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giovedì 12 novembre 2009

Il thé georgiano.

Eccoci di nuovo al treno, la costante dei grandi spostamenti di questo immenso paese. Sarà lo scartamento maggiorato rispetto al nostro che lo fa apparire più grande e più misterioso, sarà che arriva(va) sempre in orario, ma al contrario dell'aereo, che da noi è sempre stato considerato un trasporto di elite, lì il treno era per così dire un trasporto più aristocratico con i suoi coupé con le tendine e i vasetti con i fiori di plastica. Andrej mi abbracciò sulla banchina e mi fece scivolare nella tasca della dublijonka una piccola bottiglia di kognàk Ararat di 25 anni, aveva capito le mie debolezze o aveva qualche cosa da farsi perdonare. Chissà che cosa. Lo capimmo appena saliti sul vagone n. 13 del treno di mezzanotte per Kharkhov. Il maledetto aveva comprato due biglietti di terza classe (disse poi che si non era scovato di meglio) e ci trovammo catapultati nel bailamme della lotta proletaria per prepararsi in modo dignitoso alla lunga notte incombente. Zhenija, che era chiaramente fuori di testa, terrorizzato che la preziosa persona a lui affidata (cioè io), subisse disagi imprevisti, forieri quindi di future punizioni e processi, saltava qua e là come un ossesso creando confusione e ulteriore irritazione nella massa dei viaggiatori. Scavalcando montagne di bagagli, balle di masserizie e animali vivi, raggiungemmo a fatica la nostra area, una specie di scompartimento a otto posti con pancacce di legno, già completamente invase di bagagli. Cercai di infilarmi in un angolo per creare un microhabitat accettabile al fine di trascorrere alla meno peggio le dodici ore che ci attendevano, abbandonando la gestione dei nostri altrettanto ingombranti bagagli. Davanti a me due enormi bionde baffute in stile Irina e Tamara Press, praticamente senza bagagli, che risultarono essere dirette in Polonia per uno shopping tour, il commercio fai da te, che stava prendendo piede con la liberalizzazione, grazie al quale la gente si spostava verso i confini cinesi o europei per tornare ai propri paeselli carichi di merci da rivendere. Stavano sulla loro, anche se erano ben disposte ad attaccare bottone ma stringevano inesorabilmente verso l'angolo, grazie alla loro prorompente massa specifica una vecchina col colletto di pizzo e camicetta bianca di poliestere inamidata che tornava dal sanatorj di Kislovodsk, quello tanto sognato da Zhenija. Forse non aveva visto i tempi prerivoluzionari, ma di certo sembrava uscita dallo Smolnij di San Peterburg e questo mondo, anche per lo schiacciamento provocato dalle sorelle, le stava di certo stretto. Stava così muta e con l'occhio basso cercando di occupare meno spazio possibile e quando le offrii un amaretto, della scorta di cui mi aveva amorosamente dotato Tiziana, per i momenti di saudade, lo scartò con meraviglia e lo masticò adagio regalandomi con gli occhi una sensazione di piacere tale da farmi dimenticare la situazione di disagio. Le bionde invece lo divorarono con furia intente a pensare, golose, ai futuri guadagni. Di lato una famiglia di mongoli aveva disposto diverse balle di cotone ed altre masserizie nel passaggio centrale per guadagnare spazio e preparare una specie di giaciglio per la notte incombente e intanto avevano estratto una serie di beni di consumo da una sporta capiente. Stesero giornali da cui erano emersi due grossi pesci secchi e, mentre li sbranavano di gusto, cominciarono