mercoledì 4 marzo 2009

Детский мир

C'è un altro luogo che ho particolarmente amato a Mosca. Nelle bigie sere invernali, dopo il lavoro, specialmente se stavo al Rossia, l'orribile (in)cubo di cemento di 7000 camere sotto San Basilio, quando avevo voglia di fare quattro passi prima di cena. Attraversavo la Piazza Rossa semideserta, passando davanti al mausoleo del Salmone, così i moscoviti chiamavano irriguardosamente la mummia di Lenin ormai privo delle lunghe code di un tempo, e scendevo verso la Tetral'naija. L'aria sapeva di cattiva benzina combusta e camminavo adagio per non scivolare sulla neve sotto la luce giallognola e fioca dei lampioni bassi. A destra scorreva Kitay gorad, la finta Chinatown moscovita fatta di negozietti senza cinesi, mentre a sinistra, al di là della piazza le luci del Bolshoj rischiaravano un po' la notte. Poi il grande corso saliva un po' e pian piano si arrivava all'altra piazza, quella che Zhenja non osava neanche nominare. Una piazza grande, quadrata, cupa e scura. Quando passavamo in macchina, lui teneva gli occhi bassi ed abbassava la voce quasi con un riflesso automatico. Mentre scendevamo nella discesa della Teatral'naija lanciava però uno sguardo di sottecchi verso la colonna centrale su cui si ergeva imponente la massiccia figura di Drezhinskij, l'inventore del KGB, la cui creatura campeggiava come un incubo in fondo alla piazza stessa, la Lubijanka. Questo edificio massiccio, probabilmente la prigione più tristemente nota del mondo, incuteva un tale terrore ai moscoviti, che nessuno passava mai da quel lato della piazza ed anche il marciapiede di fronte si attraversava malvolentieri, come a voler cancellare dalla mente, il sentore degli orrori che venivano compiuti in quel luogo. Tra l'uscita della Metro e l'angolo della piazza c'era sempre in attesa una lunga fila di donne imbaccuccate in pesanti scialloni per vincere il freddo, che vendevano merci varie. In piedi sul marciapiedi, si rivolgevano ai passanti frettolosi che uscivano dal sottopasso, mostrando chi due paia di calzettoni, chi un set di mutande, o pantofole o un vestitino per bimbi, merce poverissima riciclata o fatta in casa o rubata in fabbrica come d'uso, prima di arrivare ai negozi. Superata la fila di prefiche si arrivava sull'angolo dove la maligna arguzia dell'Apparatnyk aveva posto, per contrastare con una imprevedibile ironia, la più straordinaria e colorata Disneyland sovietica, i cinque piani dell'immenso palazzo del Dietzkij Mir, il Mondo dei Bimbi. Superate le doppie porte sbilenche si entrava nel grande salone del pianterreno, piombando in un paradiso di giocattoli di ogni tipo. Questo era strutturato un po' come i magazzini Lafayette, a cui tutte le costruzioni russe del periodo si ispiravano, con le balconate dei piani superiori che si affacciano sul grande spazio interno fino a culminate in una immensa cupola centrale. In mezzo una grande giostra viennese girava senza posa e tutto attorno un rutilare di colori e sfavillii e musica, impensabili e disarmanti nel contrasto spietato con il cupo grigiore esterno al palazzo. Tutto intorno un affastellarsi di banchi carichi di ogni sorta di giocattoli, colorati e di tutte le dimensioni che ad ogni piano cambiavano di tipologia ed aspetto. Un piano, soprattutto, era straordinariamente ricolmo di una infinita varietà di giocattoli di legno tradizionali, da smontare e ricostruire, dai colori smaglianti, verdi, gialli, e soprattutto rossi, krasnije che in russo vuol dire rosso ma anche bello. E bambole, in una varietà infinita e castelli di costruzioni, tutte in legno come quelle di quando ero piccolo. Camminavo qua e là ammirando gli occhi estatici delle frotte di bambini che sostavano di fronte a quelle meraviglie, le esaminavano, valutandone l'uso, si potrebbe dire la giocabilità, o i gruppetti di bambine che si scambiavano le bambole dai vestiti ricchi e preziosi, in un vociare sereno. Un contraltare impensato al silenzioso incubo della piazza antistante. Compravo qualche cosa, poi mi piaceva fermarmi un po' appoggiato alla balaustra del primo piano, da dove si aveva una magnifica visuale di quasi tutto il complesso. Mi sembrava di tornare a tanti anni prima, quando la mia mamma, mentre tornavamo da scuola, mi lasciava sempre qualche minuto davanti al negozio della Fata dei Bambini in via Dante. Un rito che si ripeteva tutti i giorni, io rimanevo incollato lì a sognare, affascinato dai fortini degli indiani e dai trenini, fino a quando non mi scuoteva dicendomi :- Dai, andiamo, ci torniamo domani.- E io mi muovevo a fatica, guardando indietro mentre il sogno piano piano si annebbiava. Adesso l'hanno chiuso quel negozio in via Dante, ci vendono elettronica, mi sembra e Gianni mi ha detto che anche il Dietzkij Mir non c'è più. Il palazzo è chiuso e l'interno è stato sventrato completamente. Una società turca si sta occupando del remont. Ci faranno un centro commerciale pieno di negozi di Armani e Prada. Quei bambini sono diventati grandi e hanno altri sogni.

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