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venerdì 27 dicembre 2013

La fabbrica nuova a Taskent

Taskent - Uzbekistan

Eh già, quando le racconto agli amici non ci vogliono mai credere, ma la Russia postsovietica, in pieno default era davvero un macello; non parliamo poi delle ex repubbliche del glorioso impero dove si stava scatenando il selvaggio west delle nuove ricchezza. Il fatto è che nessuno sapeva fare le cose. Settanta anni di personaggi che non si prendevano nessuna personalità per non correre il rischio di sbagliare e essere purgati, aveva condotto alla perdita di ogni abilità. Questa che si vede nella foto è una tipica fabbrica "nuova" di quel periodo. Tanta voglia di mettersi nel business, certi che così si facevano i soldi, così sorgevano queste costruzioni che appena finite parevano già completamente bombardate. Qui siamo in Uzbekistan a Taskent e il fatto che l'edificio sia nuovo si vede dal grande gruppo frigorifero che avevamo appena istallato. Dentro, tutta una serie di "operai" che non sapevano bene cosa fare, che bisognava istruire in breve tempo e ai quali passare in consegna l'impianto pagato a carissimo prezzo. Certo perché quando sei nel triste stato di vivere in un paese in cui è saltata l'economia e che non ha pagato i debiti, i tuoi soldi sono diventati carta straccia e ogni cosa che vuoi comprare dall'estero, la devi pagare il doppio o il triplo di quello che vale realmente, la paghi in anticipo e in dollaroni sonanti che le tue schifezze di lire uzbeke (che allora si chiamavano Sumi se non sbaglio)  le potevi buttare nel cesso a cielo aperto che stava dietro la fabbrica stessa. 

Una delle grandi furbate compiute dagli stati che avevano abbandonato l'unione era stata quella di abbandonare subito il rublo e tornare alle monete nazionali. Forse giravano anche lì allora, quegli imbecilli di sedicenti economisti che adesso si sono trasferiti nei nostri talk show. Certo che però le serate erano allegre, fiumi di vodka e ristoranti lungo il fiume a fare brindisi fino a notte in nome dell'imperitura amicizia italo-uzbeka. Lampi di luce abbagliante da file di denti d'oro. Nei piatti, mestolate di plof, una sorta di riso fatto in un pentolone in mezzo al cortile le cui conseguenze ti impegnavano per tutta la notte. E poi incontri con tanti possibili clienti futuri a cui mostrare gli splendori della nuova fabbrica, desiderosi di averne una uguale, senza sapere neanche che cosa produrre, ma non importa, la cosa essenziale era mettersi in affari, cominciare a produrre in un paese affamato di cose da comperare e senza un soldo per farlo. Però c'era un sacco di speranza, negli occhi di tutti, convinti per la verità che in fondo fosse facile fare ed arricchirsi. Qualcuno lo ha fatto e ci è riuscito. Adesso vengono in Sardegna o sulla Cote a comprarsi le ville e noi li disprezziamo perché non hanno l'aplomb dei ricchi veri, blasé e disincantati, che sanno come comportarsi in ogni situazione. Si faranno anche loro, intanto se adesso vai nelle repubbliche centroasiatiche ad Astana o ad Alma Aty, vedi grattacieli come a Shanghai e stanno sparendo quelle fabbriche che avevamo messo su e che sembravano bombardate anche se erano appena finite. 


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sabato 16 novembre 2013

Haiku novembrino

dal web


Caki maturi
novembre ti regala.
Il negozio no.


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Tarda primavera.

martedì 14 dicembre 2010

Il Milione 33: I ponti di Su Zhou.


Il reame di Mangi comprende la Cina a sud del fiume Giallo. Qui Marco Polo si ferma per almeno tre anni come plenipotenziaro dell'imperatore e rimane conquistato da questa terra, dalle sue ricchezze e dalla mentalità dei suoi abitanti, per nulla dediti alla guerra e, come lui li definisce, i fatti d'oste, ma piuttosto ai commerci ed alla cultura. Ed è la bellezza di queste città che lo affascinano, unita al movimento vorticoso degli affari e delle opportunità che si presentano. Come non ravvisare le stesse sensazione di chi oggi percorre la Cina, avvertendo questa febbre di crescita, questa volontà decisa di migliorarsi, certo disordinatamente e magari compiendo errori ed ingenuità, ma il tutto spinto da una energia vitale senza fine, un chi che percorre il paese come la forza interiore che percorre i meridiani di un corpo vigoroso. Una delle città che più colpisce Marco è proprio Su Zhou, non lontana da Shang Hai, con i suoi ponti di pietra che gli ricordano la lontana Venezia.

Cap. 147

Suigni è una molto nobile città. Elli ànno molta seta e vivono di mercatantia e di arti; molti drappi fanno e sono ricchi mercanti. La città gira 60 miglia e v'à tanta gente che neuno potrebbe sapere lo novero, che potrebbero conquistare lo mondo; ma elli non son uomini d'arme, ma savi mercatanti d'ogne cosa e sì ànno boni medici naturali e savi fisolafi. E sappiate che in questa città à bene 6000 ponti di pietre, che vi passarebbe sotto una galea. E ancor vi dico che nelle montagne nasce lo rabarbaro e lo zezebe (zenzero) in grande abbondanza e molto buono che per uno viniziano se n'avrebbe ben 40 libbre.

Naturalmente il prezzo è quello che conta, se no che mercanti saremmo, ma passeggiare oggi per Su Zhou nei quartieri antichi di questa città, sui ponticelli di marmo rimasti, a guardare le barche che passano lungo i canali, girare nei mercati avvolti dall'odore delle spezie, questo oro del sud, che permea l'aria e cibi di questo paese, può farti innamorare. Nei piccoli ristoranti, dai banchi di strada, dove i grandi wok neri sfrigolano, sui tavoli traballanti dove arrivano le scodelle e i piatti colmi della ricchezza dei cibi, forti e profumati del sud, ti siedi, dopo aver attraversato i giardini ricchi di verde e di fiori, ad ascoltare il fluire pulsante della vita, a guardare i colori delle verdure e dei frutti, ad annusare il pungente sentore della spezia. Io ero lì nel periodo della zucca gialla, che si chiama appunto Nan Gua (la cucurbita del sud) e te la trovavi nel piatto facilmente, mescolata alle altre verdure con la sua dolcezza, magari negli involtini fritti con le consuete sottilissime sfogliatine di farina di riso, in cui la zucca mescola la sua dolcezza ad altre vedure come il porro e viene calibrata dalla tonalità delle cosiddette 5 spezie, un classico della cucina cinese che dovrebbe comprendere proprio i cinque sapori fondamentali (dolce, amaro, acido, salato e piccante). Le spezie poi in realtà sono sei o sette e comprendono il pepe del Si Chuan, lo zenzero, la cannella, il garofano, l'anice e il finocchio con molte varianti personalizzate. Così quando, calmato l'appetito vi incamminerete per i ponticelli, osservando il mondo esotico che vi circonda, potrete sentirvi davvero come Marco, appassionati di questa terra incredibile.




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giovedì 25 novembre 2010

Il Milione 31: Tre fagiani per un soldo.


La Cina, lasciati i picchi innevati delle montagne più alte del mondo ed i deserti sconfinati dell'Asia centrale, diventa una immensa pianura solcata da grandi fiumi. Impetuosi e soggetti a piene devastanti, sono però la fonte di vita di questa terra che percorrono, irrorandola di linfa vitale, base di tutta l'agricoltura e di tutti i commerci. Fino a pochi decenni fa erano assieme, barriere invalicabili e confini netti ma, allo stesso tempo vie d'acqua insostituibili. Il Fiume Giallo divideva da millenni il Catai dal regno di Mangi a sud. Quando arrivi davanti a queste masse d'acqua, quando ne scorgi a mala pena la opposta riva lontana, rimani attonito per la dimensione, per l'impossibilità di passare dall'altra parte ancor prima che il flusso incessante si spezzi negli innumerevoli e popolatissimi bracci di delta sterminati. Anche i piccoli fiumi vicino a Pechino paiono enormi. Ma vediamo come li descrive Marco Polo, quando comincia a muoversi per la Cina come osservatore imperiale nel suo primo viaggio di ispezione.
Cap. 104


E il Grande Kane mandò per ambasciadore Messer Marco per quattro mesi verso Ponente. Quando l'uomo si parte da Cambaluc, di lì a dieci miglia si truova un fiume che va infino al mare Ozeano e quinci passa molti mercatanti. E su questo fiume àe uno molto bello ponte fatto di pietre che al mondo non à uno così fatto, lungo bene 300 passi che vi puote andare dieci cavalieri al lato; e è tutto di marmore e dal capo del ponte àe una colonna di marmore con uno leone e di sopra un altro, molto belli e molto ben fatti e dall'una colonna all'altra è chiuso di tavole di marmore perciò che nessuno possa cadere in acqua, sicch'è la più bella cosa da vedere del mondo.