a sgusciare un numero consistente di uova sode, dopo aver aperto e posto sul tavolinetto in equilibrio precario un grande recipiente di cetrioli in salamoia e un paio di bottiglie di vodka. Al mio fianco un orco ceceno, con una imponente barbaccia nera si era già accoccolato, reclinando il testone dalla mia parte e aveva cominciato a russare. Non riuscivo a capire dove sarebbe riuscito a mettersi Zhenija, non appena fosse ritornato dalla missione esplorativa di cui lo avevo incaricato, quella di trovare una sistemazione appena più decente, con la forza del danaro, cosa che ci dava un innegabile vantaggio rispetto ai nostri concorrenti. Intanto arrivò una bigliettaia camurriosa che pretendeva da me qualcosa che, a causa della mia povertà di comprensione non riuscivo a capire; che volesse controllare i biglietti o la nostra prenotazione? Mistero, fatto sta che capii che voleva farmi sloggiare dalla mia tana, per sistemare una coppia di banditi caucasici dalla faccia scura e decisi a conquistarsi il loro posto al sole, figurativamente parlando. Tutti nello scompartimento presero parte attiva alla discussione, sembrava il processo di Biscardi, che ricordo allora era già alla 14° edizione; per fortuna ritornò Zhenija con gli occhi spiritati che gli schizzavano dalle orbite per la tensione. Come gli avevo imposto, aveva tentato di comprare lo scompartimento privato della capavagone che pretendeva 10.000 rubli, circa 15 dollari, per cederlo e voleva l'autorizzazione all'enorme esborso. Lo maledissi per il cronico e ormai geneticamente incistato rifiuto di responsabilità e lo rimandai di corsa a bloccare l'affare, prima che un'altra coppia distinta che stava risalendo il vagone in cerca di occasioni, ce lo fregasse. Andò di corsa e tornò raggiante e vincitore, interrompendo la diatriba con la bigliettaia che cominciava a spazientirsi, come del resto i ceceni. Trasportare i nostri bagagli nella nuova accogliente sistemazione fu un sollievo e la notte buia e tempestosa calò con mano plumbea sulle nostre nuche assieme al torpore della tensione dissolta. Venimmo svegliati al mattino dalla cortese dezhurnaija che portava due bicchieri colmi di profumato thé georgiano forte e ruvido; la potenza del rublo le apriva completamente la chiostra dei denti ricoperti di acciaio, il sorriso metallico ma sereno di chi si era guadagnato la giornata. Anche Zhenija era di buon umore, così le cose dovevano marciare in un paese serio e anche se la tensione ed il sudore gelato gli aveva provocato una fortissima tracheite, sorbì il suo thé con voluttà assicurando che non ci sarebbero stati problemi e anche se la broncopolmonite avesse preso il sopravvento (come sembrava probabile) avrebbe tenuto bordone fino alla morte. Ci teneva molto a dimostrare la sua affidabilità a quello che ancora riteneva uno spietato supriore, al vertice della sua visione gerarchica e ci vollero mesi a farmi considerare come un amico oltre che un collega. La sconfinata pianura del Donbass coperta di neve, scorreva intanto lenta al nostro fianco. Ancora thé indiano medio forte e Zhenija, vista la disponibilità della vagonaia, ordinava senza vergogna; gli bruciavano i 10.000 rubli comunque, ma i continui accessi di tosse catarrosa scemarono di intensità mentre il treno entrava in stazione, ovviamente in orario. Sulla banchina, sull'attenti, la figura barbuta e paurosamente magra del dostovieskiano Alexej, ci aspettava come la grande mietitrice per l'appuntamento fatale.

