martedì 2 aprile 2013

Scarpe rotte.

Piove ed il tempo è grigio, come è raro vedere anche in questa grigia città di provincia che ha denominato Grigi i propri calciatori. Non ti viene neanche la voglia di uscire, visto che devi fare lo slalom tra le buche piene d'acqua sui marciapiedi e sull'asfalto ormai sconnesso, la cui riparazione,  il dissesto finanziario ha lasciato ai posteri ed io ho le scarpe consumate e non ho voglia di bagnarmi i piedi. Era la prima cosa che mi chiedeva mia mamma, quando rientravo a casa dopo la pioggia: se avessi i piedi bagnati. Per le attente madri degli anni cinquanta per cui si poteva andare a giocare in strada senza correre pericoli e senza essere sotto costante sorveglianza, restare con i piedi bagnati era foriero di disgrazie catastrofiche, come minimo pleuriti e polmoniti varie, a cui la maglia di lana e le mutande lunghe, mani sante in ogni caso, avrebbero frapposto una troppo timida barriera. Dopo di che, finiva invariabilmente allo stesso modo. Me la vedo ancora la mia mamma che, brandendo le umide calzature andava da mio padre con aria imperiosa: "Is fanciòt us bagna i pé!". Iniziava allora la procedura standard. Mio padre, appena libero dal lavoro, andava in un negozietto di via Milano e tornava a casa con tutto l'occorrente. Suole nuove e colla tedesca, potentissima. Anche lui come me successivamente, si era lavorativamente riciclato nel mezzo del cammin della vita. Era, è vero, Ferroviere Capo deviatore, ma dai 16 ai 30 anni, credo, aveva lavorato in una azienda artigianale di scarpe e  questa competenza manuale, aveva mantenuto per il resto della vita. Sapeva fare le scarpe a mano il mio papà. Mica male. 

Aveva, in camera da letto, ben coperto da fogli di giornale, che nessuno ci mettesse le mani,  un deschetto da ciabattino fornito di tutti gli strumenti del caso, alcuni costruiti da lui stesso. Trincetti affilati d'acciaio, lesine dalla punta ricurva per forare il cuoio, spaghi idonei, un pesantissimo "piede" di ghisa a tre dimensioni di suola in cui infilare la scarpa da riparare, uno speciale martello ricurvo e ogni genere di chiodi di tutte le dimensioni, incluse le cosiddette semenzine che si metteva in bocca per poi prenderle ad una ad una e piantarle nelle suole. Tutto il deschetto era cosparso di ritagli di cuoio, tacchi e altri strumenti di cui non so il nome. Mentre io stavo a guardare, si sedeva su uno sgabello basso, con un pesante grembiale sulle ginocchia, ritagliava il disegno della suola su un foglio di giornale poi, trinciava la pezza di cuoio e dopo averla ben smerigliata con la carta vetrata zero, la cospargeva della famigerata colla tedesca (brevetto teutonico), usando un dito che poi rimaneva irrimediabilmente impiastricciato per ore. Aspettava dieci minuti canonici, che conferivano alla colla la sua presa micidiale, quindi la applicava alla scarpa da risuolare, infilata nel piede di ghisa e liberata dalla suola vecchia. La ribatteva bene col martello in modo che fosse bene aderente, poi col trincetto rifilava con precisione le parti debordanti della nuova suola, che successivamente lisciava con un altro attrezzino che era stato fatto arroventare sul gas. 

A volte il guaio era più grave e la tomaia aveva qualche punto in cui non era più aderente alla suola. Allora bisognava provvedere alla formidabile doppia cucitura, con un grosso ago e spago da ciabattino, dopo aver fatto tutta una serie di fori tra tomaia e suola con la lesina. Lavoro di precisione che non doveva in alcun modo trasparire dall'esterno, a cui si applicava con calma calcandosi gli occhiali sul naso. Dopo che la cucitura era stata ben ribattuta, si riapplicava la fodera interna e a fine mattinata le scarpe erano pronte. Le metteva per terra e me le faceva provare. Caméina 'n po' e uarda s'it fan ma' i pé. Andavo avanti e indietro due o tre volte in cucina, davo il mio assenso informato e mamma si impadroniva al volo delle calzature, ormai come nuove e le lucidava con grande cura e attenzione con il Brill nero, steso su una pezzuola morbida. Il giorno dopo non mi bagnavo più i piedi, anche se c'era l'uragano. Come erano comode quelle scarpe appena risuolate, ti sentivi il piede più caldo; allora forse non me ne rendevo conto, anche se me lo sentivo dentro, ma era quasi come se fosse stato avvolto da un abbraccio affettuoso, pieno d'amore. Adesso, le scarpe consumate, devo buttarle via,  ma mi manca l'odore penetrante di quella colla ed anche il mio papà mi manca molto, eppure, coi piedi bagnati non mi è mai venuta la pleurite.


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6 commenti:

Anonimo ha detto...

Carissimo,
il tuo pezzo "Scarpe rotte" è un piccolo capolavoro!!!!!
Già il titolo fa pensare al canto popolare delle brigate partigiane liguri-piemontesi: Fischia il vento ... scarpe rotte e pur bisogna andar...
Poi, sono favolosi i particolari dei gesti e delle parole della narrazione. Fanno rivivere, nel senso più pieno della parola (siamo nel periodo della Risurrezione), i dolcissimi periodi della pubertà e delle elementari.
Le mamme e i papà erano così, parlavano così (che bello il nostro dialetto: siamo grigi, ma che bel grigio!), si preoccupavano così e rimediavano così.
Quando poi racconti dell'armamentario e delle procedure di tuo papà, raggiungi i vertici della poesia, della prosa, della musica, dell'arte, dell'artigianato, dello spirito del ciabattino.
Bravo, bravo, bravo!!!!
Sono molto orgoglioso di averti avuto come compagno di scuola "a vita". Mi correggo: non l'infinito passato, ma l'infinito presente.
Di AVERTI come compagno di scuola a vita!
Caro Bo, continua così, che diventerai la soddisfazione dei tuoi genitori.
Un bel 10 sulla pagella del secondo trimestre.
Se non puoi farla firmare da tuo padre, falla firmare da chi ne fa le veci. Tua moglie o tua figlia...
Una caldo abbraccio primaverile (diciamo un tiepido abbraccio) dal tuo compagno
GMB

Enrico Bo ha detto...

@GMB - Sei sempre troppo gentile, ho le lacrime agli occhi, ti abbraccio gemendo. Vado a prendermi un pezzo di uovo rotto di cioccolato (la mia mamma me li comprava sempre all'Oriental, subito dopo Pasqua) per tirarmi su. magari ci faccio un post sulle uova rotte.

Anonimo ha detto...

Tranche de vie de ma jeunesse , mon grand-pète était cordonnier et fabriquait chaussures et bottes à la main .L'odeur du cuir et de la colle au néoprène me transporte toujours 50 ans en arrière .J'adorais le regarder travailler.
Jac.

Enrico Bo ha detto...

@Jac - Les memes sensations!

Anonimo ha detto...

Tempi duri allora ma non c'era il mal di vivere attuale. I nostri genitori senza chiamarci "amore " o "tesoro"o "ti voglio bene" ecc..
manifestavano il loro affetto con i gesti e gli sguardi perchè anche nei confronti dei figli c'era il pudore di rendere evidenti i sentimenti. Grazie per questo bellissimo ricordo.


Paola

Enrico Bo ha detto...

@Grazie a te Paolotta!

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