Forse è questo il ponte descritto da Marco e quando rimanevo a contemplarlo seduto in uno dei ristorantini poco lontano mangiando trote al vapore, il tempo era immobile, mentre lo zefiro scendeva leggero dalle Colline Profumate a riscaldare l'aria della primavera ancor fresca. La cottura a vapore è uno dei grandi settori della cucina cinese, che si serve dei caratteristici cestelli di bambù da impilare uno sull'altro, ormai ben conosciuti anche da noi, colmi di ravioli, pesci, verdure ed ogni altro ben di Dio, che ordini indicandoli al carrettino di passaggio e ti mangi tranquillo, come le polpettine di carpa insaporite dallo zenzero e dalle salsine di soia o all'ostrica cinese (assolutamente deliziosa, vedere la ricetta di Acquaviva). I grandi leoni di marmo restano a guardia del ponte, severi e attenti, insensibili al passare dei secoli. Ma la strada corre ancora verso sud-ovest.

Cap. 109

E quando l'uomo va verso ponente dal castello di Caitui (Chiang Zhou) per 20 miglia, truova un fiume chiamato Carameran (il fiume Giallo, lo Huang Ho), ch'è si grande che non si può passare per ponte e va infino al mare Ozeano. Quivi son molti mercatanti ed artefici. Nella contrada nasce molto zinzibero e àcci tanti uccelli ch'è una maraviglia, che per uno viniziano danno tre fagiani.
La meraviglia per questo immenso fiume dalle acque limacciose che porta con se tutto il fango strappato dai loss di argilla gialla, sarà ben stata grande, ma un occhio agli affari va sempre dato, soprattutto se di fagiani, cibo pregiato, ve ne danno tre per un soldo. Era giovane il buon Marco, ma mica scemo.






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Fibra d'amianto.

Ammassi.

sabato 16 ottobre 2010

Il milione 28: Pane e cartamoneta.


Acquaviva, con le sue focaccine cinesi di cipollotti, le famose cong you bing, mi ricorda che oggi è il 5° World Bread Day. Scommetto che non lo sapevate. Certo questo è un alimento comune nelle sue più diverse forme, in ogni parte del mondo, Focacce di tutti i tipi, piadine, pizze, chapatti, nan, pittah arabe e tutta la miriade di pani lievitati salati e dolci, come i candidi e deliziosi panini con una specie di purea dolce all'interno che trovi in tutti mercati di Pekino e che Ping mi guardava mangiare golosamente, ridendo, perché par che laggiù, li mangino solo i bambini. Che delizia lo street food!Chissà se piacevano anche a Marco Polo, mentre si aggirava negli sterminati mercati della capitale, in cerca di buone occasioni e di affari. Non dimentichiamoci che lui era soprattutto un mercante e quindi la quantità, varietà e qualità delle merci che arrivavano da ogni parte dell'impero per fare ricca e incredibile quella città, lo attiravano come un' ape sui fiori, oltre che stupirlo in continuazione.

Cap. 94


E sappiate per vero che in Cambalu viene le più care cose e di maggiore valuta del mondo, e ciò sono tutte le cose che vegnon dall'India, come pietre preziose e perle, che son recate a questa villa e ancora che son recate dal Catai e da tutte altre province. E più mercatantie qui si vendono e qui si comprano; ché voglio che sappiate che ogni die vi viene in quella terra più di mille carrette caricate di seta, perché vi si lavora molti drappi e ad oro e a seta. E bene d'intorno a 200 miglie vegnono per comprare quello che bisogna, sicché non è maraviglia se tanta mercatantia vi viene.
E di certo con un simile giro d'affari non si poteva andare al baratto come spesso in Europa. Infatti ecco come ci racconta, e fu sbeffeggiato dai Veneziani assai per questa incredibile novità, il sistema della cartamoneta , istituito proprio da Kubilai.

Cap. 95


Or vi diviserò del fatto della seque (la zecca) e della moneta che si trova in questa città. Or sappiate ch'egli fa fare una cotal moneta dalla scorza di un albore ch'à nome gelso e di quella buccia fa fare carta come di bambagia e sono tutte nere. Così egli ne fa de le piccole che vagliono una medaglia di torneselli piccioli, l'altra un tornese, l'altra un grosso d'argento di Vinegia, l'altra un bisante d'oro e l'altra 2 e l'altra 5 e così fino a 10 bisanti. E tutte queste carte son suggellate dal grande sire e egli ne fa fare tutti li pagamenti in tutte le province e regni e nessuno osa rifiutare a pena della vita. E di questa moneta si paga ogni mercatantia e di perle, d'oro, ariento e di pietre preziose. E se a qualcuno si rompe o guastasi, il grande sire, incontamente gliene cambia, ma gliene lascia 3 per 100. E se qualcuno abbisogna di ariento e oro, va alla tavola e il grande Sire gliene da quanto vuole per queste carte.


Certo un sistema rivoluzionario, con tanto di oro a garanzia nei depositi di stato e cambio con tassi di commissioni, moderati tutto sommato. Che pacchia allora come ora, passare le giornate in questi mercati, osservando, valutando, contrattando. E che nostalgia, quel passeggiare tra le bancarelle sbocconcellando un panino dolce mentre il mio amico Ping se la ride sotto i baffi che non ha.

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martedì 12 ottobre 2010

Il milione 27: Uova e signorine.

Il giovane Marco si è ormai calato completamente nella realtà della grande capitale Cambaluc e per molti capitoli ce la descrive nei suoi angoli più segreti ed interessanti, un po' come facciamo noi, quando, al ritorno da un bel viaggio, raccontiamo agli amici, magari un po' annoiati, le cose che ci hanno colpito. Era forse allora la più grande città del mondo con quasi un milione di abitanti, cifre a cui gli europei non erano certo abituati e men che meno il nostro giovane mercante dopo avere vagato per anni lungo le polverose piste dei deserti asiatici. Quindi ecco che passa subito ad un argomento che doveva essere un po' il metro di giudizio per valutare questo immenso aggregato urbano. La città era divisa per zone; oltre a quellla che gravitava attorno al palazzo reale, c'era l'area dei mercati, immensa e la città dei mercanti dove si radunavano le genti che arrivavano dai quattro angoli dell'impero, con i loro bisogni da soddisfare. Il tutto circondato da borghi dove si situavano i diversi servizi e coloro che vi provvedevano. E veniamo dunque a uno di questi, che evidentemente lui riteneva piuttosto importante.





Cap. 94

...e dentro la città non osa istare niuna mala femina che fa male di suo corpo per danari, ma stanno tutte negli borghi. E sì vi dico che femmine che fallano per danari ve n'à ben 20.000 e tutte vi abbisognano per la grande abbondanza di mercatanti e forestieri che vi capitano tutto die. Adunque potete vedere se in Cambaluc à grande abbondanza di genti, da chè male femine v'à cotante com'io v'ò contato.


Evidentemente questo particolare mestiere forniva un benefit, per così dire, piuttosto richiesto, da questa massa di uomini soli in giro per il mondo a far denari ed il giro delle escort veniva considerato come una imprescindibile necessità. Pensate un po' che mondo c'era a quei tempi. Nella Cina postmaoista il discorso della prostituzione si è piuttosto sfumato. Ufficialmente non c'erano, ma si sa che la realtà è sempre diversa da come viene dipinta, quindi di tanto in tanto, probabilmente quando era necessario mostrare rigore, ne acchiappavano qualcuna e veniva mandata in un Lao Gai di rieducazione a coltivare la terra. I cinesi ufficialmente sono molto prude, quindi di queste cose non si parla, ma già una decina di anni fa, quando bazzicavo i grandi alberghi di Canton, di tanto in tanto venivo avvicinato da esili signorine che, senza l'aggressività che si riscontrava negli Inturist russi, la prendeva alla larga, lanciando occhiate languide con la testa leggermente reclinata da un lato.


Credo che gli interessati abbiano sempre trovato con una certa facilità il materiale che cercavano. Oggi mi dicono che la globalizzazione stia uniformando anche questo settore commerciale che non ha mai conosciuto crisi. Figuriamoci in quella che si avvia a diventare la più grande economia mondiale. Lasciamo quindi i nostri mercanti sparpagliati nella miriadi di locande e nei ristorantini della città del commercio a chiacchierare con sottili allusioni, mangiucchiando qualche stuzzichino in attesa di andare a cena, magari con una tazziona di Mao Tai caldo e un piattino di uova dei cent'anni, ben disposte a fettine sottili, con l'albume diventato di un trasparente traslucido dal colore ambrato, col tuorlo rassodato quasi nero, dal sapore intrigante e misterioso. In realtà bastano sei mesi a farle, mi pare, dopo averle conservate con cura sotto uno strato di calce. Per saperne di più date un'occhiata da Acquaviva qui. Ma questo è un altro argomento e ne parleremo un altra volta.


