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sabato 12 settembre 2009

Una lettura dei tarocchi.

C’era un posto straordinario a Pekino, lo Xue Shue Market, una minuscola traversa della Chang An, la grande arteria che attraversa da est ad ovest tutta la città passando davanti alla piazza Tien An Men, vicino alle ambasciate. Quando ci passavi davanti quasi non la vedevi, con lo stretto ingresso quasi otturato da tre o quattro grossi negozi. Al di la del varco, un vicolo lungo qualche centinaio di metri che si biforcava a metà, lungo il quale, uno vicino all’altro si affastellavano in una sequenza infinita una serie di bugigattoli larghi non più di due metri, con le entrate quasi otturate da cascate di merce taroccata di ogni genere e tipo. Una scia di folla continua, a due per due, ché la dimensione del vicolo non permetteva di più, sfilava davanti ai negozietti lentamente, osservando, valutando, scegliendo, contrattando con il tizio o la tizia che emergeva, quasi sepolto dalla sua stessa merce in vendita. Tutte le più importanti marche del mondo erano esposte con ordine e pignoleria, dall’abbigliamento, alle calzature, agli occhiali, alle borse, agli accessori, ai foulard, agli orologi. Qualunque cosa che nel mondo fosse valorizzata da un qualsiasi tipo di griffe, vi era rappresentata in ogni modello più noto e conosciuto. Era il regno della contrattazione accanita. Venivi prima invitato a verificare la qualità del prodotto, poi partiva la richiesta esosa (sempre ridicola in termini assoluti, tipo 68 euro per una giacca a vento North Face) che terminava invariabilmente per 8 o 80, che porta fortuna e cominciava il balletto dei ribassi, delle disperazioni del venditore che doveva sfamare la famiglia, le finte fughe del compratore che veniva invariabilmente richiamato con un ulteriore ultimo sconto; poi a poco a poco offerta e richiesta si avvicinavano fino ad incontrarsi, meglio se avevi una qualche dimestichezza con un po’ di cinese, i numeri almeno e le parole fondamentali come tai quei la (troppo caro) e te ne andavi col sacchetto nero pieno del tuo bel tarocco a dieci dollari. In realtà c’erano diverse fasce qualitative nel taroccamento, da quelli di alta fascia, in pratica gli originali che uscivano dalle fabbriche che facevano le stesse cose, incaricate dalle griffe autentiche che inviavano i materiali veri per risparmiare sul costo del lavoro e che quindi si autopunivano con le loro stesse mani, a copie via via più scadenti a volte addirittura commoventi, come quella maglietta che portava scritta davanti la dicitura LENTINO GARAVA. Mi confessò il venditore che la sua fabbrichetta copiava dalle foto delle riviste e in quel caso non avevano capito che il capo vero era siglato Valentino Garavani, ma nella foto i due estremi non si vedevano e loro non sapevano neanche chi fosse. Altri offrivano tutta la serie di orologi da tre a trenta euro per i Rolex meccanici, i più belli, disapprovatissimi dal mio amico Ping che sfoggiava invece un Rado da 2000 dollari; le cinture venivano via ad due euro, mentre all’ingresso del vicolo, un gruppo di donne vendeva le T-shirt Lacoste a un euro l’una cercando di bloccare i clienti prima che entrassero nel budello. Più avanti, in una casetta a due piani, dei veri e propri negozi che offrivano merce più sofisticata, alcuni venditori cercavano di dare un loro proprio design per vestiti offerti con il loro marchio cinese, roba piuttosto creativa secondo me, che di massima, gli occidentali obnubilati dal tarocco snobbavano senza pietà. Questo luogo è sempre stato una spina nel fianco per le griffes mondiali che hanno cercato di farlo chiudere in ogni modo, non comprendendo scioccamente che ti si copia solo se vali qualcosa, che la copia è un tuo messaggio pubblicitario gratuito, che chi compra il tarocco non compra l’originale, quindi le vantate perdite sono in realtà inesistenti, anzi chi compra oggi un Rolex a 30 dollari, quando se lo potrà permettere sarà il primo acquirente di quello da 3000. Se io avessi una griffe sarei molto preoccupato se nessuno me la taroccasse. Poi qualcosa è accaduto, il progresso avanza, la stradina è stata cancellata, al suo posto un palazzone di sei piani, il Silk Palace, enorme, in cui trovavano posto gli stessi negozietti a costi un po’ superiori a cui le griffes mondiali coalizzate finalmente hanno fatto causa, vincendola. Adesso, mi dicono che tutte le merci esposte, le stesse di prima, hanno etichette cinesi; per avere il tarocco, devi faticare parecchio, poi qualcuno lo tira fuori con aria complice da sotto il banco, naturalmente a prezzo raddoppiato e la magia se ne è andata a farsi friggere. Poco per volta anche il regno di mezzo verrà omologato.