sabato 27 giugno 2009

Un incrocio.

Il 238 grigio topo di venti anni aveva lasciato con calma la landa desolata, ma mitica, di Nord Kap e dopo aver zigzagato a lungo tra i laghi finlandesi si avvicinava al confine sovietico in un mattino di fine agosto. E sì caro Doc, non solo andavo in Russia per vendere impianti, ma addirittura a farci le ferie! Dirai che ero matto, ma all'inizio degli anni 80, quel mondo chiuso e sconosciuto aveva un fascino ed un richiamo alla scoperta, a cui non ero riuscito a sfuggire. Poichè un amico voleva assolutamente che gli portassi a casa le corna di una renna e dato che, essendo di dimensioni esagerate, nel camper non ci entravano tutte, le avevamo legate con dei tiranti di gomma (il famoso e micidiale ragno) sulla cabina davanti al serbatoio del GPL a far bella mostra di sé, come la preda che i cacciatori espongono sui cofani delle macchine per fare vedere quanto sono stati bravi. Alla frontiera eravamo l'unico mezzo e, come mi avevano predetto ci apprestammo comunque ad una lunga attesa. Le corna facevano comunque simpatia e dopo aver ridacchiato a lungo ed averci fatto la consueta accoglienza a forza di Italiani, Sicilia, mafia, ecc. i due doganieri bardati, iniziarono l'opera di controllo accurato che avevo previsto (esperienziato da precedenti viaggiatori) in un paio d'ore. Cominciarono con controlli di routine con specchi, per vedere se volevo introdurre qualche clandestino nella Santa Madre Russia (bah?), poi passarono all'interno del mezzo, mi fecero smontare lo specchio nel bagno, timorosi che nell'intercapedine fossero nascoste pericolose riviste antisovietiche. La scoperta del doppio fondo sul pavimento provocò loro una grande eccitazione, mentre me ne imponevano l'apertura con occhi brillanti. Scostato il linoleum ed aperta la botola, frugarono a lungo coi musi lunghi e delusi avendovi trovato solo i ricambi motore che portavo dietro per precauzione. Allo scoccare delle due ore, benchè ci fossero ancora molti interstizi da esplorare, cadde loro in cacciavite di mano e ci lasciarono liberi. Capii dall'occhiata che avevano dato in alto, verso la guardiola degli uffici che l'intensità e la durata del controllo previsto dallo standard era ormai stata rispettata e perdettero ogni interesse a noi dandoci via libera. Un segnale netto di come le cose procedevano per burocrazia immutata e priva di vero interesse. Purtroppo il mezzo non voleva rimettersi in moto, rimanendo ad ingombrare il passaggio comunque deserto. I cerberi rimasero a sonnecchiare su due sedie facendo stanchi cenni della mano a levarci dalle scatole, ma, niente da fare, il maledetto rimaneva morto col cofano alzato e io ed il mio amico a guardarci dentro con aria da finti competenti, a chiederci in che modo ci saremmo tolti dal guano. Tiziana, che era stata estromessa dall'operazione meccanica in quanto femmina, butta l'occhio dentro il cofano e fa: "Ma quel filo lì come mai è staccato e pende?" Con sufficienza proviamo a infilarlo nel buco vicino e bruuum, come per magia il mostro riprende vita e ci consente di lasciarel'area dogana, silenziosi, senza fare commenti di nessun genere. Così pensosi, si arriva alla periferia della allora Leningrado e ci si infila un po' a casaccio per un lungo prospiect. Vietato chiede informazioni sul percorso, il maschio italiano, si sa non chiede, va a istinto. Arriviamo ad un semaforo verde con frecce e vigile al centro. Svolto a destra contravvenendo all'unica regola stradale diversa da quelle italiane. Non si svolta a destra con semaforo verde, bisogna aspettare anche la freccia verde. Vado imperterrito, mentre al centro dell'incrocio il GAI' comincia a fischiare sbracciandosi. Fingendo si non sentire, proseguo, ma il delitto non paga, dopo 500 metri la strada termina senza uscita, bisogna tornare indietro; intravedo lontana in mezzo all'incrocio l'ombra vindice che mi aspetta a braccia conserte. Accosto e scendo in attesa di un processo rapido ed implacabile. Memore dell'andazzo e dei processi sovietici, un po' timoroso della Lubianka, sebbene lontana, sarei pronto ad una autoaccusa formale con annessa procedura di autocritica, ma, mentre si è ormai radunato un capannello di sfaccendati, pensionati e babuske con le sporte, il milite mi punta il dito gridando "пять рублей штрафа!", 5 rubli di multa. Non so come, ma mi viene spontanea la supercazzola. Carta alla mano, comincio a chiedergli indicazioni per trovare il campeggio a cui eravamo diretti, in italiano, mostrando le vie e chiedendo lumi. L'agente dell'ordine continua a richiedere disperatamente il pagamento mostrandomi le cinque dita della mano e mimando la mia infrazione. Intanto attorno al camper bicornuto si è radunata una piccola folla che partecipa con vigore al dibattito, chi cercando di fare segni sulla carta, chi cercando di deviare le intenzioni della legge, chi commentando cosa ci andava a fare da quelle parti un baraccone di quel genere, proveniente per di più dall'Italia. Le invettive della guardia diventano sempre più flebili, alla fine una vecchietta lo prende di punta e lo rimbrotta con aria severa. Credo che il senso fosse: "Ma va là non vedi che sono stranieri, poveretti e che bisogna dargli una mano?" Il GAI' cedette di colpo e se ne andò borbottando imbronciato nella sua guardiola e dopo aver stretto un po' di mani ce ne andammo verso la nostra meta. Le prime crepe nel gigante dai piedi d'argilla del regime, cominciavano a mostrarsi nella loro tragica evidenza.

giovedì 28 maggio 2009

Bollicine 3: non di solo pane...

