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lunedì 17 ottobre 2011

Il Milione 56: Pesci secchi.

Seppie a seccare ad Hodeida (Yemen)

Chissà se anche Marco Polo, mentre si avvicinava la fine del suo viaggio quasi trentennale, sarà stato pervaso da quella sottile malinconia che prende il viaggiatore quando comincia a sentire l'aria di casa, in quella guerra di sentimenti che si svolge tra il piacere di ritrovare cose ed affetti e di lasciare la strada ricca di scoperte e di conoscenza che tanto gli ha dato. Però il nostro amico sta ancora risalendo il Mar Rosso dalle coste yemenite e il profumo del Mediterraneo è ancora lontano. Tuttavia, questo Yemen ancora oggi così turbolento e misterioso deve averlo colpito assai se per diversi capitoli ne racconta le lotte intestine tra le diverse fazioni di mussulmani e infine non manca di segnalarne il clima terribile e le abitudini più curiose.

Cap. 191

Pescatore al mercato di Hodeida (Yemen)
Qui si ànno molti dattari e pesci assai, che per uno viniziano si averebbe due grandi tonni. E sapiate che a' buoi e a' camegli e a' montoni ed a' ronzini piccoli, danno a mangiare pesci; e questa è la vivanda che danno a loro bestie. Questo è per cagioni che in loro contrada sì non à erba, perciò che ella è la più secca contrada che sia al mondo e si à grandissimo caldo ch'a pena vi si puote campare. E li pesci di che si campano queste bestie, si pigliano di marzo e d'aprile e di maggio  in sì grande quantità ch'è una maraviglia. E seccagli e ripongogli per tutto l'anno e così li danno a loro bestie e mangialli anco loro. Veritade si è che le bestie loro vi sono oramai avvezze che altra vivanda non danno a lor bestie. Ancora vi dico che di molti buoni pesci fannone biscotto; ch'elli tolgono questi pesci e tagliali a pezzuoli d'una libbra il pezzo e poscia sì li appiccano e fannoli seccare al sole. Così li mangiano tutto l'anno come biscotto.

Questo gran caldo, a noi insopportabile mi aveva quasi steso, quando, stolidamente avevo scelto proprio il mese di agosto per passeggiare lungo la fascia costiera yemenita sul mar Rosso, la Tihama. C'erano oltre 50 gradi e proprio al porto di Hodeida, davanti a queste infinite serie di pesci secchi distesi, mi sentii quasi mancare, non so se a causa del caldo o dell'odore. Ma la forte fibra della gioventù mi fece raggiungere l'ombra rovente dei cannicciati che proteggevano le stradine strette del mercato dove i grandi pentoloni roventi dei piccoli ristoranti, aiutavano ad aumentare la temperatura già insopportabile e servivano pesci in ogni forma e sapore, incluso il famoso makbous (più o meno una cernia) con il riso speziato che di certo avrà assaggiato anche il nostro viaggiatore. Ma l'interesse del brano è appuntata su questo uso della farina di pesce come mangime per animali, di cui qui si certifica l'abbondante uso in quel lontano passato, quasi a smentire tutte le giaculatorie di quanti, puristi della domenica, pontificano sulle proteine animali che vengono date negli allevamenti agli erbivori, quasi fosse un'operazione contronatura inventata dalla avidità dell'uomo moderno. L'alimentazione nell'allevamento (pratica che, come l'agricoltura, è ontologicamente contronatura, questo sì) ha sempre seguito la logica di fornire all'animale  allevato dall'uomo, il cibo a disposizione più economico ed allo stesso tempo più valido dal punto di vista nutrizionale, anche se allora tutto questo era calcolato empiricamente. Ma non voglio essere polemico, continuiamo dunque la risalita verso nord.
Carico dei cammelli al mercato di Sana'a (Yemen)

Cap. 190
Qui nasce lo 'ncenso in grande quantità e fassine molto grande mercatantia. Ed in questo porto (Aden)  li mercatanti traggono da le barche le loro mercatantie e càricalle in su camelli e vanno 30 giornate per terra infino ad Alexandria e in questo modo ànno li saracini d'Alexandria lo pepe e le altre ispezie delle isole d'India.

Viene così confermata la rotta delle spezie e dell'incenso che percorreva le rive del Mar Rosso fin dai tempi dei romani, rendendo ricco e potente il regno della regina di Saba  e che aveva avuto come punto di arrivo, prima Petra, poi Palmira ed infine Alessandria. Quando arrivai in quella Marib, capitale dei Sabei, ormai inghiottita dalle sabbie del deserto arabico, non più contenuto e coltivato come allora quando la grande diga, i cui resti mi impressionarono per le loro dimensioni, che permettevano tremila anni fa la vita ai margini del Rub-al-Khali, mi colpirono soprattutto quelle 5 colonne del tempio sacro, 5 dita lugubri che emergevano a stento dalla sabbia, l'unico segno rimasto della grandezza di quel regno, fondato sul commercio di quella globalizzazione ante litteram. I centri di potere passano ed i grandi imperi cedono la mano facilmente. Bastano pochi mutamenti e il centro del mondo si sposta in un attimo, ma bisogna considerare che è sempre stato il commercio e la finanza a condizionare questi mutamenti. Difficile farsi illusioni, già con il baratto, quando l'uomo ha incorporato nel suo genoma il senso dello scambio di cose, l'economia ha segnato il destino della nostra specie. Meditate gente, meditate.

