Visualizzazione post con etichetta frumento. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta frumento. Mostra tutti i post

sabato 29 giugno 2013

Campi di grano.



Ho voglia di andar per campi. Chissà, l'estate col suo caldo duro e un po' soffocante dovrebbe indurre alla meditazione sotto il pergolato, che noi chiamiamo topia, un dialettismo colto, visto che il governar la forma delle piante vien detta appunto arte topiaria; invece ho nostalgia di campi riarsi di sole crudo, che picchia sul collo e impone una qualche sorta di cappelluccio. Tutto quel mare di spighe dorate e riarse, leggermente ritorte nella direzione del vento o rosse, quasi bruciate, se d'altra cultivar senza pruina protettiva, immobili e ferme quando non tira più nemmeno un refolo di vento. Dappertutto è quasi giunto il tempo, addirittura nella Fraschetta, terra seccagna e povera, qualcuno ha già cominciato a mietere. Come una puerpera al compimento dei suoi giorni, stan lì in attesa della grande macchina che verrà ad ingoiarle, ingorda, a mangiare tritando il tutto, a battere, a scuotere, a sgranare e poi a separare tutto il possibile, la granella dalla paglia, lasciata cadere così quasi con disprezzo a terra in lunga e umile fila, ad aspettare che altri con calma raccolgano anche quello, che nulla vada perduto. Ho amato quei campi, mi han sempre dato un senso di ricco, di opimo, di fianchi larghi e robusti, icone corrette di una Cerere creata con giusta ragione, quadro esplicativo dell'ingordigia affamata del contadino, perennemente in bilico, sempre sul crinale tra abbondanza bramata e temuta carestia, da allontanare con gli scongiuri di una religiosità sincretica più prossima alla superstizione, assai blandita o tollerata comunque da un clero sapiente che conosceva i suoi polli. 

Cammini adagio lungo il fosso che delimita il campo, immensa tavola piana, meraviglia dell'ingegno umano, espressione innaturale e magnifica com'è l'agricoltura nella sua essenza profonda, artificio inesistente nato da considerazioni millenarie, miglioramenti così lenti e graduali da sembrar frutto di naturali cambiamenti. Pur nella sua immobilità, par di sentire un lievissimo clangore, quando milioni di ariste, rese ormai dure e quasi metalliche dal loro seccume, nella rigidità della morte, paiono sbattute tra di loro dal piccolo spostamento dell'aria quasi ferma. Un suono inavvertibile di cembali pagani, che frangono il silenzio spesso del mezzogiorno. Le spighe turgide, se le guardi attento, fanno fatica a rimanere in alto sui culmi esili e secchi anch'essi, induriti ma fragili, pronti a frangersi come vetri al primo impatto del nemico. Eppure son lì, piene all'inverosimile di cariossidi gonfie e dure, al cui interno il latte della primavera ha lasciato per strada umidità ed umori per mutarsi in glutine denso e quasi vetroso a formare un chicco dalle rotondità piene, divise dal taglio centrale deciso, sensuale e categorico al tempo stesso. E' un quadro come non potrebbero essercene altri a rappresentare l'abbondanza, in ogni tipo di cultura partita dalla terra, non quella fasulla di chi la campagna l'ha letta sul libro e se la raffigura come un'Arcadia dai toni sfumati tesa a ricercar solo sfumature di sogni, di mani nodose e di teste basse, di rimpianti di un passato mai esistito, di esaltazione di ipotesi parateologiche e di rovinevoli economie del niente. E' immagine di concretezza che valuta positivamente il solido, il concreto, rifuggendo da mode che appena si diraderà il fumo del nulla che le ha create, si accartocceranno sulla loro stessa fuffa. Come scalda l'animo un campo di frumento maturo per la trebbia! Non fosse altro per quanto picchia il sole e son senza cappello.    


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:


mercoledì 11 luglio 2012

Mietitura.

Stoppie di frumento.