Tirato per i capelli da un gruppo di fedeli lettori, ormai appassiona-tisi alla saga dello champagne degli Urali, vado a stendere la terza e ultima puntata, un prequel che illustra la fase preparatoria della spedizione dei materiali e i fatti immediatamente successivi. Infatti, come si suol dire, è facile firmare i contratti e incassare i milioni di dollari, il problema è che poi qualcosa che funzioni bisogna pur spedirlo e montarlo, se no, non ti lasciano tornare a casa. Mettere insieme un impianto di queste dimensioni, assemblando macchine comprate in mezza Italia, non è semplice e la logistica della spedizione, una volta affittati i giganteschi Antonov che dovevano contenere nei loro ventri capaci delle preziose attrezzature che avrebbero trasformato il vinotto di Crimea, opportunamente sposato ad acqua, alcool, aromi e CO2, in nettare frizzante, prevedeva la formazione di una brigata di una ventina di tecnici montatori al seguito. Questo gruppo disomogeneo, ma motivatissimo dai racconti di qualche veterano, sulle delizie che avrebbero lenito la permanenza sul suolo della Santa Madre Russia, era formato da un gruppo di veneti, alcuni emiliano-lombardi e uno zoccolo duro di piemontesi dell'area del moscato, coordinati da una Stefi motivata al massimo. Ma, come sa chi si è occupato di maestranze in terrae incognitae, per tenere alto il morale della truppa, oltre alla promessa delle delizie di cui sopra, sono necessarie delle razioni di sussistenza che, calmando lo stomaco, rendano più fioco il richiamo della patria lontana. E' quindi vitale aggiungere alle macchine, uno o meglio due bancali di materiali mangerecci tipici, montagne di spaghetti (n.5), sughi e salumi, proporzionati alla durata presunta della permanenza in cantiere. Stefi, pur vecchia del mestiere, era opportunamente stimolata dal capo cantiere, un gentile personaggio a cui Pecèèètto Torinèèse aveva dato i natali, oltre ad un fortissimo accento gianduiofono, il quale, inviato a controllare la chiusura definitiva delle gigantesche casse che contenevano l'intera linea (si dimentica sempre qualcosa), arrivò in ufficio di corsa a chiedere udienza con occhio umido. Era il momento più temuto, forse mancava un pezzo importante della gabbiettatice o i ricambi della nastracartoni o la mano di presa del depallettizzatore o peggio di tutto, il famoso carrello dei ferri, un pozzo di San Patrizio di chiavi inglesi di ogni tipo, chiavi a pappagallo, tirabulloni del 12 e ogni altro ben di Dio da officina che era proverbialmente guardato con bramosia feroce dalle maestranze locali e che, al termine del montaggio, per tradizione, veniva lasciato rubare per un tacito accordo, previsto nel caso nulla fosse stato rubato prima. Ma c'era tutto, qual'era la mancanza dunque? Il nostro pecettese si avvicinò e con cortesia, ma a bassa voce, per non disturbare troppo esalò: "Ma, Stèèèfi, non abbiamo pensato al parmigiano". C'era, c'era naturalmente, una mezza forma che per sfuggire agli occhiuti doganieri era stato sapientemente occultato da Pavarotti (vi ho parlato precedentemente di questo buon Reggiano) all'interno del Cip, un grande contenitore di acciaio che era stato opportunamente riempito anche con centinaia di bottiglie di lambrusco, carburante indispensabile ed apprezzato anche dalla schiera veneta e celate con cura in anonimi cartoni perchè non sbattessero troppo. Gli aerei decollarono portando con sè anche i due tecnici delle etichettatrici, al battesimo del volo, ben legati nei seggiolini tra le casse. Uno in particolare, di giovane età e di poca esperienza, si rifiutava assolutamente di partire ed era stato convinto dopo un testa a testa con un veterano che gli aveva illustrato con dovizia di particolari i lati piacevoli della terra degli zar; al termine fu dura costringerlo a tornare a casa, ma i giovani si sa, son facili agli innamoramenti improvvisi. Effettuato lo sbarco, prese le teste di ponte possesso del territorio, sfuggite le masserizie principali agli uomini della dogana che si aggirarono per un paio d'ore alla ricerca di qualcosa di interessante, sviate da una Stefi ormai usa a questi depistaggi, si prese possesso del campo di lavoro, dove gli acquirenti avevano pensato a tutto per redere più gradevole la permanenza agli amici italiani, incluse due toilette nuove di zecca rivestite di piastrelle e sanitari provenienti direttamente da Sassuolo. Purtroppo, il primo giorno di lavoro, uno dei dei componenti della brigata dei muratori russi, non conoscendo l'uso del suddetto ambiente, riempì entrambi i buchi di cemento a presa rapida, vanificando il bel gesto di benvenuto. Per tutto il tempo si dovette quindi utilizzare il locale raffigurato a lato, tirato su in fretta e furia, mentre per i primi giorni ci si dovette arrangiare alla belles etoiles. Il vantaggio fu che le permanenze in loco erano brevissime per evitare di cadere tramortiti nella cavità. Del muratore non si seppe più nulla, né nel gulag dove ancora oggi probabilmente sverna.