Una carovana in Egitto.

Refoli spiranti da: Marco Polo - Milione - Ed.Garzanti S.p.A. 1982


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martedì 9 dicembre 2008

Meno stato, più mercato?

Sono sempre stato attratto dagli scambi, dalla trattativa, dal fascino del mercato in quanto tale e dalla mentalità mediorientale che lo accompagna. Forse un'altra delle mie vite precedenti mi ha lasciato questo imprinting. Ero nato vicino alla costa in quella che i Romani, i nuovi padroni del mondo, chiamavano Arabia Felix. In realtà non ne sapevano quasi nulla e immaginavano che da noi venissero tutte le spezie che amavano molto e ci compravano in quantità. Io due volte all'anno risalivo la costa del mar Rosso con una piccola carovana carica di incenso che scambiavo con mercanti in arrivo da isole lontane dell'Oriente di cui i Romani non sospettavano neppure l'esistenza. Era autunno o primavera quando arrivavo a Petra. Che sensazione; si dormiva fuori città. Poi il mattino, fresco e pulito, con il mio vestito più bello, attraversavo il lungo sif di roccia che conduce all'ingresso e facevo il mio ingresso nella città davanti alla mia piccola carovana come un principe che arrivasse d'oltremare. Credo che fosse uno dei più grandi mercati del mondo ed era tutto un brulicare di mercanti, di faccendieri, soldati, profeti e adepti di sette religiose che fermentavano da quelle parti in maniera mai vista. Tutti predicavano la Verità, altri, i più scaldati del momento ce l'avevano con noi, i mercanti, che ci interessavamo più di affari che di filosofia. Ma di questa gente ce n'è sempre stata, mi diceva mio nonno, poi ogni tanto si decidono, ne fanno fuori qualcuno e non se parla più per un po', fino a quando non salta fuori un altro matto, che si tira dietro un po'di sfaccendati. Quella volta aspettai due giorni prima di incontrare Rufus Macrinus. Era sveglio, più degli altri Romani e non aspettava sulla costa l'arrivo delle merci, ma saltando un passaggio, arrivava fino a Petra ed era da anni il mio migliore cliente. Parlavamo la lingua franca del Mare Nostrum, ma lui intendeva perfettamente anche il Nabateo, anche se faceva finta di non capire. Ogni volta cercava di farmi raccontare da dove arrivava il mio incenso, poi faceva finta di credere alla storia che lo coltivavo io stesso nelle mie terre a sud di un deserto impossibile da traversare e non tirava neanche troppo sul prezzo e mi versava con sussiego aurea argenteaque sextertia (nel lavoro, se non ficchi qualche parola in latino qua e là, non sembri aggiornato, così, ut mercaturam adiuvare, facillime latinam linguam loquor). Non amano la trattativa questi Romani, hanno fretta di concludere, vogliono tornarsene a Roma. Questa città deve essere ben straordinaria, 50 volte più grande di Petra; mah, Rufus ama esagerare, specialmente quando racconta della sua città, dell'imperatore, delle ricchezze, dei palazzi e delle genti di ogni paese che la popolano. Vuole concludere in fretta caricare i sacchi di incenso sugli asini e raggiungere la costa e la nave che lo aspetta per tornare a tuffarsi nella confusione cosmopolita della sua terra. Cerca sempre di portarmi nelle nuove taverne di moda, che servono tutti cibi elaborati con quello schifo di garum che piace tanto ai Romani. Non apprezza il lento scorrere del tempo, bere con me l'infuso nero, amaro ma forte e profumato delle bacche di Kava che viene dalla mia terra e parlare un po' del senso della vita, prima di trattare le merci. Non apprezzerebbe certamente la solitudine del deserto del sud, delle grandi dune sabbiose con le sfumature di colori del tramonto che si perdono all'infinito. Le notti sotto il cielo stellato davanti al fuoco tra racconti di avventure e ricordi di mondi lontani e di ricchezze ancora da scoprire. Lui ama il fasto della città, mi racconta di grandi spettacoli, di arene con uomini che si combattono e si uccidono per il piacere della folla che urla, di eserciti che partono alla conquista del mondo, di dame carichi di gioielli che arrivano da luoghi che non ho mai sentito, vestite di damaschi e di tessuti costosissimi che arrivano dai Sini. Nel nostro ultimo incontro mi ha fatto capire che presto arriverà anche qui un grande esercito e che questa terra di teste calde sarà finalmente pacificata per sempre. Basta con questo bailamme di religioni che portano solo caos. Pax romana per tutto il mare nostrum e mai più teste calde in Palestina. Un gran sognatore, Rufus, intanto mi ha pagato l'incenso il doppio di sei mesi fa. Con la crisi che gira, il lusso tira sempre.

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