Mi domando spesso quale sia la ragione per cui sono sempre stato attratto dalla cultura orientale. Ho praticato tecniche del corpo, ho provato l'origami e ne ho tentato di approcciarne le lingue. Se uno ci credesse, una risposta potrebbe ritrovarsi in una vita precedente trascorsa come samurai. Erano gli anni del periodo Azuchi-Momoyama e fin da piccolo ero stato addestrato verso il mio destino, diventare un guerriero, un bushi. L'uso delle armi e delle forme di lotta a mani nude; l'arco, il cavallo e il terribile ventaglio da guerra, ma anche la calligrafia e la pittura, le peonie e i bambù in particolare che amavo stendere sulla carta sottile con larghi colpi del pennello a china. Ma soprattutto il bushido, la via, il codice di comportamento che un samurai deve tenere per il rispetto di sè stesso. L'arte che avevo studiato più a fondo era lo iaido; come estrarre la spada ed sferrare il primo colpo fatale il più rapidamente possibile. Il mio maestro mi aveva dimostrato più volte che l'abilità nel kenjitsu, la tecnica della spada, se pure importante diventava secondaria dopo che il primo colpo devastante era andato a segno. Erano tempi violenti e si intuiva nell'aria che stava sopraggiungendo un grande cambiamento.
Appartenevo al clan dei Toyotomi e se pur ancora giovane, avevo poco più di venti anni, con un gruppo di uomini fidati, avevamo dormito tra i canneti fangosi di Sekigahara alla base delle alte colline. In quell'autunno inoltrato, mentre le foglie degli aceri montani erano ormai rosso vivo, era piovuto per tutta la notte e le pesanti brume mattutine si muovevano lente, nascondendo uomini e cavalli, ma il senso di oppressione che era nell'aria, faceva presagire che quella sarebbe stata, forse la più sanguinosa battaglia della storia del Giappone. Non ero mai stato in battaglia, né avevo mai combattuto per la vita, ma non temevo di perderla. Era il mio destino e le lunghe ore quotidiane trascorse ad addestrare il corpo e la mente mi rendevano pronto e sereno. Arrivarono di colpo, uscendo come fantasmi dalla nebbia. Un gruppo di armati con le insegne di Toyotomi Hideyoshi si gettarono urlando su di noi con le katane alte sul capo in posizione jodan. Rimasi fermo, pronto ad estrarre, la mano sinistra sul fodero, la sinistra tenuta saldamente sull'impugnatura appoggiata alla tsuba. Potevo vedere quanto stava per accadere.
Mentre il primo uomo si scagliava su di me, il mio corpo si sarebbe spostato leggermente sulla destra mentre la lama sarebbe uscita senza fatica e con un leggero arco l'affilata parte terminale avrebbe colpito di netto al collo nello spazio libero dalla protezione dell'armatura, poi il colpo proseguiva mentre il mio corpo si spostava in avanti e affondava nel ventre del secondo guerriero, due passi indietro. Avevo provato quella tecnica migliaia di volte nel dojo del castello. Mentre la distanza tra di noi si faceva perfetta per il colpo, iniziai la tecnica. Ma il laccio che legava la mia akama da combattimento era troppo lungo e si impigliò per un attimo alla tsuba, la lama, dopo il primo piccolo tratto iniziale rimase ferma, bloccata, senza riuscire a compiere l'estrazione, la sua anima soffocata nel fodero, il suo desiderio frustrato. Sentii più che vedere l'acciao della katana del mio nemico che si abbatteva su di me tra il capo e la spalla. Il filo perfetto dell'arma che qualche maestro forgiatore aveva temprato a lungo nell'acqua gelata di un torrente tra i monti del Fuji, penetrò a fondo nel mio corpo. Così io, Minotori Katamatsu, non ebbi neppure il rammarico di morire.
2 commenti:
Enrico, perdonami, leggo solo oggi questo post, a Sekigahara il clan Oda era già stato sconfitto e disperso da diciotto anni.
@Martino - hai ragione, ma ero troppo giovane in quella vita per ricordarmelo e ormai son passati 40 anni, saranno stati i Toyotomi.
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