martedì 19 maggio 2009

Bollicine 2: la vendetta.


Il contratto fu firmato e allora via, in giro per l'Italia a cercare le acconce autoclavi, filtri, mixer (appunto per mescolare acqua, vino e alcool), un impianto completo per purificare l'acqua, un laboratorio analisi, riempitrice gigante isobarica, etichettatrice, depallettizzatore per le bottiglie vuote e pallettizzatore per quelle piene e così via cantando. In pratica dalla pressa e stampo per fare il tappo (rigorosamente di plastica) al pallet di cartoni di bottiglie avvolto di cellophan. Un impianto colossale, che data la fretta (ci misero mesi a decidere, ma poi vollero tutto e subito) doveva essere spedito via aerea. Pensate a tre colossali autoclavi che a malapena stanno su tre TIR! Ci vollero due enormi Antonov (tipo quello che cadde a Torino) che portavano cadauno l'equivalente di 12 camion (o 8 carri armati a scelta) e un Iliuscin più piccolo con le macchine minute che partì da Genova con un piccolo gruppo di tecnici. Ricordo Stefi nel posto del mitragliatore quello tutto di vetro sotto la carlinga e poi sotto una scaletta di legno che portava alla stiva, e Beppe su un sedile di fortuna di fianco alle reti che trattenevano le casse con la 24 ore sulle ginocchia, come un para in attesa del lancio su Guadalcanal. Solo il saturatore per produrre CO2 (per le famose bollicine) dovette essere inviato via terra, sugli aerei non ci stava. Lo stabilimento che avrebbe ospitato l'impianto era colossale, pari a 22 campi di calcio coperti; pare avesse ospitato una fabbrica di carri armati, ma nel disfacimento sovietico bisognava produrre roba più utile e le bollicine sono particolarmente richieste tuttora in Russia. Il nostro impianto pur enorme, sembrava sorprendentemente piccolo, quasi perso in quegli smisurati saloni in cui si concludeva la ristrutturazione. Mentre sorgeva a poco a poco e le macchine prendevano forma, la brigata delle muratrici sovietiche finiva di imbiancare i soffitti; le ragazze, in gran parte di generose dimensioni, appese precariamente con corde come salame da sugo, agitavano i lunghi pennelloni schizzando a destra e a manca i nostri valenti montatori, distratti soltanto da quelle di forme più umane che passavano con le latte strabordanti colore come le occhiate infuocate che lanciavano in tralice transitando tra motteggi misurati. La linea pian piano prese forma; infine, a macchine pronte cominciò a scorrere il liquido vitale, il nettare prezioso ragione stessa della fatica, preparato con cura e inviato verso la sua destinazione naturale, la bottiglia. Ai nostri uomini vennero dunque affiancate le maestranze locali per addestrarli alla conduzione delle macchine. Precisato che il prodotto in questione era ed è perfettamente conforme alla legislazione russa in materia, il suo cammino verso la bottiglia è giocoforza lungo e tortuoso. Dopo la lunga e accurata preparazione (le famose 12 ore in autoclave) i prodotti erano amorevolmente mescolati, aggiunti di zucchero, aromi e bollicine per andare direttamente alla riempitrice. Ora, è risaputo il rapporto di amore e fratellanza che lega queste genti della steppa ai liquidi di ogni genere con percentuali alcooliche, per cui il cannello di pescaggio della riempitrice agiva come un richiamo irresistibile per alcuni di loro, specialmente i più vicini. In particolare l'addetto all'etichettrice, di tanto in tando riteneva indispensabile controllare la costanza di flusso alla macchina, che come