mercoledì 4 marzo 2009

Детский мир

C'è un altro luogo che ho particolarmente amato a Mosca. Nelle bigie sere invernali, dopo il lavoro, specialmente se stavo al Rossia, l'orribile (in)cubo di cemento di 7000 camere sotto San Basilio, quando avevo voglia di fare quattro passi prima di cena. Attraversavo la Piazza Rossa semideserta, passando davanti al mausoleo del Salmone, così i moscoviti chiamavano irriguardosamente la mummia di Lenin ormai privo delle lunghe code di un tempo, e scendevo verso la Tetral'naija. L'aria sapeva di cattiva benzina combusta e camminavo adagio per non scivolare sulla neve sotto la luce giallognola e fioca dei lampioni bassi. A destra scorreva Kitay gorad, la finta Chinatown moscovita fatta di negozietti senza cinesi, mentre a sinistra, al di là della piazza le luci del Bolshoj rischiaravano un po' la notte. Poi il grande corso saliva un po' e pian piano si arrivava all'altra piazza, quella che Zhenja non osava neanche nominare. Una piazza grande, quadrata, cupa e scura. Quando passavamo in macchina, lui teneva gli occhi bassi ed abbassava la voce quasi con un riflesso automatico. Mentre scendevamo nella discesa della Teatral'naija lanciava però uno sguardo di sottecchi verso la colonna centrale su cui si ergeva imponente la massiccia figura di Drezhinskij, l'inventore del KGB, la cui creatura campeggiava come un incubo in fondo alla piazza stessa, la Lubijanka. Questo edificio massiccio, probabilmente la prigione più tristemente nota del mondo, incuteva un tale terrore ai moscoviti, che nessuno passava mai da quel lato della piazza ed anche il marciapiede di fronte si attraversava malvolentieri, come a voler cancellare dalla mente, il sentore degli orrori che venivano compiuti in quel luogo. Tra l'uscita della Metro e l'angolo della piazza c'era sempre in attesa una lunga fila di donne imbaccuccate in pesanti scialloni per vincere il freddo, che vendevano merci varie. In piedi sul marciapiedi, si rivolgevano ai passanti frettolosi che uscivano dal sottopasso, mostrando chi due paia di calzettoni, chi un set di mutande, o pantofole o un vestitino per bimbi, merce poverissima riciclata o fatta in casa o rubata in fabbrica come d'uso, prima di arrivare ai negozi. Superata la fila di prefiche si arrivava sull'angolo dove la maligna arguzia dell'Apparatnyk aveva posto, per contrastare con una imprevedibile ironia, la più straordinaria e colorata Disneyland sovietica, i cinque piani dell'immenso palazzo del Dietzkij Mir, il Mondo dei Bimbi. Superate le doppie porte sbilenche si entrava nel grande salone del pianterreno, piombando in un paradiso di giocattoli di ogni tipo. Questo era strutturato un po' come i magazzini Lafayette, a cui tutte le costruzioni russe del periodo si ispiravano, con le balconate dei piani superiori che si affacciano sul grande spazio interno fino a culminate in una immensa cupola centrale. In mezzo una grande giostra viennese girava senza posa e tutto attorno un rutilare di colori e sfavillii e musica, impensabili e disarmanti nel contrasto spietato con il cupo grigiore esterno al palazzo. Tutto intorno un affastellarsi di banchi carichi di ogni sorta di giocattoli, colorati e di tutte le dimensioni che ad ogni piano cambiavano di tipologia ed aspetto. Un piano, soprattutto, era straordinariamente ricolmo di una infinita varietà di giocattoli di legno tradizionali, da smontare e ricostruire, dai colori smaglianti, verdi, gialli, e soprattutto rossi, krasnije che in russo vuol dire rosso ma anche bello. E bambole, in una varietà infinita e castelli di costruzioni, tutte in legno come quelle di quando ero piccolo. Camminavo qua e là ammirando gli occhi estatici delle frotte di bambini che sostavano di fronte a quelle meraviglie, le esaminavano, valutandone l'uso, si potrebbe dire la giocabilità, o i gruppetti di bambine che si scambiavano le bambole dai vestiti ricchi e preziosi, in un vociare sereno. Un contraltare impensato al silenzioso incubo della piazza antistante. Compravo qualche cosa, poi mi piaceva fermarmi un po' appoggiato alla balaustra del primo piano, da dove si aveva una magnifica visuale di quasi tutto il complesso. Mi sembrava di tornare a tanti anni prima, quando la mia mamma, mentre tornavamo da scuola, mi lasciava sempre qualche minuto davanti al negozio della Fata dei Bambini in via Dante. Un rito che si ripeteva tutti i giorni, io rimanevo incollato lì a sognare, affascinato dai fortini degli indiani e dai trenini, fino a quando non mi scuoteva dicendomi :- Dai, andiamo, ci torniamo domani.- E io mi muovevo a fatica, guardando indietro mentre il sogno piano piano si annebbiava. Adesso l'hanno chiuso quel negozio in via Dante, ci vendono elettronica, mi sembra e Gianni mi ha detto che anche il Dietzkij Mir non c'è più. Il palazzo è chiuso e l'interno è stato sventrato completamente. Una società turca si sta occupando del remont. Ci faranno un centro commerciale pieno di negozi di Armani e Prada. Quei bambini sono diventati grandi e hanno altri sogni.

