sabato 15 febbraio 2020

Nelle pieghe dell'Uzbekistan



E prendiamoci una piccola pausa nel mio excursus cinese, anche perché in fondo, la vita è come un package tour turistico e prima o poi deve finire, meglio poi, aggiungerei io. Dunque cosa c'è di più divertente, quando ti ritrovi vecchio e bolso pensionato, peso esagerato per le successive generazioni, con qualche antico compagno di lavoro, che rimembrare episodi del passato che, proprio per essere ormai cosi lontani nel tempo, sono avvolti da quell'aura favolistica che li fa apparire come eventi impossibili o troppo arricchiti di fronzoli edulcoranti. Noi che abbiamo avuto il privilegio assoluto di conoscere dal di dentro il periodo terminale dell'Unione Sovietica, ne abbiamo a bizzeffe da raccontare, uno più gustoso dell'altro. Proprio ieri un caro amico mi ricordava di quella volta in cui era in una cittadina dell'Uzbekistan con una squadra di montatori per completare una linea di macchinari. In quel tempo (mi sembra un incipit da passo biblico) gli stati dell'Unione erano delle semplici province che il potere centrale uniformava ad una sorta di pensiero unico, in cui la periferia era addirittura più realista del re. Dunque lui svolgeva la funzione logistica di contatto e di traduzione tra i locali e i nostri montatori e quando alla fine, l'operazione stava volgendo al termine, organizzò nell'albergone sovietico dove erano confinati gli stranieri, una festicciola di addio, dopo aver messo mano alla famosa cassa che si allegava sempre alle macchine in spedizione dall'Italia e che di norma conteneva una congrua quantità di pacchi di pasta, salumi, un prosciutto e una forma di parmigiano, assieme ad un'ampia dotazione di lambrusco, dato che alcuni dei presenti avevano provenienza emiliana, che serviva a mantenere in vita la gente durante il paio di mesi necessari a completare il montaggio.

Alla festa furono invitati i nuovi amici della fabbrica e si diede fondo alle rimanenze della famosa cassa, per non lasciare indietro niente e nessuno, visto che dopo poco bisognava ritornare in patria. La festa andò avanti fino a tarda notte e le bottiglie, assieme a quelle onnipresenti di vodka portate dai locali, cominciavano ad accumularsi vuote, come di consueto, sul pavimento. Qualcuno cominciò a lasciare la compagnia, i più trasportati a braccia a causa del tasso alcoolico ormai piuttosto alto che impediva una camminata regolare. Alla fine rimase solamente un gigantesco tizio, coi baffi spioventi ed un solo sopracciglio che gli attraversava tutta la fronte, che non aveva profferito parola per tutta la sera e che tra l'altro, in fabbrica si era visto assai poco, assieme al suo sottopancia, parimenti gigantesco e come lui, muto e privo di espressione come gli orsi bianchi, forse anche lui senza la dotazione dei necessari muscoli facciali. A questo punto, il soggetto, forse un Kazako o un appartenente alle tante miscele di etnie dell'Asia centrale, si alzò in piedi sollevando il bicchiere pieno per l'ennesima pridlajenia, la classica dichiarazione obbligatoria che si fa proponendo il brindisi, all'amicizia tra i popoli, alla salute dei presenti o a una qualunque di tutte le altre scemenze che si dicono in questi casi. 

Dunque, con le gambe un po' malferme, il tizio arringò: - Daragoi tovarish (cari compagni, usando questo vocabolo destinato a diventare presto desueto e dimenticato), voi non sapete chi io sia in realtà, ma io sono il commissario politico incaricato di controllare tutta questa operazione - e qui qualcuno cominciò a preoccuparsi - e devo dirvi che raramente ho visto una tale comunione di intenti tra i lavoratori - e la tensione cominciò a sciogliersi. - Perché dovete sapere che qui in Uzbekistan, noi siamo i veri comunisti dell'Unione Sovietica, molto più rispettosi dell'ortodossia del risveglio delle masse operaie che presto trionferà sul mondo occidentale corrotto, che non negli uffici di Mosca, popolati da migliaia di funzionari molli e inquinati di idee reazionarie e quindi apprezziamo grandemente il vostro contributo alla nostra causa. Quindi a voi levo il bicchiere della nostra imperitura amicizia per augurarvi una lunga felicità comunista.- Ciò detto alzò ancora la tazza piena di vodka e la vuotò di colpo come si usava. I nostri rimasero un attimo interdetti, quando, il capo dei nostri montatori si alzò anch'egli, se pur con gamba malferma e con un colpo di teatro, si sbottonò i pantaloni, calandoseli un po' lungo la gamba, tra lo stupore generale. - Caro compagno, gridò con la voce rotta, non si sa bene se per la commozione o per la quantità dell'alcool ingerito, tu non hai idea del piacere che ci fanno queste tue parole, me ti assicuriamo che nella mia terra siamo ancora più comunisti di voi. - ed esibì con orgoglio un paio di mutande rosse all'attonito commissario, al quale, sentita la traduzione da parte del mio amico, la perplessità per il gesto, si mutò subito in entusiasmo irrefrenabile per cui, lasciata la poltrona, si precipitò sul nostro per cingerlo, dall'altezza dei suoi due metri e forse duecento chili, in un abbraccio irrefrenabile. 

Il risultato fu che nella foga irruente dell'acme politico, gli spezzò due costole. Il ritorno a Mosca in treno fu durissimo a causa del dolore provocato dalla frattura ed essendo gennaio, con temperature che allora oscillavano attorno ai 20 sotto zero, il tizio si beccò anche una robusta polmonite e all'arrivo nella capitale fu confinato all'albergo Minsk, un tugurio miserevole per maestranze di basso profilo, dove fu isolato per una quarantena di un mese, mentre ogni giorno veniva un sedicente medico del partito a fargli una iniezione da cavallo di un antibiotico speciale prodotto nei laboratori del Cremlino ea sua detta destinato solo agli alti papaveri. Il mio amico gli rimase accanto per sostenerlo fino al suo ritorno in Italia, dalla quale in seguito il tizio in questione rifiutò di fare ulteriori trasferte in URSS. Come vedete il racconto di Peppone in Russia, nel film che hanno ridato per l'ennesima volta qualche settimana fa, non racconta niente di impossibile, anzi la fantasia di Guareschi era forse inferiore alla realtà di quei momenti irripetibili che noi abbiamo avuto l'opportunità di vivere. 



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