerire il buio della notte incombente.

mercoledì 2 dicembre 2009

Pompe baltiche.

Dopo una notte di tregenda, al mattino ero un cadavere che cercava di camminare. Ferox che avevo scioccamen- te deriso nella analoga situazione occorsagli pochi giorni prima, ben comprendeva la mia difficile posizione nell' equilibrio costante di una espulsione antero-posteriore a seconda dei momenti e non agitava il coltello nella piaga. Comunque attraversammo a piedi, in qualche modo le strette stradine del vecchio centro di Riga per un importante appuntamento. Si trattava di pompe. Anzi di pompette. La signora Sefaranova, direttrice della fabbrica di profumi, come tutte le donne di potere sovietiche, strabordava da ogni lato ed era dotata di una notevole cofana di capelli biondo cenere che la rendevano ancora più imponente. Accomodatici nella grande sala riunioni, la schiera delle aiutanti provvide ad esibire la serie dei nuovi prodotti. Mentre veniva servito un thé dorato come l'ambra del Baltico, una vera panacea per il mio apparato gastroenterico, assieme a legnosi biscotti lettoni, esaminammo la serie delle boccettine, che avevano un apparenza decente, in linea, volendo giudicare con buona volontà, con i criteri estetici occidentali, fine ultimo a cui sembrava ormai tutti volessero tendere. L'azienda era nostra vecchia cliente di pompette e spruzzatori per profumi, i cosiddetti "finger sprayers", prodotti tecnologicamente non banali come potrebbe sembrare al profano; ma la concorrenza era entrata a piedi uniti e ormai anche il vecchio mondo sonnacchioso dell'orso sovietico, che prima si accontentava delle strette di mano e delle pacche sulle spalle, voleva discutere di prezzi. Robe da matti. I coreani erano arrivati all'attacco e avevano fornito una partita di pompette di prova ad un prezzo stracciatissimo, un terzo del nostro in verità, ed il contratto era in pericolo. La prendemmo alla larga, mentre la trombona magnificava la qualità delle pompe con gli occhi a mandorla, rigirando tra le mani i flaconcini, da cui emergeva un olezzo potente di muschio e vetiver. Fortunatamente la potente aggressività del liquido ebbe un effetto collaterale lenitivo sulla mia nausea e sul mio equilibrio espulsivo generale, mentre la discussione procedeva. Continuammo a magnificare la qualità di quelle delicate essenze, dichiarandole pronte per il mercato occidentale, cosa che aumentò il numero dei denti d'oro resi visibili dall'allargarsi del sorriso di Irina, come la chiamava confidenzialmente Ferox, senza criticare la qualità delle pompe nemiche, come impone l'astuzia commerciale di ogni buon venditore che si rispetti, ma senza perdere occasione per mostrare, come per non parere, le qualità decisamente superiori del nostro prodotto. Tra un complimento ed un oh di ammirazione, la massa di carne tremula come un budino, a stento trattenuta da pesanti misure contenitive, a poco a poco si sciolse e confessò senza condizioni, che effetivamente le malefiche coreane costavano poco, ma perdevano da tutte le parti, non certo come i magnifici e fidati italijanskye pulverizatory. Accettò così il piccolo aumento che ci meritavamo e ce ne uscimmo a riveder le stelle carichi di boccette omaggiate che, una volta in Italia, alcune mie perfide ma amatissime colleghe, sparsero in abbondanza su un mio maglioncino per scherzarmi, ma il tanfo era talmente lontano da quello che si considera un profumo femminile, che Tiziana lo prese per normale puzza di treno russo.

sabato 28 novembre 2009

Giallo ambra.