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martedì 3 agosto 2010

Il Milione 23: Latte di cammella.


Se avrete la ventura di andare a Pekino, non perdetevi il mercato delle cose vecchie, una specie di bazar di rigattieri e cineserie a sud della città nei pressi del terzo anello, aperto il sabato e la domenica mattina. Io ci andavo spesso e vi assicuro che è una vera delizia perdere qualche ora tra le centinaia di bancarelle o tra le merci esposte per terra. Ci troverete un po’ di tutto, dai memorabilia maoisti, compresi fumetti d’epoca, alle pietre dure, ai materiali tibetani e di varie minoranze, bronzetti, ricami e naturalmente ceramiche, inclusi i classici vasi cinesi.

Naturalmente non illudetevi di trovare roba antica, ma curiosità e oggetti simpatici, sicuramente, inclusi fogli di carta su cui maestri calligrafi con grandi pennelli esercitano la loro arte. Una cosa noterete di sicuro, che la maggior parte dei banchetti è gestito da donne, decise e tignose nella difficile arte della contrattazione. Tutto questo deve far parte di un costume antico, tanto che il nostro Marco Polo lo registra puntualmente, quando comincia a descrivere i costumi dell’immenso territorio dell’impero in cui la carovana è appena entrata.

Cap. 68

…e sì vi dico che le loro femmine vendono e comprano e fanno tutto quello che alli loro mariti bisogna, però che gli uomini non sanno fare altro che cacciare e uccellare …


Questo fatto che le donne mongole e cinesi si occupassero di commercio, cosa tipicamente maschile per l’occidente, deve averlo lasciato assai perplesso, ma è solo una delle tante differenze di costumi a cui deve cominciarsi ad abituare e che comincia fedelmente a registrare nel suo racconto. Ecco infatti che subito dopo, la vita seminomade delle grandi tende mongole, ci compare identica a quella che si può vedere ancora oggi.

…li Tartari dimorano lo verno in piani luoghi ove ànno erba e paschi per loro bestie, d’estate in luoghi freddi ov’è acqua. Le case loro son tonde e coperte di feltro e portallesi dietro in ogni luogo ov’egli vanno ch’egli ànno ordinate sì bene le loro pertiche che troppo bene possono portarle leggermente e rifarle. E ànno carrette coperte di feltro nero che, per che vi piova suso, non si bagna nulla che entro vi sia. E fannole menare da camegli e ‘n su pongono loro femmine e fanciugli. Vivono di carne e di latte di giumente e di camegli.


Chissà quanto se ne sarà bevuto di kefir, di kumis nelle varie lavorazioni tradizionali e soprattutto di latte di cammella che sembra proprio la specialità della zona. Io invece questo famoso latte avrei dovuto berlo proprio quando da quelle parti non ci ero andato. Infatti, quella volta era toccato a due miei colleghi volare a Chimkient in Kazakistan, terra dove le facce squadrate degli abitanti raccontano bene il passato dominio mongolo. Io invece, a casa a guardia del fortino. Pare che i due poveretti abbiano dovuto trangugiare una tale quantità del bianco liquido dall’odore (non lo definirei profumo o aroma) caratteristico e deciso, che vollero a tutti costi non privarmi dell’esperienza e misero in valigia una bella bottiglia piena del prodotto cammelligeno.

Il piano era che, essendoli, io stesso andati a prenderli all’aeroporto, avrei dovuto, seduta stante, appena sbarcato, gustare il prezioso liquido dalle molteplici proprietà benefiche, anche se allora non aveva ancora preso piede il consumo di latte crudo. Così assieme aspettavamo ansiosi la valigia maledetta che finalmente comparve sul nastro trasportatore, con grande giubilo dei miei “amici”. Tuttavia si notò subito che intorno al bagaglio una vasta chiazza biancastra stava allargandosi velocemente. La valigia fu presa al volo mentre schizzi di colaticcio puzzolente ammorbavano i vicini che invano tentavano di scostarsi.

Purtroppo la bottiglia dotata di un tappo di scadente qualità aveva disperso tutto il suo contenuto, contaminando irrimediabilmente i vestiti ed in particolare un bellissimo colbacco di visone appena acquistato che dovette essere buttato assieme a tutto il resto. Il confezionatore della bottiglia, che non era il proprietario del colbacco, non fu mai più perdonato. Per quella volta, con grande rammarico, dovetti rinunciare all’esperienza.


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domenica 11 luglio 2010

Il milione 19: Samarkanda.


Questi giorni vacanzieri, ci hanno fatto completamente perdere di vista la carovana dei fratelli Polo, che superate le montagne del Pamir, sta ormai percorrendo le vaste pianure ed i deserti del Turkestan allora chiamato grande Turchia. Devono aver vagabondato un po' da queste parti, avanti e indietro, perchè a quei tempi c'era parecchio traffico e commerci da queste parti. Le carovane si muovevano portando merci preziose lungo rotte apparentemente sicure e tranquille.

Cap. 55

…è provincia della grande Turchia ove il fiume mena diaspido e calciadonio e portalle a vendere au Catai…
Da alcuni decenni infatti, tutta l'area era stata conquistata dalle orde di Gengis Khan che aveva imposto una pax mongola piuttosto severa e i commerci prosperavano attorno a quella che era la città simbolo dell'Asia centrale.

Cap. 51

Samarcan è nobile cittade ove son cristiani e saracini...
Il fatto che il nostro Marco poco aggiunga mi aveva lasciato perplesso, mentre digerivo lentamente il sofakli palov che ancora si trova nei ristoranti della città, forse non troppo diverso da allora (per la ricetta passate da Acquaviva), ricordando lo splendore monumentale che la rende unica, ma a guardar bene, quando ci passò il nostro, la città doveva essere molto diversa. Infatti quasi cinquanta anni prima, quando era caduta, si era provveduto a raderla al suolo e sopravvisse solo una minima parte della popolazione, inoltre pochi anni dopo subì un secondo sacco che la devastò completamente. I mongoli non andavano tanto per il sottile quando volevano esportare la loro way of life. Il buon Gengis amava ricordare che "nulla è più bello che vedere il tuoi nemico ai tuoi piedi, violentare le sue donne, uccidere i suoi figli e rubare i suoi cavalli" in ordine di importanza naturalmente, chè il cavallo è la vera ricchezza del nomade, quindi tutti si sottomettevano volentieri e pagavano tributi. I Polo giunsero quindi in una città stremata e distrutta che però manteneva il suo ruolo chiave come crocevia dei commerci.

Solo due secoli dopo Tamerlano decise di renderla splendida come oggi la si può vedere. Muoversi nella grande spianata del Registan, sotto i timpani decorati delle madrase, sovrastati dalla grande cupola blu, ti lascia basito perchè la bellezza è universale e forse è vero che è l'unica cosa che può salvare il mondo. Anche i regimi più crudeli, quando hanno lasciato spazio al pensiero e all'arte, si sono via via ingentiliti ed è poi questo che è rimasto a testimoniare quanto è grande l'uomo. E' sempre la sua furia mentale, il suo climax creativo che generano i capolavori, sia che la falsa motivazione sia religiosa o l'ossequio al potere. Questo alla fine è quello che rimane, per secoli. Tu calpesti le antiche vie ciottolose che portano all'osservatorio e ti senti orgogliosamente parte di questa specie, che distrugge con la crudeltà di pochi, ma che sa costruire sempre per i molti che alla fine si sanno sempre adattare per sopravvivere.



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mercoledì 24 marzo 2010

Guì Xìng.

