venerdì 18 settembre 2009

Giallo granturco.

Mezzo sole e mezze nuvole. Tempo buono per girare in campagna, almeno finchè non piove. Sul bordo del campo, stando attento a dove metti i piedi. Nella mia prima vita, quando facevo il sementiero, questo era il tempo di andare, prima ad Idice e poi a Badia Polesine, a vedere le novità nei campi sperimentali. Il mais era lì, quasi pronto in belle file ordinate, quasi completamente secco lo stocco e le foglie, la pannocchia apicale ancora eretta, ma per poco, le spighe enormi che quasi scoppiano nel tentativo di liberarsi delle brattee con le barbe ormai scure e le centinaia di cariossidi dorate che fremono per mostrarsi ancora traslucide, ansiose di lasciarsi alle spalle quello stato ceroso interno che le fa gonfie, prima di cominciare il rattrappimento che precede la completa maturazione. Che pianta straordinaria il granturco. Una vera macchina da produzione. Completamente artificiale, nulla di quanto si vede oggi esisteva anche solo poche centinaia di anni fa. La selezione prima, poi gli incroci continui, infine l'ibridazione hanno trasformato una timida pianticella, il teosinte, che metteva sul pennacchio poche unità di sparuti granelli in un fenomeno produttivo che sforna centinaia di semi in pochi mesi aggiunti a kili di massa verde. Tutto artificiale; la specie scomparirebbe in una stagione se qualcuno non sgranasse la spiga per separarne i semi prima di riseminarli. Se cadesse a terra tal quale, le centinaia di germogli, troppo vicini non avrebbero la forza di dare luogo ad una nuova pianta. Ci infilavamo tra le file di piante tastando, confrontando, misurando il miracolo della ricerca, del miglioramento genetico, allora non avevano ancora cominciato a chiamarli OGM, incuranti del fastidio micidiale sulla pelle, che dopo un po' veniva rossa e il prurito si faceva quasi insopportabile. Ma volevamo valutare se il carattere foglie strette permetteva di seminare più ravvicinato o se l'incrocio con quella femmina più resistente alla siccità aveva dato piante più vigorose. Poi ce ne tornavamo a casa e si organizzava la visita al campo prova, dove le nuove varietà faceva bella mostra di sé su qualche fronte strada della provincia. Si controllavano i cartelli con i nomi, la qualità delle piante, poi il giorno della manifestazione, arrivavano gli agricoltori e i concorrenti ad osservare, ad informarsi , a criticare. Il rinfresco, semplice per la verità, era un po' il clou della festa; molto vino della nostra cantina sociale che si auto pubblicizzava e i tavolini con le file di cartelline preparate in bell'ordine con i dati delle varietà. Andavano subito a ruba, come tutti i gadget di qualsiasi tipo appoggiati di fianco, dai cappellini alle biro, ma le cartelline erano le più richieste, forse perchè corredate da un bel block notes per gli appunti. Quasi sempre un paio di agricoltori burloni ritiravano subito le prime e infilavano di soppiatto tra i fogli un paio di biglietti da 100.000 Lire, aprendole poi, come per caso di fianco ad un gruppo di altri ed infilandoseli con noncuranza in saccoccia e subito, con sguardi prima incerti e poi avidi tutti correvano a servirsi, sfogliandone con precipitazione i depliant interni, poi delusi di non trovare nulla, posavano il malloppo e lo scambiavano con un altro, più volte, guardandosi intorno furtivi, non prevedendo la nuova delusione, tra le sghignazzate degli abitué che già conoscevano lo scherzo. Poi invariabilmente cominciava a piovigginare e si tornava tutti a casa bagnati con qualche grande spiga di mais dorata da appendere in cucina.

2 commenti:

bacillus ha detto...

Eheheh. Il tuo, Enrico, è il perfetto epitaffio per la nostra maiscoltura. Non era voluto, lo so, ma così è.
La situazione. Qui sul mercato di Udine il mais vale 8,50 € al quintale (due anni fa era più o meno i doppio). Prezzi di fertilizzanti, erbicidi, gasolio rimasti alle stelle (figurarsi se calavano). Piralide, diabrotica, danni enormi. Idioti istituzionalizzati che vietano l'utilizzo dei neonicotinoidi per la concia del seme. Non parliamo di tutto il discorso relativo a quello che già sai, che ha dell'incredibile.
E soprattutto non dimentichiamo la vasta platea dei diretti interessati, i contadini, che continuano a restare nelle proprie abitudini, senza evolversi, senza cercare di coltivare meglio, senza elaborare strategie per risparmiare risorse e subendo tutto questo in modo del tutto passivo, come dei pugili suonati.
Belli quei tempi, Enrico. Erano i tempi in cui, qui in Friuli, il mais era definito l' “oro giallo”. Il lavoro ed il sacrificio ne valeva la pena. Però erano anche i tempi in cui gli aspetti ambientali erano del tutto ignorati. Erano i tempi dell'atrazina.
Però da lì abbiamo capito molte cose. Ed oggi possiamo reagire. Non ce lo lasciano fare. Vogliono far morire la maiscoltura in Italia? Saranno cazzi amari per tutti.

Enrico Bo ha detto...

erano i tempi dei consorzi agrari, tanto vituperati che tutti, agricoltori in testa hanno voluto ucciderli, gli agricoltori per semplice accidia, (secondo me), i politici e le banche per banchettare dei loro cadaveri e spartirsi la ricca torta degli immobili e altro. Eppure ne svolgevano di funzioni e con gli ammassi una notevole funzione regolatrice dei prezzi dei cereali era garantita...ma contenti tutti....

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