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venerdì 11 dicembre 2009

Rossetti ed acqua minerale.


L'inverno russo è un po' un limbo perenne, in cui si passa dal buio poco illuminato della notte ad una penombra lattiginosa che dura poche ore, sempre ovattata dal bianco sporco della neve che attutisce ogni rumore, in particolare allora, quando il traffico era scarso. Anche se tutta la città era servita di teleriscaldamento, quei pochi mezzi circolanti ammorbavano l'aria. Avevi senpre in gola uno sgradevole sentore di cattiva benzina bruciata male. Tutto questo ottundeva alquanto i sensi, creando un certo torpore che leggevi chiaro negli occhi dell'umanità che, nonostante il freddo, affollava i marciapiedi, la mattina per andare sul posto di lavoro. Questo non significava certo andare a lavorare, sono due concetti radicalmente diversi. In quel periodo infatti, era luogo comune dire che lo stato faceva finta di darti uno stipendio e tutti facevano finta di lavorare. Procurarsi qualunque cosa era un po' un percorso ad ostacoli, in cui valevano solo le conoscenze, delle persone giuste e delle giuste modalità. Qualunque tipo di biglietti, sia per i trasporti che per gli spettacoli o l'ottenimento di visti o permessi, prevedeva il contatto con persone misteriose che, pagando il giusto, ti procuravano il tagliando desiderato. Così dovemmo rinunciare al viaggio previsto ad Alma Ata, non avendo in tempi utili, il visto necessario. La notizia ci giunse da Zhenija, che in pratica fungeva da trovarobe, mentre andavamo ad un importante incontro di rappresentanza al ministero del commercio, dove un personaggio di peso ci attendeva in una enorme salone con classica scrivania sovietica a T, tra un andirivieni di ancelle recanti thé e misteriosi fogli dove lui, con noncuranza, dopo aver gettato un'occhiata, vergava uno scarabocchio. Quello era certamente un uomo di peso (almeno 150 kg) in classica grisaglia, che scese dal trono per abbracciare e baciare il tenero Ferox, cercando di metterci a nostro agio. Di certo, l'accreditamento ed i precedenti della nostra azienda, che era una delle pochissime, allora, ad avere un accreditamento ufficiale, aiutava, ma, come mi fece poi notare Ferox, si avvertiva un certo qual cambiamento nella condiscendenza con cui il mammasantissima ci trattava stavolta. Si complimentò per le nostre realizzazioni e mentre si parlava del più e del meno, non perse occasione per far scivolare tra le pieghe del discorso la sua famigliarità con Craxi, De Michelis e compagnia bella. La prendemmo come un cambiamento dei tempi ed in ogni caso ci diede interessanti dritte su nuovi contatti da prendere. Il suo occhio era vivo e attento, a dispetto della mole, come di chi sente il branco di iene che ha ormai circondato la tana del vecchio leone in difficoltà e ha ben compreso che è il momento di cercare nuove piste su cui svicolare per evitare i pericoli e rimanere a galla nella battaglia di potere appena scatenatasi. Ce ne andammo dopo un'oretta. In ufficio ci aspettavano, anche se avevamo cercato di evitarle, altre due iene, i padroni dell'appartamento, una coppia che nella privatisazija, da inquilini ne erano rimasti proprietari con un riscatto nominale. Trasferitisi in una piccola dacia nei dintorni di Mosca, campavano dell'affitto ed ogni mese arrivavano come sanguisughe richiedendo un aumento delle prebende che superavano ormai ampiamente i 2000 dollari. Un vero furto. Sembava una coppietta di tranquilli pensionati dediti alle pratiche dell'orto, invece seduti dietro il tavolo della cucina, non mollavano l'osso, sapendo che ci eravamo ormai impiccati con la nostra stessa corda, avendo completamente ristrutturato a nostre spese i locali. Pretesero altri 200 dollari adducendo inesistenti spese di manutenzione, pena lo sfratto immediato. Temendo l'arrivo dei picciotti, Ferox aderì obtorto collo al taglieggiamento e i due banditi se ne andarono a braccetto, dondolandosi lungo le ampie scale imperiali al buio, essendo rotto l'ascensore e tutte le lampadine rubate. Risolta la pratica andammo all'aereoporto ad accogliere R. che arrivava dall'Italia carico di materiale. Anche qui bisognava conoscere le segrete strade. Trovata infatti una vecchia amica che apprezzò particolarmente la scatola di Rocher Ferrero che avevamo casualmente con noi, ci fu permesso di entrare nelle aree speciali dove facemmo transitare facilmente tutto il materiale, evitando pratiche burocratiche infinite che, nella maggior parte dei casi si traducevano nel sequestro di parte della merce. Ansiosi di saper le ultime notizie italiane arrivammo in ufficio appena in tempo per sentire il ticchettio del telex che batteva due fondamentali notizie. La prima ferale, comunicava che l'affare degli stampi per i rossetti ed i mascara su cui speravamo tanto era sfumato a favore di una ditta coreana, l'altra, che da una finanziaria canadese erano arrivati i soldi per la prima linea di riempimento di acqua minerale e che il contratto poteva partire senza altri indugi. Grandi festeggiamenti; dalla cucina Angela arrivò con una cofana di spaghetti appena scolati, il parmigiano, appena arrivato dall'Italia, come se piovesse e lo stappo di una bottiglia di champagne (bulgaro) segnò il successo dei nosti sforzi. Ma le valigie erano pronte, dopo due ore eravamo già all'aeroporto secondario di Domodiedovo dove un rabberciato Ilijushin ci avrebbe portato prima di sera a Ekaterinburg che, anzi ancora si chiamava Sverdlosk.

