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lunedì 19 settembre 2016

Campi di mais

da Piccolaeraglaciale


Gli ultimi campi di mais stanno cadendo uno dopo l'altro, mangiati dalle bocche affamate di mietitrebbie giganti. Annata secca questa. Di sicuro nella polenta del prossimo anno ci saranno poche aflatossine cancerogene, addirittura si può rischiare di mangiare con una certa tranquillità quella cosiddetta biologica, salvo il danno sul portafoglio, ma tant'è la credulità si paga ed in fondo è giusto così. 

La Bayer si è comprata la Monsanto, così toccherà cambiare bersaglio ai vari sacerdoti della fuffa. Eh bei tempi quelli in cui sapevi riconoscere i nemici a colpo d'occhio, sporchi, brutti e cattivi com'erano. Adesso si sono sdoganati, anzi se ne fanno un vanto dell'ignoranza e della cattiveria, anzi, li votano pure. Piano piano il nazismo torna al potere. Poi tra cinquant'anni ci si chiederà, ma come poteva la gente non capire, non rendersi conto. Ma va bene così.



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mercoledì 23 ottobre 2013

L'ultimo campo di mais.



Sento profumo della zuppa di ceci che mi faceva la mia mamma. E' quasi novembre. Sento nell'aria quell'umidità spessa che che c'è attorno ai campi di mais quasi secchi, quelli che non hanno ancora trebbiato, stocchi a volte duri, altre fragili, isolati in mezzo alla campagna scura dei campi ormai scoperti, pronti alla nuova semina o o già incubatori di nuova vita. Loro sembrano dimenticati dal contadino, in altre cose preso; lasciati lì a seccare completamente, a morir soli. Se passi loro accanto, senti un innaturale connubio tra secco e umido. Un odor di muffe che stan lì ad aspettare il loro turno prima di prender possesso di tutti quegli organismi che stanno terminando la vita, indeboliti, corrosi, con le parti più importanti ormai vizze, incartapecorite, insensibili alla brezza. Quando un refolo più forte le spinge le une contro le altre avverti un ciangolio secco, come di legnetti che si frangono, foglie sfinite, senza linfa quasi prone, arresesi al tempo che è arrivato alla fine; brattee spesse un poco aperte in alto, boccheggianti in un tentativo di lasciare andare qualche seme, in un istinto di propagazione impossibile per via naturale. Le barbe ormai seccate, quasi nere, già morte da tempo si sbriciolano al tocco, lascian spazio all'introdursi di nuova vita che non aspettava che questo momento per infilarsi, scavando gallerie protettive nel ventre dell'agonizzante, diventato ricovero solido, ambìto. 

Tutto è pronto per l'assalto saprofitico di una natura ferina, dove ogni vivente sopravvive e si propaga solo a spesa di altri viventi, per essere poi a suo tempo, a sua volta, sopraffatto da nuovi e più feroci predatori. Il campo di mais sta lì, quadrato, denso e fitto come un corpo solido, una barriera invalicabile in cui tu non puoi penetrare, a meno che tu non sia viscido, piccolo, invisibile o strisciante. Un blocco unico apparentemente forte che invece odora di materia in disfacimento, della corruzione che solo il tempo produce, di senso di morte. E' novembre, neanche la pioggia ha voglia di scendere decisa, sincera. L'aria però ti bagna, tanto è umida e si fa acqua per pervadere gli stocchi moribondi e aiutarli a morire. Chissà se ancora avevano desiderio di vivere, di rinnovare l'ansia di crescita, quando nella calda estate ergevano le foglie diritte e orgogliose verso l'alto a carpire l'abbraccio del sole, per crescere ancora, per sentire quel rigonfiarsi sereno dentro di sé, quella promessa di vita, che poi altri avrebbero sfruttato, ma che pareva ragione di esistere, motivo filosofico di essere vivo. Niente sembrava potesse fermare quello slancio potente di ferace affermazione di vita. Adesso eccole lì, le piante, gialle, deboli, alcune già irrimediabilmente spezzate, il pennacchio non più orgoglioso e ritto al cielo, ma spento e fiacco, privo ormai di pollini vivi; le spighe gonfie abbandonate sul fianco, il peso della loro grassezza pronto a spezzarle; il terreno ormai ricoperto di scorie morte in decomposizione. Che terribile metafora della vita.