si sa non è bene far girare a vuoto, e transitava con costanza nei pressi della stessa succhiando dal cannello per assicurarsi della presenza di liquido. Certo dopo poche ore il rendimento del suo lavoro diminuiva verticalmente e il numero dei suoi controlli aumentava in proporzione. Preso più volte ed ammonito col cannello in bocca, mentre guardava con occhi spalancati a dire che doveva pur controllare che tutto fosse in regola, fu licenziato con disonore, ma dopo poco obbligammo il direttore, preso anch'egli in un rarissimo momento di lucidità, a riassumerlo in quanto era l'unico che aveva capito il funzionamento dell'etichettatrice, macchina delicata che vuol essere trattata da mani amorevoli e competenti. Comunque a poco a poco il progetto andò in porto, le bottiglie arrivavano, i tappi erano stampati, l'acqua depurata, lo "champagne" prodotto, i cartoni costruiti, riempiti di bottiglie, nastrati e pallettizzati, mentre nel cuore dell'impianto, il riempimento, l'ideatore della macchina, un caro amico, che ormai da qualche anno riempie bottiglie per chi non ha più sete (ma anche lì avra trovato qualcosa da imbottigliare spero), chiamato dai russi Pavarotti per la sua somiglianza strutturale, dirigeva l'orchestra dettando i tempi ed il dipanarsi dei ritmi musicali del flusso ininterrotto delle bottiglie. Che suono avvolgente. Il tintinnio delle bottiglie che incolonnate, sbattendo leggermente tra di loro si avviano alle macchine col sottofondo ritmato della pressa che snocciola tappi; il nastro scivoloso che avvia i soldatini al riempimento, mentre il liquido, spumeggiante appunto, fluisce festoso al serbatoio della macchina che in un continuum spazio-temporale, lava, riempie e tappa. Poi la schiera prende un altro ritmo, più concitato, prima la gabbietta, poi il capsulone poi lunetta, etichetta e controetichetta, mantre a lato il suono profondo della formacartoni allarga, forma, inserisce, infine colma di bottiglie e porta al gran finale rossiniano dove tutto si fonde nella sinfonia del grande pallet che ruota vorticosamente avvolto e infine deposto assieme alle centinaia di suoi fratelli nel grande magazzino in attesa di essere caricato. Il lavoro era finito ed emergeva uno dei problemi principali dell'impresa, i furti. Così l'azienda aveva previsto 50 uomini per la produzione e 150 per la security e ogni sera, quando il bus ci riaccompagnava in albergo al passaggio del gate, barriere e filo spinato con sentinelle armate, veniva perquisito in cerca di preziose bottiglie fraudolentemente carpite dagli amatori. Festeggiammo a lungo in albergo anche se la prima bottiglia stappata, quasi provocò una vittima. Le bottiglie infatti, provenienti da una vetreria del Caucaso (altri 3000 km di viaggio) avevano un collo di dimensioni alquanto variabili ed i tappi erano venuti un po' troppo grossi, così che quel maledetto primo tappo non voleva venir fuori a nessun costo, per quanto mani robuste tentassero di estrarlo. Poi, a forza di scuotere qella benedetta prima bottiglia, il manufatto plastico partì come un proiettile ed passando dalla finestra aperta andò a colpire un passante sul marciapiede opposto che, benchè offeso fu convinto a non sporgere denuncia in nome dell'amicizia internazionale. Bollicine a fiumi quella notte, il nettare sublime era stato chiamato Monferrat, come recitava l'ambiziosa etichetta e pare che, specie nella versione alla banana, circoli ancora nella Russia liberata dalla tirannide.