Oggi la carovana dei Polo a cui mi sono improvvidamente unito e con cui mi trovo benissimo (in verità sono degli eccellenti compagni di viaggio), si prende ancora una pausa in attesa di farsi raggiungere da Acquaviva che, come vi ho anticipato, dal suo raffinatissimo blog di cucina dai sapori internazionali, vuole onorarci unendosi a noi lungo il viaggio e come immaginerete le salmerie sono essenziali in una spedizione, quindi valgon bene una sosta. D'altra parte i fratelloni si fermarono a Kazan (Bolgara) per circa un anno, quindi giorno più o meno, che sarà mai! Certo che anche per loro e per il commercio in generale, una conoscenza, anche se non approfondita e limitata ad un lessico essenziale delle lingue dei paesi attraversati, è di vitale importanza per il mercante di tutti i tempi. Ecco perchè, seguendo le regole della tuttologia, impararle male, purchè siano molte, anche io ho sempre cercato di avere qualche rudimento, anche se minimo o parziale degli idiomi con cui sono venuto a contatto. Certo non si deve avere la presunzione di credere di parlarle, queste lingue, ma la conoscenza anche minima di qualche frase risulta sempre utile e fa sempre simpatia nelle trattative commerciali. Tra l'altro si notano anche interessanti punti in comune tra lingue magari lontanissime. Ad esempio la parola "caro" (utilissima nelle trattative) ha la stessa doppia valenza materiale di "costoso" e spirituale di "prezioso, vicino affettivamente" anche in russo e in cinese. Così veniamo agli ideogrammi di oggi. Infatti quando si chiede ad un cinese "Come ti chiami?" si usa la frase "Tu (tuo) caro cognome? - Ni gui xing? " E' interessante il carattere xìng 姓, costituito da due parti, la sinistra (nu - donna) e la destra (sheng - nascere), in quanto nell'antichità la società cinese era decisamente matriarcale ed il cognome procedeva per via matrilineare, mentre guì - 贵, (caro, prezioso) è preso qui nella sua accezione spirituale. Si noti come il carattere sia composto dai due più semplici, zhòng - 中, che significa nel mezzo e più sotto, jiàn - 见, che significa vedere. Cioè, bisogna guardare ben dentro a una cosa o nell'intimo di una persona, per scoprirne, la preziosità, il valore, la rara unicità. Ma appaiata a questa è necessario ben conoscere un'altra frase fondamentale: "Tai gui la!" pronunciata con enfasi e rincrescimento allo stesso tempo, che significa "Troppo caro!" basilare in tutte le trattative di mercatura. Certo i Polo la conoscevano bene in tutte le lingue, senza fare confusioni e a tal proposito, mi torna alla mente una situazione divertente occorsa a mia suocera quando tanti anni fa volle partecipare, soddisfazione di una vita, ad un viaggio organizzato nelle lontane Indie. Molto amante dei mercati e desiderosa di sperimentare l'arte della contrattazione alle bancherelle del lontano paese, era tuttavia sprovvista dei mezzi tecnici necessari, padroneggiando soltanto l'idioma piemontese oltre all'italiano. Prima della partenza, quindi cercammo di addestrarla a fondo, ma si sa che ad un certa età imparare le lingue è difficile. Ci limitammo quindi a due sole espressioni inglesi, assolutamente basilari: How much? - Quanto costa? e Too much! - Troppo caro! con cui ritenevamo fosse possibile condurre degnamente qualsiasi trattativa. Giunta quindi al mercatino tibetato di Jampath Road a Delhi, si precipitò immediatamente tra i banchi, affascinata dal rutilare travolgente dei colori e dagli odori indiani e innamoratasi subito di alcune deliziose pashmine che formavano una cascata di morbidezza, riempiendo completamente l'ingresso di un negozietto, prese il coraggio a due mani e si diresse con decisione verso il sonnolento venditore che stava appollaiato su un trespolo di fianco all'ingresso. Si piazzò davanti al tipo e puntato il dito verso l'oggetto dei suoi desideri lo apostrofò con sicurezza con un deciso: "Too much". Il venditore, ormai rotto a tutti gli approcci commerciali, allargò le braccia e sembra abbia contestato qualcosa dal significato presupponibile di: "Lo so, ma tutto aumenta, vuol dire che le farò un bello sconto." Come sempre, quando c'è la volontà di capirsi, la trattativa andò a buon fine e la bella sciarpa fa ancora bella mostra di sé dopo venti anni.

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martedì 22 dicembre 2009

Riva lontana.

Del nostro soggiorno ad Irkutsk, ho già parlato abbondantemente qui e non starò a ripetermi. Mi piace soltanto sottolineare la sensazione di perdita di contatto con il resto del mondo, dell'essere in un luogo così lontano dalle mete usuali. In una terra, tutto sommato povera di presenza umana, questa si concentra tutta in pochi luoghi, quasi a creare un fortilizio dove proteggersi da una natura incombente, totalizzante, non tanto amica per la verità. Le temperature sconvolgenti per buona parte dell'anno, l'immensità sconfinata delle foreste che ti circondano fino a perderti nell'assenza di segni di riconoscimento, il terreno, un cemento di ghiaccio che per pochi giorni all'anno si trasforma in una fanghiglia collosa ricoperta da nuvole di feroci e piccolissime zanzare, rendono questi spazi difficili da vivere per chi ha avuto la ventura di esserci capitato, per caso o per forza. Il lago, immenso, è circondato da territori che, al di fuori dei locali, conoscono solo i giocatori di Risiko, la Yakuzja, Chita, la Buriazija, sono nomi remoti che richiamano solitari cacciatori di pellicce del grande nord. Avventure alla Jack London alla ricerca di scheletri di mammuth sepolti nel permafrost. La realtà è come sempre più prosaica, meno poetica. Sulla lastra di ghiaccio che ricopre il lago, spessa quasi quattro metri, passavano i camion lungo una pista lunga una ottantina di kilometri che attraversavano da una riva all'altra. Dall'alto della collina la fila del convoglio di mezzi che andava verso est pareva una coorte di formiche nere che si allontanavano lentamente. Il grande bacino, riserva d'acqua dell'umanità, è in realtà devastato da enormi complessi per la produzione di alluminio e da colossali cartiere che sfruttano le foreste del nord, inquinando l'acqua a più non posso. Ma tutto quanto avviene quasi a seicento kilometri più in su e sulle coste più meridionali del lago, nei piccoli porticcioli dove i pescherecci sembravano galleggiare sul ghiaccio, non si avverte la morsa dell'inquinamento e i piccoli insediamenti di casupole basse di legno parevano parte del paesaggio, con i piccoli fili di fumo che escono dai camini appena emergenti dalla neve. Dovemmo bere, per compiacente condiscendenza, un bicchiere dell'acqua purissima del lago, prelevata direttamente da un buco di pescatori nel ghiaccio trasparente del porto, sotto il quale si intravedeva una bicicletta e altri rottami gettati durante la breve estate siberiana. In città entrammo all'Univermag, ma la penuria di merci era pesante e pochi clienti stavano in coda davanti a banconi dagli scaffali desolantemente vuoti. Era ben rifornita solo una sezione di cetrioli in composta e quella delle pantofole di pelo. Ne comprai un gran numero per fare regalini, anche se in quel mese erano disponibili solo di misura 37. Gli alberghi erano infestati di signorine desiderose di sbarcare il lunario, di cui era difficile liberarsi, essendo la presunta clientela sempre più rarefatta. Questa del mercante sempre in cerca di femmine su cui sfogare i suoi istinti primordiali, deve essere una costante millenaria. Pensate ne parla anche diffusamente il buon Marco Polo nel Milione, vera Lonely planet del mercante in viaggio, che segnala appunto le zone e i paesi dove le fanciulle sono più gradevoli o date in disponibilità dagli stessi mariti, ben felici di favorire lo straniero apportatore di ricchezza. Illustra il Veneziano, con dovizia di particolari, segnalando anche la tipologia di dono più gradito, in genere spille o gioie varie di cui il mercante provvedevasi per la bisogna e descrive situazioni in cui le giovani meno desiderabili e che quindi potevano mostrare esposte sulle vesti o tra i capelli, meno doni ricevuti, risultavano poi di difficile collocazione. Sta di fatto che chi desidera liberarsi di questo, fastidioso se non richiesto, servizio, deve escogitare diverse strategie per starsene tranquillo, in attesa che le tigri trovino altre prede giunte assetate all'abbeveratoio. Già, per gli appassionati dell'argomento, ho raccontato dei boomerang qui, segnalo solo un altro caso simpatico in cui mostrando casualmente delle foto in cui il nostro buon Zhenija era rapato a zero, ci qualificammo come inventori e detentori unici della formula segretissima di un prodotto per una totale ricrescita dei capelli. La fluentissima e ricca chioma che esibiva il nostro al momento, era proprio la ragione per cui lo conducevamo nella nostra road map per meglio piazzare il prodotto. Questo spiegone, unito alla gentile offerta di una bicchierino di Amaretto, servì ad allontanare definitivamente le questuanti, attirate anche dall'arrivo di un gruppo di rubizzi manager tedeschi, facilmente catalogabili come più bisognosi di attenzioni e particolarmente ricettivi. Ma venne anche il momento di lasciare il gelo di Irkutsk per tornare a Mosca, per fare il punto della situazione, per tornare a casa. La Siberia, sconfinata illuminata dal sole, brillava diecimila metri più in basso, come un tappeto di madreperla, niellato dalle incisioni d'argento dei fiumi gelati. Un tempo infinito per sorvolare il nulla più assoluto, eppure quando arrivammo, dopo sette ore di deserto bianco, era passata solo un'ora. Miracoli del fuso.

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sabato 19 dicembre 2009

Vivere a Ufa.