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martedì 4 dicembre 2012

Aflatossine 2012.

Larva di piralide in azione - dal web.

Penso che molti tra coloro che mi seguono, non conoscano o non abbiano mai sentito parlare di aflatossine. E' un argomento interessante per capire la mentalità della gente e del sentire comune, per cui ci perdo un attimo, se permettete. Dunque, il granoturco, che in minima parte serve a fare la polenta, ma ha centinaia di usi alimentari diversi (dall'olio, all'amido, ecc.) serve nella quasi totalità per l'alimentazione degli animali. In Italia se ne producono da 6 a 10 milioni di tonnellate, più o meno per semplificare, circa la metà di quanto serve, il resto lo importiamo. Essendo una pianta totalmente artificiale (che non esisteva in natura) ma che è stata creata dall'uomo in 10.000 anni di miglioramento genetico, è, come tutti gli artifici, molto produttiva ma molto delicata e soggetta ad innumerevoli nemici animali e vegetali. Il più importante è la Piralide (Ostrinia nubilalis), una farfallina apparentemente innocua che deposita le sue uova sui residui di mais dell'anno precedente che rimangono nei campi durante l'inverno. Le sue larve scavano lunghe gallerie nelle pannocchie (che in realtà si chiamano spighe) e nei teneri culmi di mais che poi si spezzano al minimo soffio di vento con una perdita di produzione. E chi se ne frega direte voi, saranno cavoli del contadino. 

No, non è così, sono cavoli vostri perché all'interno di queste gallerie (in misura più o meno maggiore a seconda dell'umidità delle estati) si formano dei funghi (del genere Aspergillus), delle muffe insomma, che lasciano come residuo delle tossine, le famose aflatossine di cui vi ho detto, che sono uno dei più potenti cancerogeni naturali conosciuti (molto di più, tanto per dire, della diossina). Queste, dopo la trebbiatura passano dunque nelle farine e rimangono nei vari prodotti derivati fino a trasmettersi quasi inalterate nel latte degli animali che poi noi consumiamo (non nelle carni per fortuna). Ora, da tempo in Italia e in molti paesi del mondo, la questione è seguita con molta attenzione e ben monitorata, i controlli sono assolutamente stringenti e così è praticamente impossibile (se non con dolo) che nella filiera industriale passi un chilo di granoturco con un contenuto di aflatossina superiore alla quantità certamente non nociva, quantificata in 20 ppb (parti per miliardo). Naturalmente questi controlli non sono previsti, o sono meno esaustivi, in tutte quelle quantità che vanno direttamente dal produttore al consumatore (ehehehehe) o in quelle filiere "biologiche" e non "industriali" che amano appunto fregiarsi del lasciar fare alla natura e nelle cui situazioni si è obbligati a non combattere i parassiti delle colture con tradizionali pesticidi, preferendo sistemi "naturali". 

Ma quale è il problema di quest'anno? Data una estate particolarmente avversa alla produzione del granoturco, con basse rese, risulta che quasi un terzo di tutta la produzione italiana stoccata (quasi 2 milioni di tonnellate), presenta dopo i controlli, una quantità di aflatossine che supera le 20 ppb, il limite giudicato pericoloso (dati da L'Informatore Agrario). Capirete che non è possibile buttare via un terzo della produzione italiana, così come niente. Un decimo circa, potrebbe essere usato negli impianti a biogas, anche se con perdita di valore (circa 200 milioni di euro, non noccioline). Ma del resto che se ne fa? Ecco dunque spuntare la proposta per alzare i limiti a 100 ppm quantità certamente dannosa per l'uomo, ma di cui si potrebbe autorizzare l'uso nella produzione di alimenti per animali da carne, in cui come abbiamo detto non rimangono residui. Soluzione praticabile certamente in sicurezza, ma di cui si potrebbero avere ricadute pesanti in termini di immagine sul prodotto italiano di qualità, essendo i consumatori psicologicamente piuttosto sensibili a queste deroghe, più che alla dura realtà dei fatti. Questione piuttosto spinosa, non vi sembra? Con notevoli pericoli comunque, che ingenti quantità sfuggano ai controlli successivi, per incuria o per dolo. 