lunedì 18 maggio 2009

Bollicine

Le quattro del pomeriggio di febbraio a Mosca, significano già notte fonda. Un buio un po' caliginoso, non tossico per i camini, chè il caldo viene totalmente distribuito in teleriscaldamento, ma per il cattivo carburante incombusto delle auto, attutito dalla luce giallastra e fioca dei lampioni ottocenteschi. Così tra radi fiocchi di neve, mentre discutevamo animatamente della fiera conclusa da poco, suonò alla nostra porta Victor. Aveva un cappottino liso che sembrava difenderlo poco dal vento gelato che tirava in Vortnikosky Periulok, ma non sembrava soffrirne mentre entrava, scrollandosi di dosso l'umidità e sbattendo gli scarponi inzaccherati dopo aver attraversato il cortile pieno di auto Zhigulì arrugginite. Ci guardò un po' di sbieco con uno sguardo interrogativo, ma era una falsa impressione data dagli occhi alquanto divergenti tra di loro. Si sedette dopo i saluti di rito e venne subito al dunque. Avendo avuto informazione da amici, che la nostra era una karoshaija firma, una buona azienda, leggesi affidabile in quel periodo, era stato incaricato di richiederci un' offerta per un grosso impianto. A quel tempo, per una azienda a Mosca, non era importante quale tipo di impianti facessi, bastava sapere che tu facevi impianti in generale. Anche se la dimessa figura che avevamo davanti non prometteva molto, ci predisponemmo ad ascoltarlo di buon grado, anche se la necessaria premessa "Dienghy iest", i soldi ci sono, che era stata immancabilmente pronunciata, data la sua ovvietà, non garantiva come sempre che poi ci fossero davvero. Veniva da Celijabinsk, una grande città siberiana al di là degli Urali. Partì subito con decisione. "La nostra azienda vuole un grosso impianto completo per fare lo Champagne" e come per aggiungere il carico da undici, proseguì : "24.000 bottiglie all'ora". La richiesta cadde nel silenzio, mentre valutavamo l'ennesima perdita di tempo, quindi, essendo l'unico che, in base alle esperienze pregresse e non solo per averlo bevuto, aveva un minimo di conoscenze enologiche, cercai di spiegare che produrre champagne non è una cosa semplicissima e che, come prima cosa, bisognava avere le uve a disposizione. Prima ancora che cercassi di spiegare le problematiche del remouillage e del degorgement, abbinate ai kilometri di cantine necessarie a quella produzione di circa 200 milioni di bottiglie all'anno, mi guardò con il tono commiserativo dell'esperto e per zittire subito le mie remore, estrasse un fogliettino dal taschino della giacchetta di pelle nera e, con la gravità che i russi usano quando vogliono dare ufficialità alle richieste, pronunciò la famosa frase: "No, è piuttosto semplice, un mio amico mi ha anche dato la ricetta". Allungammo il collo verso il centro del tavolo per ascoltare meglio e spiegato il foglio di quaderno emersero le seguenti indicazioni. "50% vino, 12% alcool, acqua q.b. (quanto basta), zucchero, aromi, perchè lo vogliamo anche alla frutta, alla banana, alla ciliegia, ecc. e anidride carbonica per le bollicine, perchè lo sapete che lo champagne deve avere le bollicine per essere buono, no? E noi vogliamo fare un prodotto di qualità." Mentre cercavo di riprendere fiato, aggiunse anche che per il vino non c'erano problemi, certo , negli Urali non c'erano vigne, ma lo avrebbero comprato a treni interi da certi amici in Crimea e ci schiacciò l'occhio, quello che guardava un po' più a sinistra, con fare complice. Pensando che la fermentazione in autoclave del peggiore Charmat richiede tra i trenta e quaranta giorni, gli chiesi a quanto avevano pensato per questa fase, per calcolare la capacità dei contenitori, data la ingente quantità di prodotto. Dodici ore, rispose con la noncuranza di chi sa le cose e cerca di farle entrare in zucca ai poco informati e calcando aggiunse: "Io sono l'enologo". Capimmo allora che si poteva fare. Nacque così, quasi per caso, condito di incredulità, il più grosso contratto della nostra azienda nelle gelide terre del nord. Una avventura densa di ulteriori aspetti esilaranti che magari racconterò in un'altra puntata e che ci fu di grande insegnamento. Il cliente, se paga, specialmente se paga in anticipo, ha sempre ragione.

venerdì 13 marzo 2009

Lettòne o Lèttone?