giovedì 28 maggio 2009

Bollicine 3: non di solo pane...

Tirato per i capelli da un gruppo di fedeli lettori, ormai appassiona-tisi alla saga dello champagne degli Urali, vado a stendere la terza e ultima puntata, un prequel che illustra la fase preparatoria della spedizione dei materiali e i fatti immediatamente successivi. Infatti, come si suol dire, è facile firmare i contratti e incassare i milioni di dollari, il problema è che poi qualcosa che funzioni bisogna pur spedirlo e montarlo, se no, non ti lasciano tornare a casa. Mettere insieme un impianto di queste dimensioni, assemblando macchine comprate in mezza Italia, non è semplice e la logistica della spedizione, una volta affittati i giganteschi Antonov che dovevano contenere nei loro ventri capaci delle preziose attrezzature che avrebbero trasformato il vinotto di Crimea, opportunamente sposato ad acqua, alcool, aromi e CO2, in nettare frizzante, prevedeva la formazione di una brigata di una ventina di tecnici montatori al seguito. Questo gruppo disomogeneo, ma motivatissimo dai racconti di qualche veterano, sulle delizie che avrebbero lenito la permanenza sul suolo della Santa Madre Russia, era formato da un gruppo di veneti, alcuni emiliano-lombardi e uno zoccolo duro di piemontesi dell'area del moscato, coordinati da una Stefi motivata al massimo. Ma, come sa chi si è occupato di maestranze in terrae incognitae, per tenere alto il morale della truppa, oltre alla promessa delle delizie di cui sopra, sono necessarie delle razioni di sussistenza che, calmando lo stomaco, rendano più fioco il richiamo della patria lontana. E' quindi vitale aggiungere alle macchine, uno o meglio due bancali di materiali mangerecci tipici, montagne di spaghetti (n.5), sughi e salumi, proporzionati alla durata presunta della permanenza in cantiere. Stefi, pur vecchia del mestiere, era opportunamente stimolata dal capo cantiere, un gentile personaggio a cui Pecèèètto Torinèèse aveva dato i natali, oltre ad un fortissimo accento gianduiofono, il quale, inviato a controllare la chiusura definitiva delle gigantesche casse che contenevano l'intera linea (si dimentica sempre qualcosa), arrivò in ufficio di corsa a chiedere udienza con occhio umido. Era il momento più temuto, forse mancava un pezzo importante della gabbiettatice o i ricambi della nastracartoni o la mano di presa del depallettizzatore o peggio di tutto, il famoso carrello dei ferri, un pozzo di San Patrizio di chiavi inglesi di ogni tipo, chiavi a pappagallo, tirabulloni del 12 e ogni altro ben di Dio da officina che era proverbialmente guardato con bramosia feroce dalle maestranze locali e che, al termine del montaggio, per tradizione, veniva lasciato rubare per un tacito accordo, previsto nel caso nulla fosse stato rubato prima. Ma c'era tutto, qual'era la mancanza dunque? Il nostro pecettese si avvicinò e con cortesia, ma a bassa voce, per non disturbare troppo esalò: "Ma, Stèèèfi, non abbiamo pensato al parmigiano". C'era, c'era naturalmente, una mezza forma che per sfuggire agli occhiuti doganieri era stato sapientemente occultato da Pavarotti (vi ho parlato precedentemente di questo buon Reggiano) all'interno del Cip, un grande contenitore di acciaio che era stato opportunamente riempito anche con centinaia di bottiglie di lambrusco, carburante indispensabile ed apprezzato anche dalla schiera veneta e celate con cura in anonimi cartoni perchè non sbattessero troppo. Gli aerei decollarono portando con sè anche i due tecnici delle etichettatrici, al battesimo del volo, ben legati nei seggiolini tra le casse. Uno in particolare, di giovane età e di poca esperienza, si rifiutava assolutamente di partire ed era stato convinto dopo un testa a testa con un veterano che gli aveva illustrato con dovizia di particolari i lati piacevoli della terra degli zar; al termine fu dura costringerlo a tornare a casa, ma i giovani si sa, son facili agli innamoramenti improvvisi. Effettuato lo sbarco, prese le teste di ponte possesso del territorio, sfuggite le masserizie principali agli uomini della dogana che si aggirarono per un paio d'ore alla ricerca di qualcosa di interessante, sviate da una Stefi ormai usa a questi depistaggi, si prese possesso del campo di lavoro, dove gli acquirenti avevano pensato a tutto per redere più gradevole la permanenza agli amici italiani, incluse due toilette nuove di zecca rivestite di piastrelle e sanitari provenienti direttamente da Sassuolo. Purtroppo, il primo giorno di lavoro, uno dei dei componenti della brigata dei muratori russi, non conoscendo l'uso del suddetto ambiente, riempì entrambi i buchi di cemento a presa rapida, vanificando il bel gesto di benvenuto. Per tutto il tempo si dovette quindi utilizzare il locale raffigurato a lato, tirato su in fretta e furia, mentre per i primi giorni ci si dovette arrangiare alla belles etoiles. Il vantaggio fu che le permanenze in loco erano brevissime per evitare di cadere tramortiti nella cavità. Del muratore non si seppe più nulla, né nel gulag dove ancora oggi probabilmente sverna.