Ufa, capitale della Bashkiria, i cui abitanti si chiamano Ufimzy, tanto per rispondere alla domanda di Popinga di ieri e non Ufologi, come suggeriva Ferox in un anelito di contatto del terzo tipo, risultava essere a quel tempo, una delle città più inquinate dell’impero sovietico. L’aria aveva un perenne sentore di fenolo e Ferox mi raccomandò di usare poco l’acqua del rubinetto, perché sulla pelle rimanevano strani e sospetti rossori. Malelelingue affermavano che il numero di nascite con deformazioni, superasse ogni altra zona conosciuta. L’impressione era un po’ quella di una zona un po’ fuori dal controllo centrale, dove le camarille locali facevano un po’ il bello ed il cattivo tempo. Gli incontri con diversi personaggi equivoci, che si spacciavano per i maggiorenti locali ce lo confermò, così come un losco personaggio, tale N. che come credenziali ci assicurò di essere stato in galera cinque anni prima per crimini commerciali. Sembrava questa una specie di medaglia al valore che contraddistingueva chi era in grado di offrire buoni affari. Per fortuna presto arrivò la macchina che ci doveva portare a Jangantau, dove, essendo arrivata la conferma del pagamento della linea di imbottigliamento dell'acqua minerale, ci attendevano alla fonte per il progetto dell'impianto. Della cosa avevo già diffusamente parlato qui e anche qui, per cui, chi volesse maggiori dettagli, li troverà. Ricordo solo il nostro stupore nel trovare nel luogo, dove ci aspettavamo un capannone pronto ad accogliere il nostro impianto, una landa desolata con un tubo di acqua che fuoriusciva da un laghetto ricoperto di spesso ghiaccio verdastro. Era la famosa fonte ricolma di benefiche proprietà minerali radioattive, grazie alle quali, il vicino sanatory era pieno zeppo di curandi. Non rimase che fare la foto ricordo, davanti al cumulo di neve dove sgorgava l'acqua miracolosa mentre il capo delegazione, si sacrificava a (far finta di) bere un sorso del famoso elisir di lunga vita. Non era chiaro quali fossero i motivi dei benefici effetti dell'acqua stessa e delle cure che venivano lì praticate, ma, come ci spiegò il gran dottore capo del sanatory, c'erano almeno una trentina di teorie sugli effetti di quello che definì come un reattore naturale sotterraneo, da cui emergevano effluvi vari, tra cui il radon. Tra le altre cure sperimentali, parevano particolarmente efficaci certe sedute di vapori in cui il malcapitato veniva rinchiuso con la testa fuori, in una specie di stufa/bara fatta con dei frigoriferi finlandesi di recupero. Era la genialità russa dell'arrangiarsi e non potemmo esimerci dal sottostare alla cura, su cui però, vorrei soprassedere. Nel gran banchetto di benvenuto della sera, capimmo che i responsabili volevano da noi anche un aiuto sottoforma di suggerimenti utili a costruire un capannone degno della tecnologia occidentale che avrebbe ospitato, ma non avendo sottomano strumenti idonei, mentre le bottiglie di vodka vuote si allineavano a terra nella grande dacia di legno nascosta nella foresta di betulle, coperta di neve ma riscaldata all'inverosimile, prendemmo alcuni fogli di carta igienica, gli unici disponibili sul posto, dove fu vergato uno schema di capannone utile alla bisogna. La carta, che era robustissima essendo del famoso tipo chiamato "la vendetta di Stalin". conosciuta per rendere di un bel rosso vivo le parti interessate a causa della sua ruvidezza, funse perfettamente allo scopo e risulta che fosse inserita successivamente tal quale, nel fascicolo descrittivo del progetto. Mentre i convenuti cominciarono a rotolare come previsto dal protocollo, sotto il tavolo ad uno a uno, calò la notte pesante. Tra le montagne di Yangantau, mentre sul fondovalle il nastro d'argento del fiume formava una grande esse prima di scomparire tra le colline, regnava una pace plumbea, ma c'era nell'aria un turbamento profondo. Ieri erano circolate strane voci provenienti da Mosca. Eravamo riusciti, nel tardo pomeriggio, ad avere la linea telefonica e la moglie di Ferox ci aveva detto con una certa preoccupazione che c'erano i carri armati sulla Kutusovsky che entravano in città e non si capiva cosa stesse succedendo. Al mattino fu sospeso il segnale TV e tutte le linee telefoniche. Dovevamo essere ricevuti dal sindaco in pompa magna, ma ci dissero di rimanere alla dacia, perchè il sindaco aveva l'influenza. A questa notizia ferale e sospetta, Ferox cominciò a preoccuparsi, stava succedendo qualcosa di grave.

venerdì 18 dicembre 2009

Mercati internazionali.

Lasciammo la città segreta di primo mattino. La guardia ai reticolati ci restituì i passaporti con grandi risate e ce ne andammo a tutta velocità. Eravamo di nuovo in ritardo e ci voleva più di un'ora per la stazione di Ekaterinburg (nell'occasione Sverdlosk aveva cambiato nome), dove ci aspettava il treno delle 8 e 35. Questo era il turno in cui avevamo deciso che mai più avremmo preso l'aereo. Ripercorremmo la strada sul lago ghiacciato a velocità folle; io tenevo gli occhi chiusi, stretti stretti, mentre tutti cantavano a squarciagola 'O sole mio, forse per esorcizzare il dio dei ghiacci. Arrivammo in stazione alle 8 e mezza, appena in tempo per abbracciare gli amici, ancora un po' groggy per la serata precedente. Del treno neppure l'ombra. Zhenija era inorridito. Era impossibile che il treno della Transiberiana fosse in ritardo. Infatti. L'orario del biglietto era scritto con l'ora del fuso di Mosca, quindi eravamo arrivati con due ore di anticipo, ci spiegò il rubizzo capostazione, che subito si fece in quattro per darci una mano, anzi ci cedette la sua cameretta personale per lasciare i bagagli, assolutamente insicuri, di quei tempi, certificò con serietà, al deposito bagagli. Ci sdebitammo lasciandogli una serie di monetine italiane per la sua collezione personale. Andammo così a fare quattro passi all'esterno dove era in pieno svolgimento un gran mercatino di babuske. In una interminabile fila, un gruppo di vecchiette offrivano merci di tutti i tipi disposte su cassette di legno per tenerle sollevate dalla neve sporca. Ekaterinburg era diventato un gran crocevia di traffico di merci povere, che arrivava dalla Cina lungo la Transiberiana. Un folto gruppo di militari intabarrati con le schapke di ordinanza, con tanto di stella rossa controllavano la massa in movimento del mercato, irregolare ma tollerato, in quanto, come diceva la consuetudine del tempo, non espressamente vietato. Una fitta barriera di Zhiguly cariche di masserizie segnavano i confini di quel punto di scambio spontaneo. Una o due volte al mese, le novelle imprenditrici prendevano il treno e arrivavano fino al confine cinese dove si favoleggiava di un immenso mercato, una vera e propria città dell'oro dove tutto quanto si produceva in Cina veniva scambiato a colpi di dollari sonanti. Vestiti, scarpe, alimentari di ogni tipo, biciclette e ogni altro ben di dio che la macchina ben oliata di quella che stava per diventare la fabbrica del mondo, cominciava a sfornare a ritmi vertiginosi ed a prezzi assolutamente concorrenziali. Prezzi, che man mano che il treno si spostava verso ovest, ingrassavano, si facevano più corposi, secondo un meccanismo commerciale a lungo sconosciuto, ma ben presto imparato. A Ekaterinburg, stazione intermedia, i prezzi erano ancora sufficientemente interessanti per spingere le Tamare e le Tanije moscovite ad arrivare lì a mani nude e ripartire cariche di fagotti. Col tempo la fame di guadagno le spinse fino a Pekino, al famoso mercato dei russi, nel quartiere dietro alle ambasciate, dove ti davano il prezzo dei maglioni per un minimo di venticinque pezzi. Ci prendemmo un gelato alla panna dall'unica vecchina che ancora trattava questo buonissimo articolo tradizionale della morente industria russa, ormai circondata (vecchina ed industria) dalle bancarelle che offrivano barrette di Mars, Snickers e Rocher Ferrero, vero oggetto del desiderio dei vari adulti e bambini che si aggiravano qua e là, fermandosi immobili e con gli occhi sognanti come Hansel e Gretel di fronte alla casetta di marzapane, accarezzando con gli occhi le irraggiungibili palline di carta dorata ammonticchiate a piramide sulle cassette delle arcigne streghe. Forse anche quelli, però, arrivavano dalla Cina. Salimmo infine sul treno, che era ovviamente in perfetto orario. Ci mise tutto il giorno a scavalcare gli Urali con lunghe curve sinuose nei fondovalle, tra le colline coperte di foreste bianche. Un paesaggio da stordimento. Io stavo attaccato al finestrino, quasi ipnotizzato dal fascino di quel quadro mutevole, forse perchè ero intorpidito dal freddo, anche se coperto da maglioni e dublionka, a causa del riscaldamento che non funzionava. Arrivammo ad Ufa in Baskiria, alla sera. Giurammo che la prossima volta avremmo preso l'aereo.

giovedì 17 dicembre 2009

Vodka sincera.