Ieri, Dottordivago, sul suo blog Il panda deve morire, faceva riferimen-to al lettòne da non confondere col lèttone e subito la mente mi è tornata ad un momento importante della storia europea ed al fatto che puoi capitare in mezzo ad avvenimenti più grandi di te senza accorgertene minimamente. La skyline di Riga vista al di là della Daugava ghiacciata nel cuore dell’inverno, non è particolarmente avvincente, come invece passeggiare tra le case dalle facciate colorate della città vecchia. Così lasciammo alla sera la città, senza troppi rimpianti, con qualche contatto in agenda, ma pochi affari concreti. Salimmo dunque nel vagone coupé che ci avrebbe riportato in una Mosca nervosa per i cambiamenti troppo improvvisi, preparandoci per la notte. Opportunamente pigiamati, nel calore torrido del vagone, non avvertivamo i -20° C con cui la notte russa avvolgeva il convoglio che fendeva l’oscurità. Dopo qualche tempo, era già passata da un po’ l’ora del vampiro, il treno si fermò nella pianura gelata e bianca. Assonnati, ci tirammo fuori dalle cuccette pensando al solito formale controllo passaporti, all’ingresso della regione russa, ma non avevamo fatto i conti con la storia che incombeva su di noi in quel marzo del ’93. Quando pochi giorni prima eravamo partiti, uscivamo dall’URSS vicina al tracollo, ora entravamo in Russia passando dal nuovo confine lèttone-russo. Dagli sportelli spalancati, assieme al gelo della notte, entrarono un gruppo di neodoganieri, compresi del loro nuovo potere e completamente ubriachi. Un vero assalto alla diligenza con urli e minacce che procedevano di scompartimento in scompartimento verso di noi. Io, semiaddormentato ed alle prime esperienze russe, capivo poco, ma Gianni ed Eugenio scesero dalle brande con occhio preoccupato. Mentre i figuri in divisa taglieggiavano i poveracci coi fagotti che ci precedevano, un graduato col cappello di traverso sbattè i pugni sulla nostra porta intimandoci di aprire. Consegnammo i passaporti e qui cominciò il dramma. Secondo il tizio, che tentava di tramortirci con il tasso alcoolemico del suo fiato urlandoci in faccia, io ero uscito illegalmente dalla Russia qualche giorno prima e il mio vecchio visto non mi consentiva di rientrarvi. Gianni, in possesso di visto multiplo ed Eugenio, essendo russo, si trovavano in una posizione più sfumata, se pur pesantemente irregolare. A nulla valse spiegare che quando eravamo usciti c’era l’URSS e non ti timbravano il passaporto per andare a Riga, il major non voleva sentire ragioni e a suon di urla voleva buttarci (o buttarmi , non capivo bene) assieme alla valigia, in pigiama in mezzo alla neve. Dal colore della faccia dei miei amici, capii che dovevo cominciare a preoccuparmi, mentre Gianni iniziava una lunga e suadente conversazione col graduato che gridava insulti all’indirizzo degli stranieri prepotenti e tirchi. Questa parola segnò la svolta della trattativa. La sagace mente di Gianni interpretò il lessico leggendolo nella sua giusta valenza. Intanto sottolineò che noi non eravamo affatto tirchi e che anzi, noi eravamo i primi a ravvisare l’opportunità e la correttezza di pagare il giusto per avere un nuovo visto. Questo argomentare sembrò rabbonire il cerbero che bofonchiò qualcosa, accennando ad un costo di venti dollari in contanti, cifra evidentemente valutata come spropositata. Con grandi sorrisi, pagammo rapidi, mentre l’atmosfera si rasserenava e ci venivano restituiti i preziosi passaporti, Tralasciammo di far notare che il timbro del visto era rimasto completamente virtuale e salutammo con la mano i compari del capo che scendevano dal treno in giacchetta con in mano alcune bottiglie di vodka rapinate allo scompartimento successivo, mentre la superficie ghiacciata tra i binari scricchiolava al loro passaggio. Il treno si mise in moto lentamente nell’inferno bianco; erano le tre del mattino, ma non riuscii più a dormire fino a Mosca.

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