martedì 19 maggio 2009

Bollicine 2: la vendetta.


Il contratto fu firmato e allora via, in giro per l'Italia a cercare le acconce autoclavi, filtri, mixer (appunto per mescolare acqua, vino e alcool), un impianto completo per purificare l'acqua, un laboratorio analisi, riempitrice gigante isobarica, etichettatrice, depallettizzatore per le bottiglie vuote e pallettizzatore per quelle piene e così via cantando. In pratica dalla pressa e stampo per fare il tappo (rigorosamente di plastica) al pallet di cartoni di bottiglie avvolto di cellophan. Un impianto colossale, che data la fretta (ci misero mesi a decidere, ma poi vollero tutto e subito) doveva essere spedito via aerea. Pensate a tre colossali autoclavi che a malapena stanno su tre TIR! Ci vollero due enormi Antonov (tipo quello che cadde a Torino) che portavano cadauno l'equivalente di 12 camion (o 8 carri armati a scelta) e un Iliuscin più piccolo con le macchine minute che partì da Genova con un piccolo gruppo di tecnici. Ricordo Stefi nel posto del mitragliatore quello tutto di vetro sotto la carlinga e poi sotto una scaletta di legno che portava alla stiva, e Beppe su un sedile di fortuna di fianco alle reti che trattenevano le casse con la 24 ore sulle ginocchia, come un para in attesa del lancio su Guadalcanal. Solo il saturatore per produrre CO2 (per le famose bollicine) dovette essere inviato via terra, sugli aerei non ci stava. Lo stabilimento che avrebbe ospitato l'impianto era colossale, pari a 22 campi di calcio coperti; pare avesse ospitato una fabbrica di carri armati, ma nel disfacimento sovietico bisognava produrre roba più utile e le bollicine sono particolarmente richieste tuttora in Russia. Il nostro impianto pur enorme, sembrava sorprendentemente piccolo, quasi perso in quegli smisurati saloni in cui si concludeva la ristrutturazione. Mentre sorgeva a poco a poco e le macchine prendevano forma, la brigata delle muratrici sovietiche finiva di imbiancare i soffitti; le ragazze, in gran parte di generose dimensioni, appese precariamente con corde come salame da sugo, agitavano i lunghi pennelloni schizzando a destra e a manca i nostri valenti montatori, distratti soltanto da quelle di forme più umane che passavano con le latte strabordanti colore come le occhiate infuocate che lanciavano in tralice transitando tra motteggi misurati. La linea pian piano prese forma; infine, a macchine pronte cominciò a scorrere il liquido vitale, il nettare prezioso ragione stessa della fatica, preparato con cura e inviato verso la sua destinazione naturale, la bottiglia. Ai nostri uomini vennero dunque affiancate le maestranze locali per addestrarli alla conduzione delle macchine. Precisato che il prodotto in questione era ed è perfettamente conforme alla legislazione russa in materia, il suo cammino verso la bottiglia è giocoforza lungo e tortuoso. Dopo la lunga e accurata preparazione (le famose 12 ore in autoclave) i prodotti erano amorevolmente mescolati, aggiunti di zucchero, aromi e bollicine per andare direttamente alla riempitrice. Ora, è risaputo il rapporto di amore e fratellanza che lega queste genti della steppa ai liquidi di ogni genere con percentuali alcooliche, per cui il cannello di pescaggio della riempitrice agiva come un richiamo irresistibile per alcuni di loro, specialmente i più vicini. In particolare l'addetto all'etichettrice, di tanto in tando riteneva indispensabile controllare la costanza di flusso alla macchina, che come