Finalmente si è deciso a nevicare. Non ne poteva più da qualche giorno e ieri sera, guardando fuori dalla finestra, si intravedeva scendere qualcosa, come lungo le fasce laterali di questo blog. Non dà tristezza come quando comincia a piovigginare, dà piuttosto una sensazione di attesa positiva. Proprio la stessa che provai allora, guardando verso il lago ghiacciato, dalla piccola finestra del sanatorj di Sverdlosk 44, la sera del nostro arrivo. Era buon segno; intanto se nevicava vuol dire che la temperatura era salita, dai -25°C dei giorni precedenti e l'appuntamento alla fabbrica del marmo, previsto per la mattina successiva, sembrava promettente. Che ci entravamo col marmo, noi tappologi? Niente all'apparenza, ma in un mondo che aveva difficoltà enormi a comunicare con l'esterno, in cui la possibilità di muoversi era quasi negata, chi aveva bisogno di qualcosa si rivolgeva alle uniche persone a tiro che avessero la possibilità di comprare per soddisfare anche con un passaggio in più i loro bisogni. Quando si chiudono le porte con paletti e lacciuoli, se hai bisogno, sei obbligato a giri tortuosi ed alla fine le stesse cose ti costano di più, in soldi e fatica. Così di buon mattino, la italijanskaija delegazija si presentò alla fabbrica del marmo dove il sindaco e tutta la compagnia aspettava in pompa magna. La fabbrica era ferma perchè tutte le macchine (italiane naturalmente) per tagliare le lastre di marmo erano malandate o completamente rotte e senza possibilità di ricambi. Ora direte, ma non potevano chiamare direttamente la ditta e ordinare nuove macchine e ricambi? No, non si riusciva. Dall' URSS e da quella città chiusa agli stranieri, blindata dietro il triplo filo spinato della stolida segretezza militare, non si poteva comunicare, telefonare, chiedere. Ecco quindi la nostra funzione di salvatori della patria, che come capi commessa avremmo, raccolto le necessità, fatto preparare il progetto, approntato e spedito, infine coordinato il montaggio ed il commissioning di una linea completa per la produzione di lastre, piastrelle e così via. Il sindaco era una brava persona che molto pragmaticamente, capiva i vari problemi e aveva una sincera volontà di sistemare le cose, dotando la sua città di un polo produttivo efficiente. La sera, davanti agli spiedini che sfrigolavano sulla griglia improvvisata, dopo la prima bottiglia di vodka si aprì molto. Dietro i suoi occhi tristi avvertivi la voglia di fare cose utili, di servire la propria comunità, anche sentendo dietro le spalle le pressioni degli appetiti dei tanti personaggi che prosprano sotto tutte le bandiere, questo mondo che intreccia il politicante con il lavoro, mignatte che ti si attaccano alle caviglie come non parendo e intanto succhiano la loro ragione di esistenza. Ci raccontò di quando, giovane, era campione di biathlon e di come era bello scivolare sui solchi tracciati tra le betulle, col freddo pungente che ti pizzicava le guance, per fermarti ansante cercando di tenere ferma la carabina, mentre il bersaglio lontano si appannava davanti all'occhio velato dalla fatica. Ma che serenità, confrontata alle sedute del consiglio comunale, dove ai bersagli si erano sostituite belve fameliche da tenere a bada, ognuna interessata solo a staccare il proprio piccolo brano di carne succulenta e grandante di dollari. Firmammo il contratto e della successiva visità parlai già qui, per chi vuol saperne di più. Ci lasciammo quindi con i consueti fraterni abbracci che la vodka rende più lunghi e impastati, con la promessa di rivederci in Italia alla approvazione delle macchine prima della spedizione. Vennero, qualche mese dopo e naturalmente li portammo a Venezia. Dopo il consueto giro, San Marco, campanile, ponti, gondola, aperitivo per apprezzare i mosaici del Danieli, dopo tanti sospiri, gli occhi dell'amico sindaco erano sempre più tristi e mentre li salutavamo, esternando il nostro più sincero dispiacere nel lasciarli andare così in fretta, ci guardò con un mezzo sorriso pragmatico dicendo: -Non raccontate storie, tutti sanno che la cosa più bella della visita di una delegazione è il rumore dell'aereo che se la porta via.-

giovedì 10 dicembre 2009

Notte allo Spiektr.

Eravamo dunque tornati a Mosca. Dopo quasi un mese di viaggio in cui avevamo attraversato l'occidente dell' URSS, dopo sette notti passate sui treni, dopo aver tastato il polso, malato, di un paziente che si era preso una bella botta e non aveva ancora capito se sarebbe guarito o se era destinato a perdersi completamente, ritrovavamo una Russia diversa, preoccupata ed incerta sul futuro, con le stazioni della metro che si popolavano di una nuova fauna di anziani in cerca di qualche mezzo di sostegno, vendendo qualcosa, disegnando ritratti o facendo qualcosa di completamente sconosciuto prima, chiedere semplicemente l'elemosina. Mosca, però, non aveva perduto l'appeal del centro dell'impero e mi pareva davvero di essere tornato nella civiltà. Nell'appartamento che ci fungeva da ufficio, in un bel quartiere di case antiche (e le scale con tutti i gradini regolari) il rumore della macchina da scrivere di Angela aveva un suono familiare ed il ticchettio del telex, ti faceva sentire vicino al mondo come lo conoscevi. Rivedemmo parecchia gente che avevamo conosciuto nel giro e che si erano precipitati a Mosca per definire qualche progetto, dal Coreano, un intrallazzone con due fessure sottili al posto degli occhi, che non beveva mai vodka, a Kostija che avevamo conosciuto in treno e che voleva rappresentarci a Stavropol, a Kiril con i suoi problemi della linea di riempimento della vodka, a Marat che ci guardava inorridito mentre brindavamo al suo prossimo matrimonio, divorando spesse fette di salame italiano, senza pensare che lui era mussulmano osservante. All'imbrunire andai a Novodevichy, il monastero delle vergini, silenzioso e coperto di neve. Bellissimo e cristallizzato nel gelo della sera; deserto e silenzioso col suo cimitero con le lapidi dai nomi famosi, Scorrevano davanti a me, anche se cercarli costò un po' di fatica Cechov, Eisenstein, Bulgakov, Gogol, Stanislavsky, Khrushchev; che emozione camminare in questi luoghi. La storia russa al completo, che 'a livella aveva confinato in questo lembo di terra coperto di bianco. Me ne tornai in albergo tranquillo dopo una visita ad un Berioska, uno dei negozi per occidentali che stavano per essere sorpassati dalla storia. Alla mia visita successiva, non li avrei più trovati, tutti sostituiti da profumerie dai nomi occidentali e pieni di griffe famose. Anche l'albergo era cambiato. Non eravamo più al tetro Pekin, uno dei sette grattacieli staliniani in stile neoassiro, brutte copie dell'Empire State Building, ma in una delle nuove realtà del cambiamento, un alberghetto "commerciale", tutto quello che era di iniziativa privata era chiamato così. Si chiamava Spiektr, un nome una garanzia. Una decina di camere in una casetta antica e bassa a due piani, il vero opposto del falansterio sovietico in stile pensione Mariuccia. Le tenutarie erano due sorelle di enormi e generosissime dimensioni, agghindate come alberi di Natale, che vestivano sempre camicette bianchissime di pizzo, stirate con cura, anche se di puro poliestere che emanava tremendi sentori corporei anche a buona distanza, a causa del calore torrido che regnava tra quelle mura. Era imbarazzante, anche se compensato dai grandi sorrisi che Tanija e Irina dispensavano portando i cetrioli e la smijetana per la colazione. Il luogo era tranquillo ed aveva un non so che di familiare e, anche se un gruppo di coreani della Samsung che lo popolavano, aveva l'abitudine di giocare a Gim tutta la notte, ti dava una sensazione di calore. Al limite bastava spegnere un po' i termosifoni di notte per non morire arrosto. Riuscii anche ad avere una telefonata con l'Italia (non c'erano ancora i telefonini allora) ma sentire la mia bambina che piangeva perchè non tornavo ancora a casa, mi mise una gran tristezza. Andai a dormire presto, l'indomani arrivava R. dall'Italia e dovevamo prepararci per il giro in Siberia.

mercoledì 2 dicembre 2009

Pompe baltiche.