Era rimasto l'ultimo. Ancora una decina di giorni fa, si confondeva nell'oro ramato degli altri campi di grano che lo circondavano nel falsopiano prima delle colline. Spesse, dense coltri di spighe, così vicine da tenersi in piedi l'un l'altra nonostante il carico di granella di cui erano orgogliose portatrici. Anche se col passare dei giorni, il capo chinava sempre di più, in quella fatica di vivere che sapeva essere vicina alla fine. Ma una fine gloriosa, ricca e ferace, piena di promesse e di orgoglio. Ogni campo, con una sua sfumatura leggermente diversa, con tutte le componenti dell'oro, a seconda delle varietà, così tante e differenti che l'intelligenza dell'uomo ha saputo creare in barba a chi, non conoscendo, pensa che il miglioramento genetico produca perdita di diversità. Qualcuna chiara, quasi bianca come la carta preziosa, altre del rosso acceso che la secchezza ha ormai avvinto, altre ancora quasi rosate per il sottile strato di pruina che avvolgeva le glume. Lunghe ariste a formare un tappeto sconfinato o corte spighe tozze e quasi nude, con la punta squadrata o invece aguzza ed elegante, altre ancora quasi deformi al centro per le cariossidi soprannumerarie che ne rigonfiano la parte centrale. Ma ormai il tempo era arrivato al termine ed i miliardi di cariossidi erano ormai pronte, secche al punto giusto per permettere di essere conservate, asciutte ma non avvizzite, anzi rotonde grasse, ricche e pesanti. Così ad uno ad uno, la grande macchina gialla, li ha ingoiati, quei campi rigogliosi. Con metodica ma implacata lentezza la larga bocca dalle lunghe zanne ingorde, è entrata impietosa a compiere il suo dovere. 

Taglia aspira frantuma dividi e poi ancora sgrana separa vaglia ripulisci ammucchia e avanza sempre alla stessa velocità, guadagnando terreno e spazio, facendo scomparire nel grande ventre la messe e lasciando dietro di sé soltanto l'andana diritta della paglia sminuzzata. Poi quando la grande bestia si sente piena, eccola correre al limitare del campo come un commensale della mensa di Trimalcione, mai sazio di piaceri, enfio di cibo, ma voglioso di averne ancora, a liberarsi vomitando quanto ingoiato ingordamente nel carro in attesa. Così a poco a poco se le è divorate tutte, le immense tavole gialle di spighe arcuate dalla canicola estiva. Era rimasto solo lui, quel grande campo quadrato al limitare della strada lunga e diritta, lontano da case e da capannoni fastidiosi. Dietro, una vigna verde e giovane risaliva la collina con promesse autunnali. Sembrava quasi che se lo fossero dimenticato, così isolato, sebbene ricco e gremito di spighe chiare dalle lunghe ariste che fremevano alla brezza, forse Centauro, forse qualche nuova varietà che io più non conosco. Ieri sono passato e quasi non l'ho riconosciuto il posto. Il destino si era compiuto. Il campo spoglio era disegnato dalle andane gonfie di paglia tagliata, infinite strisce regolari che disegnavano la geometria del lavoro, la perfezione del progetto. La terra ormai secca e dura che il calore estivo ha reso crostosa e resistente è rimasta ricoperta degli spuntoni gialli degli steli mozzati, duri come spine puntate verso l'alto. Ancora intravedi le file ordinate della semina tra la stoppia puntuta. Un taglio severo che lascia la coperta di una spazzola pungente, come quel barbiere dove mi portava la mia mamma da bambini, che brandiva la macchinetta in una mano e ti afferrava la testa deciso con l'altra, per il taglio estivo all'Umberta. Lontano, in un angolo del campo il grande mostro ormai fermo, ebbro per l'ordalia compiuta. I carri pieni se ne sono già andati al Consorzio Agrario a scaricare, assieme al resto, nel grande mucchio comune. Ricchezza, abbondanza, promesse di farine e di pane e molto altro. La carestia è ancora lontana.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

martedì 24 maggio 2011

Rosso ciliegia.

