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giovedì 12 novembre 2009
Il thé georgiano.

sabato 27 giugno 2009
Un incrocio.
Il 238 grigio topo di venti anni aveva lasciato con calma la landa desolata, ma mitica, di Nord Kap e dopo aver zigzagato a lungo tra i laghi finlandesi si avvicinava al confine sovietico in un mattino di fine agosto. E sì caro Doc, non solo andavo in Russia per vendere impianti, ma addirittura a farci le ferie! Dirai che ero matto, ma all'inizio degli anni 80, quel mondo chiuso e sconosciuto aveva un fascino ed un richiamo alla scoperta, a cui non ero riuscito a sfuggire. Poichè un amico voleva assolutamente che gli portassi a casa le corna di una renna e dato che, essendo di dimensioni esagerate, nel camper non ci entravano tutte, le avevamo legate con dei tiranti di gomma (il famoso e micidiale ragno) sulla cabina davanti al serbatoio del GPL a far bella mostra di sé, come la preda che i cacciatori espongono sui cofani delle macchine per fare vedere quanto sono stati bravi. Alla frontiera eravamo l'unico mezzo e, come mi avevano predetto ci apprestammo comunque ad una lunga attesa. Le corna facevano comunque simpatia e dopo aver ridacchiato a lungo ed averci fatto la consueta accoglienza a forza di Italiani, Sicilia, mafia, ecc. i due doganieri bardati, iniziarono l'opera di controllo accurato che avevo previsto (esperienziato da precedenti viaggiatori) in un paio d'ore. Cominciarono con controlli di routine con specchi, per vedere se volevo introdurre qualche clandestino nella Santa Madre Russia (bah?), poi passarono all'interno del mezzo, mi fecero smontare lo specchio nel bagno, timorosi che nell'intercapedine fossero nascoste pericolose riviste antisovietiche. La scoperta del doppio fondo sul pavimento provocò loro una grande eccitazione, mentre me ne imponevano l'apertura con occhi brillanti. Scostato il linoleum ed aperta la botola, frugarono a lungo coi musi lunghi e delusi avendovi trovato solo i ricambi motore che portavo dietro per precauzione. Allo scoccare delle due ore, benchè ci fossero ancora molti interstizi da esplorare, cadde loro in cacciavite di mano e ci lasciarono liberi. Capii dall'occhiata che avevano dato in alto, verso la guardiola degli uffici che l'intensità e la durata del controllo previsto dallo standard era ormai stata rispettata e perdettero ogni interesse a noi dandoci via libera. Un segnale netto di come le cose procedevano per burocrazia immutata e priva di vero interesse. Purtroppo il mezzo non voleva rimettersi in moto, rimanendo ad ingombrare il passaggio comunque deserto. I cerberi rimasero a sonnecchiare su due sedie facendo stanchi cenni della mano a levarci dalle scatole, ma, niente da fare, il maledetto rimaneva morto col cofano alzato e io ed il mio amico a guardarci dentro con aria da finti competenti, a chiederci in che modo ci saremmo tolti dal guano. Tiziana, che era stata estromessa dall'operazione meccanica in quanto femmina, butta l'occhio dentro il cofano e fa: "Ma quel filo lì come mai è staccato e pende?" Con sufficienza proviamo a infilarlo nel buco vicino e bruuum, come per magia il mostro riprende vita e ci consente di lasciarel'area dogana, silenziosi, senza fare commenti di nessun genere. Così pensosi, si arriva alla periferia della allora Leningrado e ci si infila un po' a casaccio per un lungo prospiect. Vietato chiede informazioni sul percorso, il maschio italiano, si sa non chiede, va a istinto. Arriviamo ad un semaforo verde con frecce e vigile al centro. Svolto a destra contravvenendo all'unica regola stradale diversa da quelle italiane. Non si svolta a destra con semaforo verde, bisogna aspettare anche la freccia verde. Vado imperterrito, mentre al centro dell'incrocio il GAI' comincia a fischiare sbracciandosi. Fingendo si non sentire, proseguo, ma il delitto non paga, dopo 500 metri la strada termina senza uscita, bisogna tornare indietro; intravedo lontana in mezzo all'incrocio l'ombra vindice che mi aspetta a braccia conserte. Accosto e scendo in attesa di un processo rapido ed implacabile. Memore dell'andazzo e dei processi sovietici, un po' timoroso della Lubianka, sebbene lontana, sarei pronto ad una autoaccusa formale con