mercoledì 5 agosto 2009

Gamberoni e rambutan.


La montagna favorisce gli incontri. Proprio l’altro ieri, tra le otto persone che circolavano per il paese, ho ritrovato un caro amico, un vecchio commilitone delle scorribande lavorative che un tempo si facevano in giro per il mondo. Come capita di solito tra reduci (anche se lui è tuttora in servizio permanente effettivo) abbiamo rinverdito i cosiddetti bei tempi ed in particolare quella che rimase nota come la ciucca di Bangkok, un tragico episodio a memento di cosa significa il sacrificarsi per l’azienda. Il cliente era un malese importante che ci aveva invitato a cena in un ristorante sull’acqua, noto per il suo servizio di gamberoni alla griglia più simili a grossi conigli d’acqua e i deliziosi gambuta, frutti all’apparenza spinosi ma delicati. Eravamo una decina attorno al tavolo ed il boss manteneva un atteggiamento cordiale ma molto silenzioso, mentre chi teneva banco era il suo direttore generale, un vietnamita magro e piccolo con due sottili fessure al posto degli occhi. Il nostro agente thai, che aveva combinato la serata, ce lo aveva descritto come un ex vietcong che, finita la guerra aveva capito da che parte tirava il vento e si era guadagnato assieme ai meriti politici, una posizione di rilievo negli investimenti malesi in Vietnam. Anche se parlava un fluente inglese e descriveva con proprietà la linea di presse necessaria all’azienda, io non riuscivo a togliermelo dagli occhi mentre strisciava nel sentiero di Ho Chi Min col pugnale tra i denti, a tendere trappole a Rambo. Gli stessi occhi, la stessa piega di sorriso plastico stampata sulla faccia. Notammo subito che la tavola apparecchiata con sfarzo non comprendeva acqua né altri tipi di soft drink, ma solo una decina di bottiglie di whisky Suntory, il brand giapponese onnipresente in Asia. Come in tutte le cene d’affari che si rispettino fu un continuo brindisi a cui non è facile sottrarsi, sollecitati dai vari avventori, in particolare dal viet che, ad ogni istante si alzava proponendo imperitura amicizia tra i popoli e riempiendo i nappi per bisogna, in particolare quello del mio amico che gli era seduto particolarmente vicino e che era quindi sottoposto a particolare pressione. La giornata era stata dura, trascorsa accanto la pressa dimostrativa, montata nei pressi di un campo da golf, a sparare migliaia di tappi tra la meraviglia dei P.C. (probabili clienti); la sera era caldissima; il ghiaccio nei bicchieri tintinnante; il whisky scorreva delicato nelle gole. Arrivò il temuto momento del Karaoke, imprescindibile come il golf, se volete fare affari in oriente. Io e R. ci esibimmo ovviamente in O’ sole mio, d’obbligo per gli italiani in trasferta, il nostro Narupon una delicata canzone orientale, inframmezzata da innumerevoli Kap, il suo tipico intercalare thai, mentre il nostro ospite si esibì in una strappalacrime On my own con il vietcong che faceva da controcanto con gli occhi sempre meno visibili, notai però che, di tanto in tanto ricolmava malignamente il bicchiere del mio amico che era sempre più sotto sforzo. La serata volgeva al termine e dopo i saluti di rito i nostri ospiti ci lasciarono, il viet guardava di sottecchi, scomparendo come lo stregatto con un sorriso sempre più falso. Ci alzammo anche noi o perlomeno tutti cercammo di alzarci, chi più chi meno fermo sulle gambe, ma il mio amico no; era immobile con gli occhi vitrei, come anestetizzato da una freccia avvelenata in una risaia del delta. Tentammo di alzarlo e portarlo a braccia nella toilette approssimativa del ristorante, dove subito si aprirono le cataratte. Quando, rovesciato come un calzino lo deponemmo nel letto, temevamo per la sua pur forte fibra. Come dio vuole la notte passò e il giorno successivo fu in grado di riprendere l’aereo che ci riportava a casa. Non si lasciano prigionieri in mano al nemico.


1 commento:

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Pensa se la serata finiva con voi con una pistola in mano a giocarvi la commessa alla roulette russa e il viet che gridava "Mau!".

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