Gli ultimi giorni di maggio, una voglia di estate, la temperatura che frizzante la mattina, diventa via via sempre più calda ma non ancora fastidiosa, il cielo che comincia a confondere delicatamente i contorni lontani che l'umidità rende un poco tremuli, i campi di grano, dove la levata è ormai terminata, si stendono all'infinito, tavole orgogliose e perfette dell'agricoltura vera, non quella da salotto che raccontano i grassi epuloni slowfoodisti a cui appartengo. Già, i campi di grano. Erano proprio questi i giorni in cui, quando ero sementiero, si percorrevano in lungo ed in largo alla ricerca della messe migliore, quella più adatta, quella più degna di essere usata come riproduzione, per separarla, mondarla e conservarla per l'annata successiva in un luogo lontano dal punto dove è stata prodotta come si conviene ad una corretta pratica agronomica, non quella confusa oggi da giornalai ingnoranti o comprati a cause fasulle da burattinai interessati. Andavamo in coppia, io, del Consorzio che avrebbe acquistato la partita per lavorarla successivamente e un tecnico dell'ENSE, ente nazionale sementi elette, che da decenni si cerca di inserire nella lista degli enti inutili, appunto perchè è uno dei pochi utili davvero.

L'agricoltore, non quel vecchietto finto con le mani callose, il volto bruciato dal sole e la marra di traverso sulle spalle ingobbite che mostrano ogni tanto in televisione, quello vero intendo, un imprenditore che ha deciso per tradizione familiare o per scelta di vita questa attività economica per produrre un reddito con cui mantenere la sua famiglia, ci aspettava sul bordo della sua prioprietà accompagnandoci di campo in campo. Si contavano le spighe fuori tipo, si verificava la presenza di infestanti particolari che non si sarebbero potute togliere con la lavorazione in sementificio, si controllava la rispondenza alla purezza varietale e la distanza corretta da altri campi di frumento inidonei, garanzia per il compratore dell'anno successivo. Poi si tornava in cascina per controllare i cartellini o meglio a far due chiacchiere sull'andamento dell'annata. Dionigi era orgoglioso dei suoi campi. Erano sempre tra i migliori, i più puliti e perfetti. Non una spiga inquinante a inficiare la purezza varietale. Seminava da anni il Libellula, una varietà con una bella spiga affusolata ed ellittica, dalla punta aguzza ed elegante che per la scarsità di pruina, virava presto al rosso vivo, resistente e adatta ai terreni non troppo fertili dell'alessandrino e per questo motivo piuttosto richiesta.

Si chiacchierava un po', ma lui o suo fratello a seconda degli anni, col loro sorriso buono e gentile, sapevano già come si sarebbe svolta la prassi consueta e così come per non parere, tornando verso la macchina, si passava proprio vicino ad una fila di cinque o sei magnifici ciliegi, con fronde maestose che già imponevano la loro ombra rinfrescante. Come per caso vicino ai tronchi era stata lasciata una scala di legno, come in silenziosa attesa. I rami erano piegati sotto il peso della fruttificazione imponente arrivata al suo culmine di maturazione. Giunti lì sotto, si gettava la maschera e sotto invito pressante, eccoci a testa in su, a raccogliere, a razziare, a staccare con furia, ad imbrattarci le mani di un rosso brillante come il sangue, che solo in parte finiva nelle sporte fornite alla bisogna, mentre altra parte veniva ingordamente ingollata con avidità. Che dolcezza, che polpe carnose! Quasi, mettendole in bocca sentivi la buccia che si tendeva prima del piccolo scoppio, mentre l'aroma del liquido profumanto si spandeva fino al palato, pieno e avvolgente. Per aumentare il piacere ce n'erano almeno due varietà. Quelle biancorosse, più sode e dure, ti davano un senso di freschezza raro e pulito, le altre scure, quasi morelle, più morbide e grosse, erano infinitamente dolci e profumate. Quando ebbri ormai dal sabba della raccolta scendevamo dai pioli consunti, Dionigi arrivava con qualche punta di ramo staccato dalle piante, carico fino all'inverosimile dei piccoli frutti. "Dutùr, ch'ai porta a ca' a so mujié" e ce li spingeva in macchina. Quel profumo intenso, quei colori vivi, ce li portavamo così fino a casa.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:
Natura amica.



martedì 2 giugno 2009

Contronatura.