sabato 31 gennaio 2009

Involtini primavera e bagna cauda

Un mio precendente post : Xué, ha suscitato una qualche attenzione e mi sento quindi in dovere di aggiungere un approfondimento sulla questione, che, come sempre, è talmente complessa da apparire comunque molto riduttivo cianciarne in quattro battute. Ad un mio tentativo di andare un po' più in profondità su quanto sta sotto la superficie della via allo sviluppo cinese, Damiano ha contrapposto una realtà come quella che vive personalmente in un luogo, Prato, dove i problemi negativi causati da questa via, uniti a quelli dell'immigrazione presentano per tutti gli attori interessati un negativo che prevale pesantemente su qualsiasi aspetto positivo della questione. D'altro lato, NonVedente, non toccato in prima persona, si meraviglia dell'importanza data a questo aspetto, di certo più attento al lato teorico dell'accoglienza e forse anche dalla poca "fastidiosità" che la comunità cinese, sotterranea anche nel comune sentire, provoca in generale nella maggioranza delle comunità. In queste poche battute si assommano una serie di grane sociali da riempire decine di saggi sociologici su problemi di cui nessuno negli ultimi duemila anni (e sottolineo nessuno) ha trovato il bandolo. Come lo scorrere dell'acqua dall'alto verso il basso (credo che si chiami forza di gravità), il fenomeno migratorio è (ed è stato) assolutamente inevitabile ed inarrestabile fino a quando ci sarà un luogo dove si sta bene ed uno dove si sta male o malissimo. Perchè chiunque, prima di morire cerca di spostarsi in un altro luogo, rischiando anche la vita, dove forse riescirà a sopravvivere, magari anche in una baracca od in un sottoscala. Sono stati trovati degli ostraka in Sudan, nella zona dell'estremo limes dell'impero romano, su cui erano scritte raccomandazioni che clandestini etiopi, forse morti di stenti nel deserto, portavano con sè per poter superare il confine dell'impero per poter arrivare ad imbarcarsi per giungere a Roma. Non cambiano molto le cose nel tempo, vero? Negli Stati Uniti, che hanno uno dei confini più semplici da sorvegliare, nonostante il muro e i reticolati su cui la domenica qualcuno si esercita nel tiro al clandestino, ci sono all'incirca un miglione di irregolari all'anno. Non è facile fermare l'acqua che scende, anche se qualcuno propone ricette facili quando si va al voto. Un secondo punto è la tremenda tendenza dell'uomo a sfruttare il suo prossimo appena gli è possibile e la presenza di una posizione forte ed una debole, genera questo effetto come per legge naturale. Qui si innesta il terzo punto. In uno stato che vuole essere civile, una politica seria e capace (capisco che questo sia un ossimoro estremo ed improbabile) deve controllare e perseguire senza pietà i comportamenti illegali, che partono spesso dalle piccole cose, fino a provocare disagi sociali di grande entità e molto più difficilmente controllabili. La cosa, proprio nella