Naturalmente nessuno, in particolare le associazioni agricole, colpevolmente schierate in questi problemi, solleva la questione che in Italia sia vietato l'uso di mais OGM nelle varietà BT, costituite appunto per non essere attaccate dalla piralide e quindi praticamente esenti e senza uso di specifici pesticidi da questo problema, che avrebbe ridotto notevolmente questo problema. Così come, ben uniti a tutti i biotalebani,  fanno ben finta di non ricordarsi che quasi tutto il mais che importiamo (abbiamo detto circa il 50% del fabbisogno) è OGM appunto di questo tipo (e usatissimo nell'alimentazione degli animali che producono le nostre eccellenze, formaggio grana o prosciutto in prima fila, tanto per dire). Così per dare retta a Capanna e i suoi adepti, siamo in questo trappolone. Banditi gli OGM, che rientrano poi dalla finestra dell'importazione, e pieni di aflatossine cancerogene. Pensate che questa gente, non sapendo più a che santo votarsi mettono addirittura in dubbio la pericolosità delle aflatossine, attribuendole ad una invenzione delle cattive multinazionali per diffondere l'uso dei perfidi e questi sì pericolosissimi OGM! Non puoi metterti contro la religione, non c'è niente da fare, ti bruceranno sul rogo. Meditate gente e occhio comunque, alla polenta biologica del contadino.



cfr. Informatore Agrario - n. 45/2012 - pag. 15


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lunedì 18 ottobre 2010

Granturco nella nebbia.

I campi sono quasi invisibili. La nebbia bassa, che sembra uscire dalla terra scura arata di fresco, si alza a poco a poco, la vedi espandersi mentre si dispone a coprire alla vista le distese di granturco che ondeggiano come fantasime maligne sui bordi della strada. E' l'autunno di questa terra umida e grigia che si distende pervasivo lungo i fossi mal tenuti e pieni di erbacce, pronti a riempirsi d'acqua sudicia appena pioverà per poche ore. Quel freddo umido che ti fa scricchiolare le ossa e le giunture per ricordarti, se per caso sei uscito di buon umore, che prevale il lato grigio della vita. I campi di mais sono secchi ormai, qualcuno ha già cominciato la trebbiatura, ma non è un secco sano, croccante. L'umidità ha pervaso le foglie avvizzite e le barbe ormai nere, insinuandosi nelle pannocchie gonfie a cercare i tarli della piralide per creare un ambiente ideale a sviluppare muffe che riempiranno la granella e le farine di aflatossine e fumosine cancerogene, che un buon OGM Bt aiuterebbe di molto a limitare, ma tant'è, è inutile combattere contro i mulini a vento dell'ignoranza interessata e talebana. Peggio per chi se le mangerà. Tanti anni fa questo era il momento in cui, noi esperti di sementi, si andava ad aggiornarsi nei campi sperimentali dove, tra i nuovi ibridi , potevi individuare quale strada stava prendendo il miglioramento genetico.

Ci aggiravamo, sempre nella nebbia bassa (che destino questo del mais di finire la sua vita nella lattiginosità inquietante di questo umidore padano) tra le parcelle, valutando le dimensioni delle spighe gonfie ed erette, come orgogliosi misirizzi, nella loro mostruosa produttività, o apprezzando piuttosto l'assenza di marciumi, segno di maggiore resistenza della nuova cultivar. Farsi largo tra culmi che crocchiano al tuo passaggio, cercare di evitare le fastidiose carezze maligne dei bordi fogliari taglienti, resistere al prurito causato dal polverino rinsecchito che aleggia tra le file. Ma la curiosità di valutare, di far paragoni, di scegliere quello che ti pareva un miglioramento davvero utile, era comunque stimolante e pieno di interesse. Ora tutto questo è morto, nessuno fa più ricerca in Italia, non interessa investire in tecnologia, non è considerato importante pensare al domani. Sembra un costo. Incredibile, così tutte le linee, i frutti di decenni di studi, se le sono comprate gli altri che adesso ce ne rivendono i frutti. Per tutto il comparto sementiero, siamo ormai completamente dipendenti dall'estero. D'altra parte i soldi servono per altro. I 42 miliardi di euro per i nuovi cacciabombardieri, quelli ci sono.