Dopo una notte di tregenda, al mattino ero un cadavere che cercava di camminare. Ferox che avevo scioccamen- te deriso nella analoga situazione occorsagli pochi giorni prima, ben comprendeva la mia difficile posizione nell' equilibrio costante di una espulsione antero-posteriore a seconda dei momenti e non agitava il coltello nella piaga. Comunque attraversammo a piedi, in qualche modo le strette stradine del vecchio centro di Riga per un importante appuntamento. Si trattava di pompe. Anzi di pompette. La signora Sefaranova, direttrice della fabbrica di profumi, come tutte le donne di potere sovietiche, strabordava da ogni lato ed era dotata di una notevole cofana di capelli biondo cenere che la rendevano ancora più imponente. Accomodatici nella grande sala riunioni, la schiera delle aiutanti provvide ad esibire la serie dei nuovi prodotti. Mentre veniva servito un thé dorato come l'ambra del Baltico, una vera panacea per il mio apparato gastroenterico, assieme a legnosi biscotti lettoni, esaminammo la serie delle boccettine, che avevano un apparenza decente, in linea, volendo giudicare con buona volontà, con i criteri estetici occidentali, fine ultimo a cui sembrava ormai tutti volessero tendere. L'azienda era nostra vecchia cliente di pompette e spruzzatori per profumi, i cosiddetti "finger sprayers", prodotti tecnologicamente non banali come potrebbe sembrare al profano; ma la concorrenza era entrata a piedi uniti e ormai anche il vecchio mondo sonnacchioso dell'orso sovietico, che prima si accontentava delle strette di mano e delle pacche sulle spalle, voleva discutere di prezzi. Robe da matti. I coreani erano arrivati all'attacco e avevano fornito una partita di pompette di prova ad un prezzo stracciatissimo, un terzo del nostro in verità, ed il contratto era in pericolo. La prendemmo alla larga, mentre la trombona magnificava la qualità delle pompe con gli occhi a mandorla, rigirando tra le mani i flaconcini, da cui emergeva un olezzo potente di muschio e vetiver. Fortunatamente la potente aggressività del liquido ebbe un effetto collaterale lenitivo sulla mia nausea e sul mio equilibrio espulsivo generale, mentre la discussione procedeva. Continuammo a magnificare la qualità di quelle delicate essenze, dichiarandole pronte per il mercato occidentale, cosa che aumentò il numero dei denti d'oro resi visibili dall'allargarsi del sorriso di Irina, come la chiamava confidenzialmente Ferox, senza criticare la qualità delle pompe nemiche, come impone l'astuzia commerciale di ogni buon venditore che si rispetti, ma senza perdere occasione per mostrare, come per non parere, le qualità decisamente superiori del nostro prodotto. Tra un complimento ed un oh di ammirazione, la massa di carne tremula come un budino, a stento trattenuta da pesanti misure contenitive, a poco a poco si sciolse e confessò senza condizioni, che effetivamente le malefiche coreane costavano poco, ma perdevano da tutte le parti, non certo come i magnifici e fidati italijanskye pulverizatory. Accettò così il piccolo aumento che ci meritavamo e ce ne uscimmo a riveder le stelle carichi di boccette omaggiate che, una volta in Italia, alcune mie perfide ma amatissime colleghe, sparsero in abbondanza su un mio maglioncino per scherzarmi, ma il tanfo era talmente lontano da quello che si considera un profumo femminile, che Tiziana lo prese per normale puzza di treno russo.

giovedì 26 novembre 2009

Patatine fritte.

Il lunedì mattina, Ferox era ormai sfebbrato e Zhenija tossiva, ma piano, cercando di non disturbare troppo, così andammo ad un incontro con un tizio che aveva un hotel privato da finire, in quanto aveva terminato i soldi ed era in cerca di finanziatori, ma avrebbe portato due amici produttori di patatine fritte, uno dei consumi del futuro, perchè a Mosca stava per aprire il primo McDonald della nuova Russia ed il progresso entrava così a piedi uniti nella sonnacchiosa federazione ed era prevedibile che, come tutte le cose di questo genere, questi consumi di "tendenza" si sarebbero presto diffusi a macchia d'olio anche in periferia. Anche a Kiev, i tradizionali Univermag, che in fondo avevano il loro modello nelle parigine Galeries Lafayette, già prototipate nei Gum di Mosca, stavano soffrendo e si sarebbero presto riciclati in centri in cui la parola chiave era Comersant, il nuovo faro di benessere economico e finanziario. Stava anche per uscire un nuovo giornale con lo stesso titolo, questa era la voglia di libertà che serpeggiava dopo decenni in cui la stessa parola era un insulto. Dunque arrivammo al costruendo hotel del tizio, che in realtà era una casotta privata, ancora molto indietro nei lavori di ristrutturazione per trasformarla in una pensioncina. I due amici in giaccone di pelle nera, avevano portato soprattutto il loro prodotto, l'oggetto del desiderio che volevano confezionare per renderlo attrattivo a macchia d'olio, al nuovo consumatore. Uno scricchiolante pacchetto di coloratissima carta alluminata poliaccoppiata, che avrebbe trasformato in farfalla, il bruco sordido che avevano tra le mani e che in quel momento godeva di una scatolotta di cartonaccio marrone totalmente coperto appunto, dalle macchie di unto che, trasudando dal contenuto finiva col lordare irrimediabilmente la tovaglietta già marezzata che copriva un traballante tavolo. Il problema si presentò subito; bisognava assaggiare quelle che non erano vere e proprie chips, ma delle quadrelle di pasta di patata pressata fritta in un misto di oli di incerta provenienza, valorizzati da una piccola percentuale di olio di colza, quello buono insomma, ricoperte da una patina nera di residui bruciati. Ferox, non ancora fuori dalla intossicazione, si chiamò subito fuori, così dovetti sottopormi a quello che diventò una costante degli anni futuri, l'assaggio obbligatorio di tutte le schifezze alimentari proposte via via dai vari possibili clienti. Mi macchiai subito tutta la mano di olio, la zaffata di rancido mi ostrui i condotti nasali ed il gusto acido e aggressivo mi corrose la base della lingua, mentre cercavo di fare interpretare le smorfie di disgusto per mugolii di apprezzamento. Sono sempre stato un buon attore e i due furono soddisfatti di come il panel di consumatori interpellato gradiva il prodotto e l'illustrazione della macchina confezionatrice e la successissiva enunciazione del prezzo non suscitò particolare scandalo. Sta di fatto che ancora adesso ogni tanto quel gusto di olio bruciato mi rinviene, sarà una malattia professionale. Al pomeriggio ci saltò un altro incontro, per cui decidemmo di fare una scappata all'ICE non avendo niente da fare. E' una cosa tipica degli operatori all'estero. Questo appuntamento di routine, ma assolutamente inutile, viene inserito per far passare il tempo per poi raccontarsi di come vengono buttati inutilmente i soldi delle tasse in questo ufficio inutile nella pratica. Cenammo in albergo per raccogliere le idee e fare il punto della situazione, quando per la serie come è piccolo il mondo, comparve, emergendo dall'ombra della sala semideserta, una vecchia conoscenza, un certo T. che aveva tentato in passato di fare con noi delle società ad alto contenuto tecnologico, di cui vi avevo già parlato qui e che dato lo spessore del personaggio avevamo, per fortuna, perso di vista. Si appiccicò subito a noi, con l'evidente scopo di scroccare la cena, come le signorine che si aggiravano nelle hall dei vari alberghi per occidentali, ma ci attaccò un bottone terribile, spiegandoci tutte le vie per accedere, a suo dire, alle giuste conoscenze, che lui naturalmente vantava, allo scopo di mettere le mani, in quel tempo di penuria di svanziche, su tutta una serie di commodities che andavano dall'urea, alle pellicce siberiane, alla pasta dilegno, fino al fosforo rosso che non sto a spiegarvi cos'è ma è meglio starci lontani. Riuscimmo a liberarcene con la scusa di dover correre alla stazione, dove a mezzanotte ci aspettava il treno per Minsk. Uscimmo di soppiatto dall'hotel, trascinando i pesanti bagagli lontano dagli occhi dei famelici tassisti che pretendevano un ulteriore pizzo di 10 dollari, mentre un nostro uomo ci attendeva su una piazzetta timoroso che gli tagliassero le gomme. Al treno trovammo Valery e madamìn, preoccupati che ci fossimo persi, che ci salutarono commossi con grandi abbracci; i nostri dollari, si allontanavano con noi e a loro venivano le lacrime agli occhi. Le stesse che vedemmo scendere copiose dalla glaucopide e biondocrinita capavagone, che ci raccontò di essere stata mollata venti anni prima da un italiano bruno e ingannatore che, dopo averla delibata, era scomparso lasciandola ad accrescere in modo irrimediabile, la sua prorompente steatopigia. La ferrovia passava a 40 kilometri da Ciernobil, quella notte non sembrava facesse poi così freddo.

domenica 22 novembre 2009

Tappi colorati di blu.