situazione denunciata da Damiano, era (ed è) molto facilmente gestibile, in quanto queste illegalità non sono costituite da furti, scippi, rapine, dove chi delinque deve essere rincorso ed acchiappato, ma sono tutte ben ferme e facilmente controllabili e punibili. Con chi bisogna prendersela se sorge una città illegale di sotterranei in cui si compiono reati edilizi, di sfruttamento, merceologici e chi più ne ha più ne metta? Intervenendo all'inizio o durante e comunque intervenendo, questo è un problema che si può risolvere, volendolo fare. Qui da noi, i banchetti di cinesi al mercato, sono continuamente controllati (sicuramente più degli altri) e non si vedono comportamenti fuorilegge e la comunità cinese è certamente quella che dà meno problemi di convivenza. Certo bisogna stare attenti che l'esasperazione prodotta dall'illegalità, non faccia confondere i problemi. Laboriosità, sacrificio, poca lamentosità sono doti e non difetti. Sono queste che stanno alla base del successo cinese nel mondo. Sfuttamento, delinquenza e altro, sono devianze da limitare (eliminare non è, come già detto, nella natura umana), ma non credo che siano il fattore portante del fenomeno cinese. Sono certo che chi conosce la Cina al suo interno, concorda con me, che laggiù questi fenomeni sono molto inferiori a quanto si pensa (o ci si illude di credere). Molto spesso chi ha la tendenza a sfruttare sono le aziende straniere, quelle che più sbraitano sul problema dei tarocchi, che temono di non poter più vendere a 50 dollari quello che producono a 1 dollaro (perchè vale 1 dollaro in effetti). Le stesse condizioni di lavoro, vanno via via migliorando laggiù, secondo il naturale trend che anche le nostre economie hanno fatto nel tempo, anche più in fretta di quanto si creda. Piangere perchè non riusciamo più, noi a Prato a fare le magliette come i cinesi, mi sembra una battaglia di retroguardia che si dovrebbe aver superato. Difendere un sistema che non può più esistere, cercare di ritornare ad essere noi i cinesi, mi sembra sbagliato, oltre che comunque velleitario. Non approfittare dell'occasione che ci offre una colossale economia che ancora ha enormi margini interni di sviluppo ed ha la capacità di perseguirli (forse in questa spaventosa crisi mondiale crescerà solo del 7% invece che il 9% come previsto!), rimanendo loro sempre davanti, con tecnologia e creatività e non dietro, sperando di tornare a fare magliette e scarpacce di gomma, non entrare a mangiare una fettina di questa enorme e succulenta (oltre che unica) torta disponibile, mi sembra terribilmente miope. Certo bisogna perseguirla la creatività e la tecnologia e poi non servirà neanche sforzarsi per imporgliela, chè loro sono i nostri primi estimatori. E come ho già detto più volte, speriamo che, ammirandoci, continuino a copiarci, perchè questa sarà (io almeno credo) la nostra salvezza. E stasera involtini primavera per tutti (anche per Damiano dai!).