annessa procedura di autocritica, ma, mentre si è ormai radunato un capannello di sfaccendati, pensionati e babuske con le sporte, il milite mi punta il dito gridando "пять рублей штрафа!", 5 rubli di multa. Non so come, ma mi viene spontanea la supercazzola. Carta alla mano, comincio a chiedergli indicazioni per trovare il campeggio a cui eravamo diretti, in italiano, mostrando le vie e chiedendo lumi. L'agente dell'ordine continua a richiedere disperatamente il pagamento mostrandomi le cinque dita della mano e mimando la mia infrazione. Intanto attorno al camper bicornuto si è radunata una piccola folla che partecipa con vigore al dibattito, chi cercando di fare segni sulla carta, chi cercando di deviare le intenzioni della legge, chi commentando cosa ci andava a fare da quelle parti un baraccone di quel genere, proveniente per di più dall'Italia. Le invettive della guardia diventano sempre più flebili, alla fine una vecchietta lo prende di punta e lo rimbrotta con aria severa. Credo che il senso fosse: "Ma va là non vedi che sono stranieri, poveretti e che bisogna dargli una mano?" Il GAI' cedette di colpo e se ne andò borbottando imbronciato nella sua guardiola e dopo aver stretto un po' di mani ce ne andammo verso la nostra meta. Le prime crepe nel gigante dai piedi d'argilla del regime, cominciavano a mostrarsi nella loro tragica evidenza.
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giovedì 28 maggio 2009
Bollicine 3: non di solo pane...


martedì 19 maggio 2009
Bollicine 2: la vendetta.

Il contratto fu firmato e allora via, in giro per l'Italia a cercare le acconce autoclavi, filtri, mixer (appunto per mescolare acqua, vino e alcool), un impianto completo per purificare l'acqua, un laboratorio analisi, riempitrice gigante isobarica, etichettatrice, depallettizzatore per le bottiglie vuote e pallettizzatore per quelle piene e così via cantando. In pratica dalla pressa e stampo per fare il tappo (rigorosamente di plastica) al pallet di cartoni di bottiglie avvolto di cellophan. Un impianto colossale, che data la fretta (ci misero mesi a decidere, ma poi vollero tutto e subito) doveva essere spedito via aerea. Pensate a tre colossali autoclavi che a malapena stanno su tre TIR! Ci vollero due enormi Antonov (tipo quello che cadde a Torino) che portavano cadauno l'equivalente di 12 camion (o 8 carri armati a scelta) e un Iliuscin più piccolo con le macchine minute che partì da Genova con un piccolo gruppo di tecnici. Ricordo Stefi nel posto del mitragliatore quello tutto di vetro sotto la carlinga e poi sotto una scaletta di legno che portava alla stiva, e Beppe su un sedile di fortuna di fianco alle reti che trattenevano le casse con la 24 ore sulle ginocchia, come un para in attesa del lancio su Guadalcanal. Solo il saturatore per produrre CO2 (per le famose bollicine) dovette essere inviato via terra, sugli aerei non ci stava. Lo stabilimento che avrebbe ospitato l'impianto era colossale, pari a 22 campi di calcio coperti; pare avesse ospitato una fabbrica di carri armati, ma nel disfacimento sovietico bisognava produrre roba più utile e le bollicine sono particolarmente richieste tuttora in Russia. Il nostro impianto pur enorme, sembrava sorprendentemente piccolo, quasi perso in quegli smisurati saloni in cui si concludeva la ristrutturazione. Mentre sorgeva a poco a poco e le macchine prendevano forma, la brigata delle muratrici sovietiche finiva di imbiancare i soffitti; le ragazze, in gran parte di generose dimensioni, appese precariamente con corde come salame da sugo, agitavano i lunghi pennelloni schizzando a destra e a manca i nostri valenti montatori, distratti soltanto da quelle di forme più umane che passavano con le latte strabordanti colore come le occhiate infuocate che lanciavano in tralice transitando tra motteggi misurati. La linea pian piano prese forma; infine, a macchine pronte cominciò a scorrere il liquido vitale, il nettare prezioso ragione stessa della fatica, preparato con cura e inviato verso la sua destinazione naturale, la bottiglia. Ai nostri uomini vennero dunque affiancate le maestranze locali per addestrarli alla conduzione delle macchine. Precisato che il prodotto in questione era