Riga, decisamen-te non era una città sovietica. Il centro vecchio, molto ben conservato, con le sue piccole vie contorte, le piazzette bordate di case colorate, le guglie filanti delle chiese, insomma un colpo d'occhio molto gradevole. Passeggiare per la città ti faceva sentire in una delle tante città del nord europeo con gli scuri pomeriggi invernali ed i lampioni gialli ad illuminare ancoli antichi, selciati irregolari, facciate storiche. Qui il processo di de-sovietizzazione aveva marciato più in fretta, lo si vedeva dai molti nuovi piccoli negozi, dai locali che sorgevano come funghi, nel ristorantini che avevano preso un'intonazione mitteleuropea con orchestrine di archi e un tentativo di servizio svolto con più accuratezza. Inoltre stava accadendo una cosa che lasciò perplesso Ferox e inorridito Zhenija, molti si rifiutavano di parlare russo. Al contrario degli altri stati russi dell'impero che stolidamente cercavano solo un'indipendenza dal potere centrale, per consegnarsi alle camarille locali e sprofondare in una debolezza economica che li avrebba condotti ad un futuro di lacrime e sangue, qui la mentalità era quella della colonia che si stava affrancando da un colonizzatore, riprendendo in mano il pallino e il modus vivendi di un passato ancora recente e ben chiaro nei ricordi di molti. Già saltavano agli occhi, le nuove discriminazioni che si stavano creando, la marginalizzazione, che diventò nel futuro immediato, una vera e propria persecuzione nei fatti, verso la minoranza russa che si era lì trasferita in circa 50 anni e che si intravvedeva già bene, proprio nel rifiuto di quella che era stata la lingua ufficiale. Non a caso le tre repubbliche Baltiche furo quelle che per prime si staccarono ufficialmente a tutti gli effetti dall'impero e diedero inizio alla sua disgregazione. Anche Zhenija cominciava a capirlo e si chiedeva pieno di dubbi: - Ma allora non potrò più venire a riposare a Jurmala?- riferendosi alla lunga e bellissima spiaggia, classico luogo di vacanza sul mar Baltico, un tempo già frequentato dagli Zar, poi popolato da sanatory pieni di lavoratori meritevoli. I tempi erano maturi per un drastico cambiamento, ma Riga rimaneva sempre bella, specialmente dal mare, proprio il mare davanti a Jurmala o quello davanti all'estuario della Daugava, completamente ghiacciato per kilometri. Che sensazione strana, quella di camminare sulla banchisa nel primo pomeriggio, mentre già la luce stava scendendo e le ombre del pallidissimo sole nordico, già lunghissime, svanivano fondendosi con l'oscurità incipiente. Anche la riva era coperta di ghiaccio increspato come il mare, quasi che le onde stesse, scivolando sulla rena avessero voluto mantenere una forma che ne manteneva la memoria, quasi che il freddo avesse congelato l'idea di onda prima che quella dell' acqua. Una riva del mare in cui i cercatori scovavano l'ambra del Baltico, anche in blocchi enormi di alcuni chili, oppure in piccole gocce dall'apparenza tondeggiante ed irregolare, alcune quasi bianche e dorate come il miele di acacia, come lattiginose, altre più scure, trasparenti e traslucide come quello di castagno; qualcuna con piccole inclusioni, insetti o pagliuzza che ne accrescono il valore e la bellezza. Qui è il regno di questa resina fossilizzata e si trovavano facilmente oggetti e lavorazioni in questo materiale, così ci si poteva sfogare negli acquisti dei regalini da portare a casa prima di una gradevole cenetta a base di salmone su letto di patate e crema di gamberetti, in un piacevole ristorante, mentre un quartetto di belle signorine suonava Mozart su una piccola pedana laterale. Ma non tutto era ancora collaudato e a punto. Appena rientrati, la vendetta di Odino si abbattè su di me col martello di Thor che mi percosse duramente stomaco e ventre. Un andirivieni continuo mi costrinse per tutta la notte, ad una conoscenza biblica del water di quel pur gradevole alberghetto. Un contrappasso duro da digerire in tutti i sensi per aver troppo assaporato il ritorno alla civiltà.

venerdì 13 marzo 2009

Lettòne o Lèttone?