Il salone della Camera di Commercio di Kiev era pieno di imprenditori seduti attorno ad un grande tavolo che ci attendevano ansiosi. In quel tempo e mi sembra di parlare del Medio Evo, non c'erano telefonini da spegnere prima di cominciare le riunioni, né computer dove mostrare i filmati, né proiettori per le presentazioni, anzi a dire il vero, non c'era neanche la luce elettrica che, durante molte ore del giorno, in Ukraina veniva sospesa per mancanza di Kuponi o Carbovanzy, come altrimenti detti dai locali, un po' come dire svanziche, ma per fortuna il salone era molto luminoso. Così lo show avveniva in modo molto artigianale, ma non per questo meno attrattivo o convincente, anzi era più un gioco da prestigiatore o meglio da giocoliere che alternava la chiacchiera, illustrando depliant patinati, all'estrazione sapiente da una specie di borsa dei miracoli, una variante del cilindro del mago, di campioni colorati e lucidissimi, magari col gioco di prestigio finale della rottura dei ponticelli del tappo con un colpo secco della mano. Sui misteri e le meraviglie dei tappi, magari vi intratterrò un'altra volta, perchè, credetemi, è un mondo affascinante. Quei pezzi di plastica, giravano allora tra le mani degli astanti che se li passavano tra la meraviglia generale, tra mugolii di approvazione o ammirazione silenziosa, alcuni con richiesta mai esaudita di trattenerne almeno uno per mostrarli ai propri uomini, a casa, con promessa di contratti sicuri, altri trattenuti e rigirati più volte, infine posati con dispiacere sul tavolo dove rimanevano a far mostra di sé prima di sparire di nuovo nel loro nascondiglio. Era soprattutto la varietà dei tappi colorati con scritte altisonanti (Coca Cola o Pepsi) o la serie dei pilfer da 60 mm (voglio vedere chi sa cosa sono) vistosamente decorati dalle marche più conosciute, oppure le chiusure di prodotti che già stavano diventando l'oscuro oggetto del desiderio come i tappi della Nutella o quelli del TicTac, a destare l'interesse degli astanti, anche di quelli che operavano in tutt'altro settore. Ma in quel momento, chi si dedicava al business da quelle parti era molto propenso ad improvvisarsi in qualunque ambito ritenesse probabile fare soldi. Poi si dava spazio al Barnum che avevamo di fronte, da cui venivano le richieste più folli. C'era tutto ed il suo contrario, quando cominciava l'esibizione dei vari numeri da baraccone. Dall'imbottigliatore di minerale, dalle proprietà miracolose, inclusa la radioattività (bassa, anche se eravamo a 90 kilometri da Cernobil) e che voleva esportare a due dollari la bottiglia, allo scienzato, un elemento quasi sempre presente, che ha brevetti straordinari da sfruttare, nel nostro caso erano cerniere artigianali di latta per finestre, più un trattamento al laser indurente per il legno tenero al fine di farlo diventare come il miglior noce. Un'altra volta uno aveva proposto un trattamento per far diventare cristallo di rocca il vetraccio. Questa era una costante sovietica, pietre filosofali per trasformare la merda in oro, una ricerca continua ma pervicace che ci inseguì per anni e da cui, ogni volta sfuggivamo a fatica. In mezzo, tutta una serie di proposte che avevano una sola cosa in comune: se avessero avuto soldi, anzi dollari, chè di inutili Carbovanzy ne avevano a palate, avrebbero comprato qualunque cosa, ma siccome per il momento non avevano che le idee, offrivano società miste di ogni tipo, purchè noi si mettesse il grano e loro la fuffa. Quando ce ne andammo, Valery era molto demoralizzato, cominciava a capire che, se quello era il Gotha dell'imprenditoria di Kiev, le sue provvigioni erano ancora molto lontane a formarsi e si stringeva, sempre più ingobbito, alla biondona che gli portava la cartelletta. Quando scoprimmo che da tre giorni non mangiavano, facemmo sosta in una stalovaija puzzolente, dove fecero il pieno, mentre il morale risaliva a poco a poco. Tornando in albergo ci fermammo a Sant'Andrea, un gioiello con tutte le sfumature dell'azzurro come i tappi del mio campionario, dagli spigoli bordati d'oro zecchino che spuntava dal bianco su una piccola collina. La salita che mi conduceva ai gradini di marmo era un po' un pellegrinaggio espiativo per la giornata perduta. Il rumore scrocchiante delle suole sulla neve, accompagnò come un mantra il mio ansimare di obeso incipiente, mentre il fiato umido si rapprendeva in ghiaccioli duri intorno alla bocca. E' certamente vero che la bellezza salva il mondo. Tornai in albergo sereno. Da Mosca era arrivato Ferox, che mi aspettava in camera febbricitante, in preda ad una intossicazione, in un andirivieni continuo tra water e vomito.

sabato 14 novembre 2009

Buchi nella neve.

Alexiej era di una magrezza preoccupante. Ne avevo già parlato nel Rasoio a due teste, ma la sua somiglianza a come mi figuravo il Raskol'nikov di Delitto e castigo era talmente perfetta da lascire senza fiato. La barbetta rossiccia, le guance incavate, gli zigomi alti e sporgenti e gli occhi soprattutto, infossati e neri, come febbricitantinell'ansia di mettere in piedi un affare, un contratto, qualcosa che producesse almeno una piccola prebenda per uscire da una evidente indigenza, segnalata dal baschetto sdrucito di pelle nera e dal cappotto liso col bavero alzato per ripararsi dal gelo che a fine febbraio mordeva duro. Era lo specchio di quella Ukraina ormai tecnicamente indipendente che la stupidità della folla osannante chi predicava le divisioni, stava indebolendo allo stremo. Era l'unico paese dove il rublo che ormai dappertutto era considerato carta straccia, faceva premio sulla moneta locale, anzi su quello che rappresentava la futura moneta , la grivna, non ancora pronta e che gli ukraini favoleggiavano fortissima e già stampata per essere distribuita a breve a copertura di uno strepitoso benessere collettivo. Così circolavano i cosiddetti Cuponi, dei rettangoli in tutto simile ai soldi del Monopoli per dimensione, colori e tipo di carta. con la sola differenza che erano stampati da due parti. In poche settimane erano scesi a un cinquantesimo del loro valore iniziale e nessuno li voleva. Alexiej me ne fornì una serie completa da 1 a 200.000, un bigliettino giallo con cui pagammo il caffè con un biscotto sabbioso con cui tentammo di rifocillarci subito dopo l'arrivo. La barista, che appoggiava sul bancone sporco la sua ottava abbondante, a cui osammo se era buono, ci guardò con curiosità. Arrivavano pochissimi stranieri a Kharkhov, fece un sorriso triste e dichiarò che nel paese da cui venivamo non lo avrebbero dato neanche ai maiali e portò via il suo peso consistente, assieme ai 200.000 cuponi, ciabattando lungo il corridoio. Mentre giravamo da un incontro all'altro, la città si spiegava davanti a me, indifesa nella sua debolezza di economia ferita, in stato preagonico. Un vecchio centro con antichi palazzi ottocenteschi e grandi viali privi di macchine dove sbuffava qualche camion fumoso e qualche raro filobus affollatissimo. Davanti alle molte chiese, le piccole piazze disegnate con cura da architetti di un tempo, erano spesso occupate da residuati bellici, autoblindo e carri coi cingoli rotti, muti testimoni di una ferita mai chiusa , di una guerra che ha ucciso qui come in nessun altro posto; un ricordo che ancora faceva chinare il capo al solo accennarne. E qui file di vecchie donne con la mano tesa in silenzio a chiedere un elemosina da chi forse non aveva di che sfamare esso stesso. Il nostro Alexiej aveva sempre in tasca un mazzetto di cuponi da 5 e da 10 e li distribuiva lentamente, uno per ogni vecchina, che gli facevano un cenno di benedizione con la mano, mentre dall'interno della chiesa saliva forte la voce salmodiante del pope. Tutti i pochi rumori della città erano comunque attutiti dalla neve che continuava a scendere piano e il grande lago del parco centrale, coperto di puntini neri, lontani, i pescatori che rimanevano ore su uno sgabellino davanti ad un buco nel ghiaccio, pareva una immensa, bianca stuoia di feltro dove le nostre suole faceva scrocchiare la neve ad ogni passo. Alexiej aveva una voce bassa e profonda e parlava lentamente, scegliendo con cura le parole; tossiva spesso, girandosi di lato come per scusarsi, con gli occhi tristi, febbricitanti. Pensai che non avrebbe passato l'inverno. Mi hanno detto che adesso è proprietario di cinque farmacie e rappresenta una multinazionale del farmaco e va in vacanza in Sardegna, quando può.

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