si sa non è bene far girare a vuoto, e transitava con costanza nei pressi della stessa succhiando dal cannello per assicurarsi della presenza di liquido. Certo dopo poche ore il rendimento del suo lavoro diminuiva verticalmente e il numero dei suoi controlli aumentava in proporzione. Preso più volte ed ammonito col cannello in bocca, mentre guardava con occhi spalancati a dire che doveva pur controllare che tutto fosse in regola, fu licenziato con disonore, ma dopo poco obbligammo il direttore, preso anch'egli in un rarissimo momento di lucidità, a riassumerlo in quanto era l'unico che aveva capito il funzionamento dell'etichettatrice, macchina delicata che vuol essere trattata da mani amorevoli e competenti. Comunque a poco a poco il progetto andò in porto, le bottiglie arrivavano, i tappi erano stampati, l'acqua depurata, lo "champagne" prodotto, i cartoni costruiti, riempiti di bottiglie, nastrati e pallettizzati, mentre nel cuore dell'impianto, il riempimento, l'ideatore della macchina, un caro amico, che ormai da qualche anno riempie bottiglie per chi non ha più sete (ma anche lì avra trovato qualcosa da imbottigliare spero), chiamato dai russi Pavarotti per la sua somiglianza strutturale, dirigeva l'orchestra dettando i tempi ed il dipanarsi dei ritmi musicali del flusso ininterrotto delle bottiglie. Che suono avvolgente. Il tintinnio delle bottiglie che incolonnate, sbattendo leggermente tra di loro si avviano alle macchine col sottofondo ritmato della pressa che snocciola tappi; il nastro scivoloso che avvia i soldatini al riempimento, mentre il liquido, spumeggiante appunto, fluisce festoso al serbatoio della macchina che in un continuum spazio-temporale, lava, riempie e tappa. Poi la schiera prende un altro ritmo, più concitato, prima la gabbietta, poi il capsulone poi lunetta, etichetta e controetichetta, mantre a lato il suono profondo della formacartoni allarga, forma, inserisce, infine colma di bottiglie e porta al gran finale rossiniano dove tutto si fonde nella sinfonia del grande pallet che ruota vorticosamente avvolto e infine deposto assieme alle centinaia di suoi fratelli nel grande magazzino in attesa di essere caricato. Il lavoro era finito ed emergeva uno dei problemi principali dell'impresa, i furti. Così l'azienda aveva previsto 50 uomini per la produzione e 150 per la security e ogni sera, quando il bus ci riaccompagnava in albergo al passaggio del gate, barriere e filo spinato con sentinelle armate, veniva perquisito in cerca di preziose bottiglie fraudolentemente carpite dagli amatori. Festeggiammo a lungo in albergo anche se la prima bottiglia stappata, quasi provocò una vittima. Le bottiglie infatti, provenienti da una vetreria del Caucaso (altri 3000 km di viaggio) avevano un collo di dimensioni alquanto variabili ed i tappi erano venuti un po' troppo grossi, così che quel maledetto primo tappo non voleva venir fuori a nessun costo, per quanto mani robuste tentassero di estrarlo. Poi, a forza di scuotere qella benedetta prima bottiglia, il manufatto plastico partì come un proiettile ed passando dalla finestra aperta andò a colpire un passante sul marciapiede opposto che, benchè offeso fu convinto a non sporgere denuncia in nome dell'amicizia internazionale. Bollicine a fiumi quella notte, il nettare sublime era stato chiamato Monferrat, come recitava l'ambiziosa etichetta e pare che, specie nella versione alla banana, circoli ancora nella Russia liberata dalla tirannide.