ed è perfettamente conforme alla legislazione russa in materia, il suo cammino verso la bottiglia è giocoforza lungo e tortuoso. Dopo la lunga e accurata preparazione (le famose 12 ore in autoclave) i prodotti erano amorevolmente mescolati, aggiunti di zucchero, aromi e bollicine per andare direttamente alla riempitrice. Ora, è risaputo il rapporto di amore e fratellanza che lega queste genti della steppa ai liquidi di ogni genere con percentuali alcooliche, per cui il cannello di pescaggio della riempitrice agiva come un richiamo irresistibile per alcuni di loro, specialmente i più vicini. In particolare l'addetto all'etichettrice, di tanto in tando riteneva indispensabile controllare la costanza di flusso alla macchina, che come si sa non è bene far girare a vuoto, e transitava con costanza nei pressi della stessa succhiando dal cannello per assicurarsi della presenza di liquido. Certo dopo poche ore il rendimento del suo lavoro diminuiva verticalmente e il numero dei suoi controlli aumentava in proporzione. Preso più volte ed ammonito col cannello in bocca, mentre guardava con occhi spalancati a dire che doveva pur controllare che tutto fosse in regola, fu licenziato con disonore, ma dopo poco obbligammo il direttore, preso anch'egli in un rarissimo momento di lucidità, a riassumerlo in quanto era l'unico che aveva capito il funzionamento dell'etichettatrice, macchina delicata che vuol essere trattata da mani amorevoli e competenti. Comunque a poco a poco il progetto andò in porto, le bottiglie arrivavano, i tappi erano stampati, l'acqua depurata, lo "champagne" prodotto, i cartoni costruiti, riempiti di bottiglie, nastrati e pallettizzati, mentre nel cuore dell'impianto, il riempimento, l'ideatore della macchina, un caro amico, che ormai da qualche anno riempie bottiglie per chi non ha più sete (ma anche lì avra trovato qualcosa da imbottigliare spero), chiamato dai russi Pavarotti per la sua somiglianza strutturale, dirigeva l'orchestra dettando i tempi ed il dipanarsi dei ritmi musicali del flusso ininterrotto delle bottiglie. Che suono avvolgente. Il tintinnio delle bottiglie che incolonnate, sbattendo leggermente tra di loro si avviano alle macchine col sottofondo ritmato della pressa che snocciola tappi; il nastro scivoloso che avvia i soldatini al riempimento, mentre il liquido, spumeggiante appunto, fluisce festoso al serbatoio della macchina che in un continuum spazio-temporale, lava, riempie e tappa. Poi la schiera prende un altro ritmo, più concitato, prima la gabbietta, poi il capsulone poi lunetta, etichetta e controetichetta, mantre a lato il suono profondo della formacartoni allarga, forma, inserisce, infine colma di bottiglie e porta al gran finale rossiniano dove tutto si fonde nella sinfonia del grande pallet che ruota vorticosamente avvolto e infine deposto assieme alle centinaia di suoi fratelli nel grande magazzino in attesa di essere caricato. Il lavoro era finito ed emergeva uno dei problemi principali dell'impresa, i furti. Così l'azienda aveva previsto 50 uomini per la produzione e 150 per la security e ogni sera, quando il bus ci riaccompagnava in albergo al passaggio del gate, barriere e filo spinato con sentinelle armate, veniva perquisito in cerca di preziose bottiglie fraudolentemente carpite dagli amatori. Festeggiammo a lungo in albergo anche se la prima bottiglia stappata, quasi provocò una vittima. Le bottiglie infatti, provenienti da una vetreria del Caucaso (altri 3000 km di viaggio) avevano un collo di dimensioni alquanto variabili ed i tappi erano venuti un po' troppo grossi, così che quel maledetto primo tappo non voleva venir fuori a nessun costo, per quanto mani robuste tentassero di estrarlo. Poi, a forza di scuotere qella benedetta prima bottiglia, il manufatto plastico partì come un proiettile ed passando dalla finestra aperta andò a colpire un passante sul marciapiede opposto che, benchè offeso fu convinto a non sporgere denuncia in nome dell'amicizia internazionale. Bollicine a fiumi quella notte, il nettare sublime era stato chiamato Monferrat, come recitava l'ambiziosa etichetta e pare che, specie nella versione alla banana, circoli ancora nella Russia liberata dalla tirannide.
