giovedì 24 settembre 2009

I gradini di Palitana.

Oggi di nuovo India. D'altra parte sapete quanto sono legato a questa terra e quindi mi verrà perdonato il fatto di non mollare il filone una volta intrapresa la strada. Tra le altre cose io sono morbosamente attratto dai luoghi di culto di massa. Mi piace perdermi nelle folle oranti con gli occhi e la mente rivolti al trascendente. La speranza di un premio alla sofferenza reale, il desiderio di ricevere protezione alla debolezza propria dell'uomo, il voler credere in ciò che razionalmente non è credibile per assopire la sofferenza; tutto questo crea atmosfere ed emozioni che difficilmente si vivono in altri contesti. Palitana, una città templare perduta su una alta collina del Gujarat, è uno di questi luoghi. Ma per raggiungerla, come per altri di queste realtà, bisogna soffrire, forse aiuta ad ottundere la mente o solo prepararla al trascendente. Intanto, quando si raggiunge il villaggio situato alla base del monte, si è già depurati fisicamente da una dieta rigorosamente vegetariana, che in questo stato indiano è obbligatoria e da qualche giorno nei ristorantini avrete trovato solo pappe di cereali, verdure in ogni salsa e quantità di chilly tali da avere la mucosa del palato ormai completamente insensibile. Il calore estivo brutale, coopererà a levarvi ogni volontà e forza. I vostri chackra ormai saranno belli e bolliti, quando ai piedi del monte osserverete con orrore l'inizio della scala che con ottomila scalini si inerpica sinuosa lungo le cornici, prima di giungere al Nirvana. Ma a tutto c'è rimedio, dove non arriva la divinità ecco l'inventiva dell'uomo misericordioso che si preoccupa del benessere del pellegrino. Come non ricordare che ogni luogo santo è anche business e fonte di reddito per molti, oltre che per le gerarchie religiose naturalmente, che attendono in cima alla collina. Dunque, agli sgomenti pellegrini che si affastellano nella piazza antistante la salita, ecco offrirsi degli uomini muniti di attrezzature atte al trasporto umano manuale, anzi a spalla. Ogni coppia di portatori è dotata infatti di un robusto fusto di bambù, le cui estremità vengono poste a bilancere sulla spalla. In mezzo è appeso un sedile approssimativo dove prende posto il trasportato e così, lentamente, faticosamente, inizia la salita, scandita dal passo ritmato dall'esperienza e dal dondolio ansimante dei portantini. Saggiamente la coppia è formata da un piccolo che sta avanti per pareggiare berlusconianamente la statura con quello che segue, ma non dovete pensare a giovani nerboruti abituati a sostenere senza sforzo delle ciccione ricoperte di sari colorati. Il bisogno (e la dieta) in effetti, costringe a questa attività degli omarini di magrezza inquietante che danno l'impressione di esalare ad ogni passo l'ultimo respiro. Questo non pare commuovere affatto i buoni e ricchi indù che vogliono raggiungere la vetta, i quali, anzi, con noncuranza sembrano incitare i portatori a muoversi con maggiore alacrità. Fatto sta che ogni cinquantina di gradini ci si ferma per una breve sosta. Gli omini appoggiano gli estremi del bilancere sul tripode di robusti bastoni che servono loro anche per sostenersi nel cammino (sarà da qui che è nata la moda di camminare con i bastoncini?) e tirano il fiano. Era l'86 e casualmente in quel tempo questo numero corrispondeva alla mia massa in kg. Alla prima sosta i miei due ansimavano come mantici. Il sudore colava lungo le schiene dal colore del cuoio battuto come se piovesse; le pupille dilatate faticavano a mantenersi nelle orbite nell'afa opprimente. Si tolsero la pezzuola che tenevano sulla spalla per evitare l'attrito e solo allora mi accorsi con orrore dei due grossi lividi violacei che occupavano tutto l'incavo sulle clavicole dei miei due, così come a tutti quelli che ci circondavano ansanti. Scendemmo subito dai bilanceri e versammo il compenso pattuito per la salita al monte, tra i dinieghi timorosi di non essere stati sufficientemente confortevoli. Se ne tornarono indietro, i nostri, senza ben comprendere, spiaciuti di non essere stati apprezzati, ma pronti per altri clienti. Così a noi toccò l'onere della salita dei rimanenti 7950 scalini. La giornata fu molto pesante ed il bramino che, tra i mille templi ci impose il punto rosso sulla fronte, mormorò parole meditate, forse di comprensione, forse di pietà, prima di raccogliere l'obolo e sparire tra le mille antiche colonne di pietra scolpita.

4 commenti:

ParkaDude ha detto...

[cancella il post qui sopra che' partito per sbaglio!]

Da ateo di ferro, anche io sono attratto dalle manifestazioni di religiosita', collettive e non. Leggo le cose che scrivi e mi metto a sognare e pensare. Poi mi chiedo: per quanto uno sia bravo a raccontare e descrivere e ragionare (come sicuramente tu sei), quanto resta di impossibile da dire? Quante informazioni implicite, che passano attraverlo la pelle, il sangue e l'inconscio, restano fuori dal racconto? In India non ci sono (ancora) stato; per certe cose non bastano le parole, devi metterci la testa dentro e non c'e' racconto che tenga...

PS ovviamente la parte sui portantini e' imperdibile :D

Enrico Bo ha detto...

Ma certo, hai completamente ragione. Quando rileggo i post mi sorprendo spesso per la povertà di sensazioni che mi dnno, paragonate a quelle che avevo in testa nel momento in cui lo pensavo. D'accordo a scrivere bisogna anche esser capaci, ma come è poca la parola confrontata con la realtà!
Tieni anche conto che inoltre il mezzo impone anche un minimo di stringatezza, visto che vengo continuamente accusato dai miei amici esperti di comunicazione di sbrodolare troppo, visto che per essere efficaci sembra necessaria più concisione, più rigore. Niente da fare, abbiate pazienza, ma non ci riesco proprio.

Martissima ha detto...

meno male che non ci riesci...io ne sono contenta ;-))

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Stesse sensazioni all'abbazia di San Romedio (val di Non, TN), portantini esclusi. In compenso c'è la buca degli orsi bruni. Un posto magico anche per gli ateacci come me.

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