lunedì 18 maggio 2009

Bollicine

Le quattro del pomeriggio di febbraio a Mosca, significano già notte fonda. Un buio un po' caliginoso, non tossico per i camini, chè il caldo viene totalmente distribuito in teleriscaldamento, ma per il cattivo carburante incombusto delle auto, attutito dalla luce giallastra e fioca dei lampioni ottocenteschi. Così tra radi fiocchi di neve, mentre discutevamo animatamente della fiera conclusa da poco, suonò alla nostra porta Victor. Aveva un cappottino liso che sembrava difenderlo poco dal vento gelato che tirava in Vortnikosky Periulok, ma non sembrava soffrirne mentre entrava, scrollandosi di dosso l'umidità e sbattendo gli scarponi inzaccherati dopo aver attraversato il cortile pieno di auto Zhigulì arrugginite. Ci guardò un po' di sbieco con uno sguardo interrogativo, ma era una falsa impressione data dagli occhi alquanto divergenti tra di loro. Si sedette dopo i saluti di rito e venne subito al dunque. Avendo avuto informazione da amici, che la nostra era una karoshaija firma, una buona azienda, leggesi affidabile in quel periodo, era stato incaricato di richiederci un' offerta per un grosso impianto. A quel tempo, per una azienda a Mosca, non era importante quale tipo di impianti facessi, bastava sapere che tu facevi impianti in generale. Anche se la dimessa figura che avevamo davanti non prometteva molto, ci predisponemmo ad ascoltarlo di buon grado, anche se la necessaria premessa "Dienghy iest", i soldi ci sono, che era stata immancabilmente pronunciata, data la sua ovvietà, non garantiva come sempre che poi ci fossero davvero. Veniva da Celijabinsk, una grande città siberiana al di là degli Urali. Partì subito con decisione. "La nostra azienda vuole un grosso impianto completo per fare lo Champagne" e come per aggiungere il carico da undici, proseguì : "24.000 bottiglie all'ora". La richiesta cadde nel silenzio, mentre valutavamo l'ennesima perdita di tempo, quindi, essendo l'unico che, in base alle esperienze pregresse e non solo per averlo bevuto, aveva un minimo di conoscenze enologiche, cercai di spiegare che produrre champagne non è una cosa semplicissima e che, come prima cosa, bisognava avere le uve a disposizione. Prima ancora che cercassi di spiegare le problematiche del remouillage e del degorgement, abbinate ai kilometri di cantine necessarie a quella produzione di circa 200 milioni di bottiglie all'anno, mi guardò con il tono commiserativo dell'esperto e per zittire subito le mie remore, estrasse un fogliettino dal taschino della giacchetta di pelle nera e, con la gravità che i russi usano quando vogliono dare ufficialità alle richieste, pronunciò la famosa frase: "No, è piuttosto semplice, un mio amico mi ha anche dato la ricetta". Allungammo il collo verso il centro del tavolo per ascoltare meglio e spiegato il foglio di quaderno emersero le seguenti indicazioni. "50% vino, 12% alcool, acqua q.b. (quanto basta), zucchero, aromi, perchè lo vogliamo anche alla frutta, alla banana, alla ciliegia, ecc. e anidride carbonica per le bollicine, perchè lo sapete che lo champagne deve avere le bollicine per essere buono, no? E noi vogliamo fare un prodotto di qualità." Mentre cercavo di riprendere fiato, aggiunse anche che per il vino non c'erano problemi, certo , negli Urali non c'erano vigne, ma lo avrebbero comprato a treni interi da certi amici in Crimea e ci schiacciò l'occhio, quello che guardava un po' più a sinistra, con fare complice. Pensando che la fermentazione in autoclave del peggiore Charmat richiede tra i trenta e quaranta giorni, gli chiesi a quanto avevano pensato per questa fase, per calcolare la capacità dei contenitori, data la ingente quantità di prodotto. Dodici ore, rispose con la noncuranza di chi sa le cose e cerca di farle entrare in zucca ai poco informati e calcando aggiunse: "Io sono l'enologo". Capimmo allora che si poteva fare. Nacque così, quasi per caso, condito di incredulità, il più grosso contratto della nostra azienda nelle gelide terre del nord. Una avventura densa di ulteriori aspetti esilaranti che magari racconterò in un'altra puntata e che ci fu di grande insegnamento. Il cliente, se paga, specialmente se paga in anticipo, ha sempre ragione.

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