martedì 21 luglio 2009

L'ingegnere ferroviario.

Tutte le volte che, dalla finestra di casa mia, sento lontano il fischio del treno nella notte, un piccolo tarlo mi rode dentro a causa di una delusione che diedi a mio padre. Il suo sogno di deviatore capo che faceva i turni su una garitta della linea Torino-Genova, era che un giorno il figlio diventasse Ingegnere delle Ferrovie; sì, in maiuscolo, come questa figura mitica che lui aveva visto solo qualche volta e che avrebbe significato il suo riscatto di fronte ai colleghi e il premio ai tutti i suoi sacrifici. Fu contento ugualmente di vedermi laureato e agronomo al tempo stesso, ma non era la stessa cosa. Per questo mi iscrissi al Politecnico di Torino, in fondo mi piaceva la matematica anche se venivo dal classico e tutti dicevano che in seguito proprio per questo sarei stato avvantaggiato. Purtroppo il primo anno di libertà e di mancanza di marcatura stretta, mi furono fatali. La frequenza fu scarsa, anche se la frequentazione di un compagno di corso napoletano, mi fece apprendere con profitto l’arte della carambola francese. Così giunto alla sessione di luglio, come tutti i pessimi studenti mi gettai a capofitto, giorno e notte, nello studio, nella infame speranza di recuperare il tempo perduto, arrancando inoltre per cercare di risalire l’ulteriore gap classico che mi portavo dietro dal liceo. Decisi di affrontare almeno i due esami chiave: Geometria 1 e Analisi 1, i due scogli dirimenti per capire se la tua capoccia è in grado di arrivare in un modo o in un altro a vedere il traguardo finale. Riuscii inopinatamente ad avere una stentata sufficienza allo scritto di geometria e mi recai all’orale con un’idea del tipo io speriamo che me la cavo. Il terribile prof. Longo, mi fece accomodare ed esaminato il mio scritto stentato, mi fece una domanda subito rimasta senza risposta. Mi disse:”Passiamo oltre che vedo che questo non è alla sua portata.” Alla seconda domanda tentai di farfugliare qualcosa, ma con poca convinzione. Mentre mi poneva la terza e presumibilmente ultima, strappò un angolo del mio compito e arrotolatolo, si mise a frugarsi il cerume dell’orecchio destro. Capii allora che la mia tornata stava per scadere; mi disse infatti: “E’ meglio che ritorni” e me andai con le orecchie basse. Mi rimaneva un mese per Analisi. Dopo dieci giorni di studio indefesso, non capivo nemmeno più che ora era, ma in un pomeriggio caldissimo, aprii una pagina il cui titolo recitava: I rotori. La lessi da capo a fondo una volta e poi una seconda per fare il punto della situazione. Non capivo nemmeno il significato delle parole. Come in un flash realizzai che stavo perdendo il mio tempo, che tanto nella mia testaccia dura quei maledetti rotori non avrebbero mai trovato il giusto spazio. Chiusi il testo con un sospiro. Uscii ed andai a vedere un film giapponese, allora i cinema erano aperti anche al pomeriggio. Così mi iscrissi a scienze agrarie e la mia vita prese un'altra strada. Mio padre non disse nulla, ma alla parola ingegnere ebbe sempre a fare una smorfia triste e un sospiro trattenuto, quasi per non offendermi.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Pensa che mia madre mi avrebbe voluto ferroviere, neanche ingegniere, ferroviere e basta.
E sono riuscito a deluderla lo stesso.
Dottordivago

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

IngegnIere con la i?
Mi ricordi la triste storia cui dedicai un limerick:

Un giovane mafioso di Corleone
dei trenini aveva l’ossessione.
Gli arrivò questo pizzino:
“Picciotto non sei, sei cretino”.
Non fu capostazione, né capobastone.

Enrico Bo ha detto...

opss. corretto!

Anonimo ha detto...

Beh, già che c'eri potevi togliere pure la mia "i", che non ho mai messo in ingegnere, ma leggendo la tua mi sono detto:"ingegniere?
Beh, se l'ha scritto l'Henry..."

Un succube Dottordivago.

Enrico Bo ha detto...

Caro Doc
non c'è più niente da fare quando metti una cosa nei commenti , non c'è modo di rettificare. scripta manent. E' la maledizione del web o per lo meno io non sono capace

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