Sono già passati un sacco di anni. Eppure quando comincia giugno, per me è come un appuntamento biologico, un ciclo spaziotemporale che mi prende pian piano, specialmente se, in auto, giro per la campagna. Tanti chili fa, facevo un altro mestiere e ai primi di giugno cominciavano le visite in campo per scegliere il grano da seme. Il segnale lo dava la definitiva sfioritura dei campi di colza che con il loro giallo limone intenso avevano cominciato a tappezzare le nostre colline e anche larghi tratti di pianura (grazie ai contributi naturalmente, lo sapete no che in Europa l'agricoltura esiste solo per i contributi). Com'è intenso il giallo dei fiori di colza. Dura a pieno regime poco più di una settimana, poi i petali cominciano a cadere ed emerge il grigio verde pallido degli steli e delle siliquette che cominciano a gonfiarsi di semi carichi di olio. Quando non c'è più traccia di giallo nei campi vicini, il grano ha ormai terminato la levata e le spighe ormai fecondate iniziano a formare le cariossidi che a poco a poco si riempiono di un liquido latteo che si raddensa mentre la spiga comincia a prendere colore. E' il momento. Per una quindicina di giorni, si usciva con un perito dell'ENSE (Ente Nazionale Sementi Elette, giudicato ovviamente ente inutile e quindi in fase di soppressione, ma non è così facile come sembra, ehehehe) a vedere i campi che avrebbero dato il seme per l'anno successivo. Avete mai osservato con attenzione un campo di frumento prima della maturazione? E' un vero e propio prodigio contro natura. Poche sono le cose più innaturali di questa tavola di milioni di spighe identiche allineate con cura, quasi schiacciate le une vicino alle altre che non lasciano spazio a nulla se non a sè stesse, se non al desiderio di produrre, di massimizzare la resa, di soffocare qualunque alternativa al sè. Tutta la pianta è completamente artificiale, con le sue 60/70 cariossidi che renderanno la spiga, benchè secca, talmente pesante da farle piegare il capo come ad accettare la sua sorte finale. Con le sue molte piccole spighette soprannumerarie ottenute con paziente lavoro di anni dei miglioratori genetici, per renderla ancora più gonfia, più ipertrofica come le mammelle delle frisone così detestate dai giornalisti in cerca di scoop agrobiodinamici. Si vedeva il campo assieme al contadino, che assisteva all'esame orgoglioso della fittezza delle sue creature. "Cosa dice, dottore, se si buttano cento lire non cascano per terra, vero?". Anche più di 800 spighe per metro quadro, una densità impressionante per soffocare qualunque altra erba concorrente, ad aiutare l'uso del diserbo. Tutta opera dell'uomo, che cambia, che indirizza la natura a quello che gli serve, a tirare il massimo alzando continuamente l'asticella. E noi lì a controllare con cura le spighe, ad individuare se i fuori tipo, le spighe leggermente diverse, un po' più alte, con la cima aguzza invece che squadrata, di colore leggermente diverso, con un po' meno pruina a rendere argentate le glume, al massimo una o due al metro, se no via, scartato senza pietà, tra lo sgomento dell'agricoltore che si offriva di mondarle a mano, di entrare sacrilegamente all'interno del campo, immenso, per estirpare le estranee, rendere al prodotto la purezza voluta. La sola che, pur indebolendo la razza, avrebbe garantito ai compratori del'anno successivo una varietà dalle caratteristiche volute, resistenza, uniformità qualitativa e soprattutto produttività. Discussioni interminabili, riconteggi insistiti, tutto per la purezza della razza. Tramandare il seme, una pratica che ha creato l'agricoltura nella mezzaluna fertile e gia allora, forse 10.000 anni fa, il primo uomo che pensò di prendere quei primi semi e tenerli da parte per la stagione successiva invece di mangiarseli, già operò la prima scelta, di prendere i più belli, i più grossi nell'ansia di avere un prodotto migliore. Iniziava la forzatura della natura, nasceva l'innaturalità dell'operazione che avrebbe portato questo organismo parassita del suo corpo ospitante a moltiplicarsi più rapidamente, ad occupare sempre più pervasivamente l'ambiente che lo contiene man mano che aumentava la sua capacità di procurarsi i mezzi per il suo sviluppo e rilasciando, come logico in ogni ciclo, questo sì, naturale, le scorie che a poco a poco il pianeta non riesce più a neutralizzare con il suo potere tampone. D'altra parte, questo è il vero e reale andamento "naturale" , i virus, controllati dal corpo ospitante, quando riescono a trovare il modo di moltiplicarsi, lo fanno in modo esponenziale, fino a far collassare il loro substrato; per vivere, lo uccidono scomparendo anch'essi nel climax definitivo. Sono essi colpevoli?

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!