giovedì 2 luglio 2009

Una morte meritevole.

Credo che uno dei pochi posti del mondo dove ancora oggi si possano trovare culture e stili di vita completamente diversi dalla nostra, non ancora omologati, sia l’Indonesia. Saltando di isola in isola se ne trovano molti di questi popoli “primitivi”, in realtà vivono solo in maniera diversa dalla nostra, e sono tra loro tanto diversi come lo sono paragonati a noi. Non è soltanto questione di vestirsi in maniera tradizionale come i Dayak del Borneo o i Batak di Sumatra, di portare l’astuccio penico come i Dani in West Irian (chissà come è scomodo, in certe situazioni, poi), ma proprio del modo di vedere ed intendere la vita. Una di queste popolazioni vive in una zona montuosa e un po’ isolata al centro dell’isola di Sulawesi. Non pensate ad Indiana Jones, basta arrivare all’aeroporto di Udjung Padang e ci trovate un sacco di gente che, per la giusta mercede vi accompagneranno per un piccolo trekking di tre o quattro giorni nella zona. Vivono sparsi in piccoli villaggi e praticano una agricoltura tradizionale basata sulla risaia e l’allevamento del bufalo che è un po’ il centro della loro cosmogonia. Come non capire, dà loro latte, carne e forza lavoro, praticamente dipendono dal bufalo, per forza che ne fanno l’asse portante della loro vita. E della loro morte. Ecco questo è l’aspetto più inquietante di questa gente. Tutte le attività, i pensieri, i comportamenti quotidiani della loro vita sono finalizzati ad un unico scopo: il momento della morte e della conseguente cerimonia funeraria. Forse solo nell’antico Egitto questo aspetto è così ossessivo e presente in ogni atto quotidiano. Poiché i mesi estivi sono liberi da attività agricole, in questo tempo si celebrano i funerali. Ma ohibò si muore tutto l’hanno, allora come risolvere la faccenda? In ogni casa, bellissime costruzioni con alte facciate a forma di prora di nave colorate per ricordare la leggenda che li vuole arrivati dall’Oceano, c’è una stanza in cui si mette l’eventuale morto, sottoposto a particolari trattamenti perché resista anche un anno (l’odore comunque non è gradevolissimo), e si usa per lui una parola specifica che significa malato gravissimo che comunque non guarisce più. Morto lo si può definire solo dopo che è avvenuta la cerimonia funebre, nel corso della quale viene disperso quasi l’intero patrimonio accumulato dal defunto; un modo di redistribuzione della ricchezza che in altre culture viene affidato ai matrimoni. Il metro del successo nella vita si misura con la dimensione del proprio funerale. La cerimonia può durare anche un mese. Si costruisce un piccolo villaggio tra le risaie, dove vengono invitati parenti, amici e interi villaggi vicini a seconda delle disponibilità. La bara in legni finemente dipinti da schiere di artigiani, viene posta su una piccola torre al centro delle costruzioni. La gente arriva e il maestro di cerimonie annuncia le provenienze ed i nomi e il numero maiali che sono stati portati vivi e ben legati a spalla, per essere sacrificati. Come è ovvio, questo è fonte di critiche a non finire sulla tirchieria dei parenti vicini e lontani, quando invece in occasione del loro morto erano stati portati maiali ben più grassi e pasciuti. Infine comincia il sabba dei sacrifici, dei maiali e dei bufali che il morto aveva accuratamente accumulato in vita, in una arena dove il sangue scorre a fiumi tra i muggiti di terrore e i colpi di machete che calano sulle giugulari delle vittime, fatte poi a pezzi, scuoiate e cotte dagli addetti in giganteschi pentoloni ai margini dell’arena. Intanto per giorni e giorni si mangia e si beve e quando si va a casa, a seconda dell’importanza, si riporta un bel pezzo di carne per i giorni successivi in cui si spettegolerà a non finire sull’evento. Intanto i giovani occhieggiano le ragazze dei villaggi vicini (c’è un saggio tabù che proibisce i matrimoni all’interno dello stesso villaggio) e la vita continua. Al termine la bara viene portata in una grotta e buttata per la verità senza troppa cura sulle altre, di decenni precedenti, mezze sfasciate in un ossario alla mercè del mondo. Fuori della grotta si mettono le statuette a sembiante dei defunti. Ci si può fare invitare facilmente ad una di queste cerimonie, basta portare un piccolo dono (qualche stecca di sigarette ad esempio), si viene fatti accomodare assieme ad altri locali e si mangia quello che gli inservienti fanno continuamente girare. Noi ci siamo piazzati vicino ad una famiglia un po’ altezzosa in verità, ma pare che fossero i parenti ricchi del villaggio vicino, avevano addirittura portato un bufalo molto grasso, come ci fecero notare con sussiego prima dello sgozzamento. Questa cultura della morte permea così fortemente questa società, che il ragazzino sedicenne che avevamo assoldato come guida ci fece sapere che parte di quei soldi guadagnati avrebbe cominciato a risparmiarli per comprare il suo primo bufalo che lo avrebbe accompagnato nell’ ultimo viaggio. Diceva con occhi sognanti:”Avrò un funerale che se lo ricorderanno tutti!” e guardava la mia bambina che aveva undici anni con orgoglio, pavoneggiandosi un po’. Curioso vero? Negli altri giorni camminammo di villaggio in villaggio a vedere le splendide case ornate dalle decine di corna di bufalo che testimoniavano l’importanza della casata. Anche questo è un modo di vivere, vivere per la propria morte, per avere la propria piramide più grande degli altri, per guadagnarsi la propria piccola, personale immortalità, forse è proprio questo il file rouge che lega tutte le culture.

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