lunedì 18 maggio 2009
Bollicine
Le quattro del pomeriggio di febbraio a Mosca, significano già notte fonda. Un buio un po' caliginoso, non tossico per i camini, chè il caldo viene totalmente distribuito in teleriscaldamento, ma per il cattivo carburante incombusto delle auto, attutito dalla luce giallastra e fioca dei lampioni ottocenteschi. Così tra radi fiocchi di neve, mentre discutevamo animatamente della fiera conclusa da poco, suonò alla nostra porta Victor. Aveva un cappottino liso che sembrava difenderlo poco dal vento gelato che tirava in Vortnikosky Periulok, ma non sembrava soffrirne mentre entrava, scrollandosi di dosso l'umidità e sbattendo gli scarponi inzaccherati dopo aver attraversato il cortile pieno di auto Zhigulì arrugginite. Ci guardò un po' di sbieco con uno sguardo interrogativo, ma era una falsa impressione data dagli occhi alquanto divergenti tra di loro. Si sedette dopo i saluti di rito e venne subito al dunque. Avendo avuto informazione da amici, che la nostra era una karoshaija firma, una buona azienda, leggesi affidabile in quel periodo, era stato incaricato di richiederci un' offerta per un grosso impianto. A quel tempo, per una azienda a Mosca, non era importante quale tipo di impianti facessi, bastava sapere che tu facevi impianti in generale. Anche se la dimessa figura che avevamo davanti non prometteva molto, ci predisponemmo ad ascoltarlo di buon grado, anche se la necessaria premessa "Dienghy iest", i soldi ci sono, che era stata immancabilmente pronunciata, data la sua ovvietà, non garantiva come sempre che poi ci fossero davvero. Veniva da Celijabinsk, una grande città siberiana al di là degli Urali. Partì subito con decisione. "La nostra azienda vuole un grosso impianto completo per fare lo Champagne" e come per aggiungere il carico da undici, proseguì : "24.000 bottiglie all'ora". La richiesta cadde nel silenzio, mentre valutavamo l'ennesima perdita di tempo, quindi, essendo l'unico che, in base alle esperienze pregresse e non solo per averlo bevuto, aveva un minimo di conoscenze enologiche, cercai di spiegare che produrre champagne non è una cosa semplicissima e che, come prima cosa, bisognava avere le uve a disposizione. Prima ancora che cercassi di spiegare le problematiche del remouillage e del degorgement, abbinate ai kilometri di cantine necessarie a quella produzione di circa 200 milioni di bottiglie all'anno, mi guardò con il tono commiserativo dell'esperto e per zittire subito le mie remore, estrasse un fogliettino dal taschino della giacchetta di pelle nera e, con la gravità che i russi usano quando vogliono dare ufficialità alle richieste, pronunciò la famosa frase: "No, è piuttosto semplice, un mio amico mi ha anche dato la ricetta". Allungammo il collo verso il centro del tavolo per ascoltare meglio e spiegato il foglio di quaderno emersero le seguenti indicazioni. "50% vino, 12% alcool, acqua q.b. (quanto basta), zucchero, aromi, perchè lo vogliamo anche alla frutta, alla banana, alla ciliegia, ecc. e anidride carbonica per le bollicine, perchè lo sapete che lo champagne deve avere le bollicine per essere buono, no? E noi vogliamo fare un prodotto di qualità." Mentre cercavo di riprendere fiato, aggiunse anche che per il vino non c'erano problemi, certo , negli Urali non c'erano vigne, ma lo avrebbero comprato a treni interi da certi amici in Crimea e ci schiacciò l'occhio, quello che guardava un po' più a sinistra, con fare complice. Pensando che la fermentazione in autoclave del peggiore Charmat richiede tra i trenta e quaranta giorni, gli chiesi a quanto avevano pensato per questa fase, per calcolare la capacità dei contenitori, data la ingente quantità di prodotto. Dodici ore, rispose con la noncuranza di chi sa le cose e cerca di farle entrare in zucca ai poco informati e calcando aggiunse: "Io sono l'enologo". Capimmo allora che si poteva fare. Nacque così, quasi per caso, condito di incredulità, il più grosso contratto della nostra azienda nelle gelide terre del nord. Una avventura densa di ulteriori aspetti esilaranti che magari racconterò in un'altra puntata e che ci fu di grande insegnamento. Il cliente, se paga, specialmente se paga in anticipo, ha sempre ragione.
venerdì 13 marzo 2009
Lettòne o Lèttone?

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