Ieri, Dottordivago, sul suo blog Il panda deve morire, faceva riferimen-to al lettòne da non confondere col lèttone e subito la mente mi è tornata ad un momento importante della storia europea ed al fatto che puoi capitare in mezzo ad avvenimenti più grandi di te senza accorgertene minimamente. La skyline di Riga vista al di là della Daugava ghiacciata nel cuore dell’inverno, non è particolarmente avvincente, come invece passeggiare tra le case dalle facciate colorate della città vecchia. Così lasciammo alla sera la città, senza troppi rimpianti, con qualche contatto in agenda, ma pochi affari concreti. Salimmo dunque nel vagone coupé che ci avrebbe riportato in una Mosca nervosa per i cambiamenti troppo improvvisi, preparandoci per la notte. Opportunamente pigiamati, nel calore torrido del vagone, non avvertivamo i -20° C con cui la notte russa avvolgeva il convoglio che fendeva l’oscurità. Dopo qualche tempo, era già passata da un po’ l’ora del vampiro, il treno si fermò nella pianura gelata e bianca. Assonnati, ci tirammo fuori dalle cuccette pensando al solito formale controllo passaporti, all’ingresso della regione russa, ma non avevamo fatto i conti con la storia che incombeva su di noi in quel marzo del ’93. Quando pochi giorni prima eravamo partiti, uscivamo dall’URSS vicina al tracollo, ora entravamo in Russia passando dal nuovo confine lèttone-russo. Dagli sportelli spalancati, assieme al gelo della notte, entrarono un gruppo di neodoganieri, compresi del loro nuovo potere e completamente ubriachi. Un vero assalto alla diligenza con urli e minacce che procedevano di scompartimento in scompartimento verso di noi. Io, semiaddormentato ed alle prime esperienze russe, capivo poco, ma Gianni ed Eugenio scesero dalle brande con occhio preoccupato. Mentre i figuri in divisa taglieggiavano i poveracci coi fagotti che ci precedevano, un graduato col cappello di traverso sbattè i pugni sulla nostra porta intimandoci di aprire. Consegnammo i passaporti e qui cominciò il dramma. Secondo il tizio, che tentava di tramortirci con il tasso alcoolemico del suo fiato urlandoci in faccia, io ero uscito illegalmente dalla Russia qualche giorno prima e il mio vecchio visto non mi consentiva di rientrarvi. Gianni, in possesso di visto multiplo ed Eugenio, essendo russo, si trovavano in una posizione più sfumata, se pur pesantemente irregolare. A nulla valse spiegare che quando eravamo usciti c’era l’URSS e non ti timbravano il passaporto per andare a Riga, il major non voleva sentire ragioni e a suon di urla voleva buttarci (o buttarmi , non capivo bene) assieme alla valigia, in pigiama in mezzo alla neve. Dal colore della faccia dei miei amici, capii che dovevo cominciare a preoccuparmi, mentre Gianni iniziava una lunga e suadente conversazione col graduato che gridava insulti all’indirizzo degli stranieri prepotenti e tirchi. Questa parola segnò la svolta della trattativa. La sagace mente di Gianni interpretò il lessico leggendolo nella sua giusta valenza. Intanto sottolineò che noi non eravamo affatto tirchi e che anzi, noi eravamo i primi a ravvisare l’opportunità e la correttezza di pagare il giusto per avere un nuovo visto. Questo argomentare sembrò rabbonire il cerbero che bofonchiò qualcosa, accennando ad un costo di venti dollari in contanti, cifra evidentemente valutata come spropositata. Con grandi sorrisi, pagammo rapidi, mentre l’atmosfera si rasserenava e ci venivano restituiti i preziosi passaporti, Tralasciammo di far notare che il timbro del visto era rimasto completamente virtuale e salutammo con la mano i compari del capo che scendevano dal treno in giacchetta con in mano alcune bottiglie di vodka rapinate allo scompartimento successivo, mentre la superficie ghiacciata tra i binari scricchiolava al loro passaggio. Il treno si mise in moto lentamente nell’inferno bianco; erano le tre del mattino, ma non riuscii più a dormire fino a Mosca.

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