mercoledì 21 gennaio 2009

Xué

C'è una gran discussione sulle copie e sulla moralità della cosa. Chi le guarda con disprezzo, se si tratta di copie cinesi, che lo farebbero solo in quanto incapaci di avere idee proprie, poi strizza l'occhio pensando alla creatività, se a farlo sono i napoletani. I copiati, le griffes, piangono disperati denunciando perdite colossali e portando in tribunale i copiatori (cinesi). Non è chiaro se, in maniera miope, ci credano davvero o se sia un atteggiamento di facciata. Strano che non si rendano conto di alcuni fatti fondamentali. 1. Se io avessi una griffe di pregio, sarei terrorizzato e sconvolto se nessuno mi copiasse le idee; sarebbe il peggior giudizio che il mercato potesse dare del mio lavoro. Una patente di totale disinteresse, una bocciatura completa. 2. Chi compra un falso, sa benissimo di farlo e non comprerebbe comunque l'originale, o perchè non gli interessa buttare soldi o perchè non li ha, ma in questo caso, non appena se lo potrà permettere lo comprerà. Quindi, o fidelizzo il cliente o comunque lo faccio veicolo pubblicitario gratuito del mio brand. Quindi non solo non c'è perdita, ma anzi c'è ritorno positivo. In ogni caso ricordo che nella lingua cinese, lo stesso ideogramma 学- Xué, significa -imitare, contraffare- e allo stesso tempo -imparare, apprendere, studiare-. In questa cultura non c'è vergogna o disonore nel copiare qualcosa, anzi è riconoscimento di superiorità ed apprezzamento. In ogni caso, a chi, con occhio malevolo, indica questa faccia della Cina per dipingerne l'inferiorità culturale, direi, caro amico, prega che costoro continuino a copiare, rimanendoci sempre indietro di un passo, perchè nel momento in cui cesseranno di farlo, allora sì che saranno dolori per tutti. E gli esempi di creatività cominciano a giungere anche da laggiù, anche se legati ancora alle culture che più ammirano e da cui pensano di trarre il meglio, come si evince dalla seguente foto colta dall'amico Daniele Daminelli a Causeway Bay, in Hong Kong.

lunedì 27 ottobre 2008

Kumurgiù

Siamo a Bigadic, un paesino a un centinaio di km a sud di Bursa , 27 anni fa, dopo l'acquisto di questo tappeto Kumurgiù (o del carbonaio a causa dei suoi splendidi blu e rossi scurissimi). Tutto il paese, composto da un paio di famiglie si è riunito per mostrarci il suo lavoro. Qui si fa solo questo tappeto con piccole varianti da più di cento anni. Come amo i tappeti! Sono manufatti in cui risplende la forza di mesi di fatica, dell'arte, della tradizione e dell'amore per le cose fatte bene. Siano Hereké finissimi e sottili come foulard, che spessi Hamadan nomadi dalle morbide lane o Kazak dalle delicate geometrie, che fascino tattile e visivo! Camminarvi sopra a piedi nudi sentendo il calore del vello fitto o sfiorarne la trama per leggerne da vicino i simboli, la storia! I tappeti hanno incantato le genti di tutto il mondo, appesi alle pareti delle yurte dei mongoli o ai piedi degli imperatori, sulle tavole dei mercanti rinascimentali o sui pavimenti delle moschee, a coprire il suolo sotto le tende dei pastori, a far da sella ai cavalieri d'oriente o da sedile ai troni delle regine. C'è preziosità, amore, capacità manuale e artistica, in una parola c'è valore. E il valore di un bene non si riesce a copiare. Ecco perchè una copia pakistana ha gli stessi disegni e magari un nodo più fine di un Bukara Tekké, ma come appare rozzo e offensivo rispetto all'ordine reiterato dei gul che spartiscono il campo dell'originale! Come offende il colore sguaiato e l'annodatura perfettina del parvenu. Il valore si vede e si sente da ogni sfumatura. Ecco perchè i guaiti lamentosi dei venditori di griffe che vedono le loro T-shirt da 50 Euro vendute al mercatino di Pekino a 1 Euro e in quello sottocasa a 5, sono così insensati (e comunque velleitari). La realtà è che non c'è differenza di valore intrinseco tra i due oggetti (che spesso escono dalla stessa fabbrica vicino a Shanghai). I 49 euro di differenza vengono spartiti nei vari passaggi distributivi. La differenza effettiva si vede e si sente e chi fa qualcosa che vale non teme di essere copiato, anzi ne è fiero.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!