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venerdì 18 settembre 2009

Giallo granturco.

Mezzo sole e mezze nuvole. Tempo buono per girare in campagna, almeno finchè non piove. Sul bordo del campo, stando attento a dove metti i piedi. Nella mia prima vita, quando facevo il sementiero, questo era il tempo di andare, prima ad Idice e poi a Badia Polesine, a vedere le novità nei campi sperimentali. Il mais era lì, quasi pronto in belle file ordinate, quasi completamente secco lo stocco e le foglie, la pannocchia apicale ancora eretta, ma per poco, le spighe enormi che quasi scoppiano nel tentativo di liberarsi delle brattee con le barbe ormai scure e le centinaia di cariossidi dorate che fremono per mostrarsi ancora traslucide, ansiose di lasciarsi alle spalle quello stato ceroso interno che le fa gonfie, prima di cominciare il rattrappimento che precede la completa maturazione. Che pianta straordinaria il granturco. Una vera macchina da produzione. Completamente artificiale, nulla di quanto si vede oggi esisteva anche solo poche centinaia di anni fa. La selezione prima, poi gli incroci continui, infine l'ibridazione hanno trasformato una timida pianticella, il teosinte, che metteva sul pennacchio poche unità di sparuti granelli in un fenomeno produttivo che sforna centinaia di semi in pochi mesi aggiunti a kili di massa verde. Tutto artificiale; la specie scomparirebbe in una stagione se qualcuno non sgranasse la spiga per separarne i semi prima di riseminarli. Se cadesse a terra tal quale, le centinaia di germogli, troppo vicini non avrebbero la forza di dare luogo ad una nuova pianta. Ci infilavamo tra le file di piante tastando, confrontando, misurando il miracolo della ricerca, del miglioramento genetico, allora non avevano ancora cominciato a chiamarli OGM, incuranti del fastidio micidiale sulla pelle, che dopo un po' veniva rossa e il prurito si faceva quasi insopportabile. Ma volevamo valutare se il carattere foglie strette permetteva di seminare più ravvicinato o se l'incrocio con quella femmina più resistente alla siccità aveva dato piante più vigorose. Poi ce ne tornavamo a casa e si organizzava la visita al campo prova, dove le nuove varietà faceva bella mostra di sé su qualche fronte strada della provincia. Si controllavano i cartelli con i nomi, la qualità delle piante, poi il giorno della manifestazione, arrivavano gli agricoltori e i concorrenti ad osservare, ad informarsi , a criticare. Il rinfresco, semplice per la verità, era un po' il clou della festa; molto vino della nostra cantina sociale che si auto pubblicizzava e i tavolini con le file di cartelline preparate in bell'ordine con i dati delle varietà. Andavano subito a ruba, come tutti i gadget di qualsiasi tipo appoggiati di fianco, dai cappellini alle biro, ma le cartelline erano le più richieste, forse perchè corredate da un bel block notes per gli appunti. Quasi sempre un paio di agricoltori burloni ritiravano subito le prime e infilavano di soppiatto tra i fogli un paio di biglietti da 100.000 Lire, aprendole poi, come per caso di fianco ad un gruppo di altri ed infilandoseli con noncuranza in saccoccia e subito, con sguardi prima incerti e poi avidi tutti correvano a servirsi, sfogliandone con precipitazione i depliant interni, poi delusi di non trovare nulla, posavano il malloppo e lo scambiavano con un altro, più volte, guardandosi intorno furtivi, non prevedendo la nuova delusione, tra le sghignazzate degli abitué che già conoscevano lo scherzo. Poi invariabilmente cominciava a piovigginare e si tornava tutti a casa bagnati con qualche grande spiga di mais dorata da appendere in cucina.

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