sabato 29 agosto 2009

Tu chiamale, se vuoi, emozioni.


Mi piace molto vedere gli animali selvatici che sguazzano o zampettano a casa loro, beh a chi non piace… Quando ho potuto ci sono andato, certo una cosa è stiparsi nei pulmini che percorrono a dozzine il Masai Mara, un’altra è farsi qualche ora con le ciaspole nei piedi per guardare gli stambecchi, quelli sopravvissuti almeno, nella neve del Gran Paradiso. Anche gli elefanti ed i bufali selvatici nelle foreste indiane dei monti Nilgiri sono una bella emozione, ma secondo me, un posto magico è costituito dai parchi che circondano il delta dell’Okawango in Botswana. La vastità del territorio e la solitudine in cui ti trovi sono la parte definitiva del fascino. In una zona grande più o meno come il Piemonte, entri e per una settimana, può capitare che non incontri nessuna altra macchina, per non parlare, visto che sei andato lì anche per fare qualche bella foto, se non hai una sufficiente scorta di batterie cariche e con gli aggeggi moderni, tutto funziona a batteria; siamo schiavi della tecnologia. Ma se ti dimentichi questo aspetto è come essere un inglese a fine 800, padrone del mondo che gira per le colonie senza confini. La nostra Toyota era come una barca in mezzo al Pacifico, solo savana all’orizzonte. Robert, il cacciatore bianco con cappellaccio d’ordinanza, era un giovane sudafricano sotto la trentina, muscoloso sotto la sahariana caki, biondiccio, barba lunga da vero macho con l’aria di chi può girare l’Africa impunemente come se fosse nella piazzetta di Sestriere. Tipo interessante, che non parlava mai a sproposito e che le mie due donne guardavano con occhio umido (pare che somigliasse a Tom Cruise, sicuramente per l’altezza secondo me), di certo sapeva trattare femmine e belve feroci con la stessa competenza. Al mattino, fiutava l’aria, certamente per sentire l’odore della selvaggina lontana e indicava la via da percorrere lungo le piste polverose ad Al, un bantù, che oltre a guidare si occupava di tutti i lavori, dal montaggio del campo alla cucina, aiutato da un ragazzo australiano che si faceva una esperienza col programma di mettere in piedi una agenzia di viaggi naturalistici in Tasmania, a suo dire, terra di grande interesse. Abbiamo visto tutto quello che volevamo vedere e abbiamo avuto tutte le sensazioni di wilderness che volevamo sentire. Imprigionati in un branco di bufali che bloccavano l’auto, fermi per ore con una famiglia di leoni a divorare una giraffa (loro), seduti in un campo mentre gli elefanti ci passavano dietro la schiena, attenti a schivare le cacche che i babbuini ci tiravano dagli alberi, sotto i quali avevamo saggiamente evitato di mettere le tende, immobili per non fare innervosire mamma ghepardo mentre leccava il suo piccolo, svegli a sentire il tremendo rumore degli ippopotami che scendevano lungo la riva della palude masticando fogliame. Quella sera Robert aveva cucinato sulla griglia di fortuna delle succulente bistecche, che misteriosamente saltavano fuori di tanto in tanto dalla cambusa senza fondo del trailer, una vera delizia, tenerissime e saporite, innaffiate da sidro locale di cui alla partenza avevamo fatto una scorta notevole. Prima di ritirarci nella nostra tenda, Robert, che invece dormiva à la belle etoile sul tetto della Toyota, ci disse con fare circospetto, di non uscire durante la notte perché poteva essere pericoloso, limitandosi al più ad aprire appena la zip della tenda se sentivamo rumori, borbottando qualcosa a proposito di iene e leoni. Ci coricammo alla chetichella in vigile attesa. Dopo un’oretta, la tenda era circondata di fruscii sospetti, di strappetti, leggeri mugolii, grattare nervoso di unghioli. Tra sentimenti contrastanti, tirammo giù un poco la lampo del frontale; era una notte luminosissima di luna quasi piena che rischiarava bene la savana davanti a noi. Nella spanna di apertura, allargata con le dita, io e le mie due donne, cercavamo di abituare gli occhi all’oscurità, ma incrociammo subito due, poi subito tre paia di pupille gialle che ci fissavano alla distanza di un metro. Si muovevano rapide, neri nasi umidi annusavano il terreno verso di noi, zampe nervose grattavano il terreno in cerca di cibo spostando le pietre. Tre grosse iene stavano davanti alla nostra canadese ispezionando con cura tutta l’area. Ci tenevano d’occhio con la noncuranza di chi è padrone a casa sua e ti vuol far sentire intruso. Dopo una mezz’oretta come erano venute se ne andarono. Non ci furono altri visitatori quella notte. Un’emozione forte, ricordo ancora bene i rumori, i fruscii, l’alito fetido e l’ammirazione per il cacciatore bianco. Prevedeva tutto, il magnifico, anche le emozioni, gran cosa l’esperienza. Al mattino, di fronte alle uova e pancetta che Al aveva preparato, ci guardavamo contenti e ci chiedevamo stupiti di come fosse possibile prevedere gli eventi in quel mondo selvaggio. Anche mia figlia aveva vissuto le emozioni della nottata con grande intensità, aveva solo sedici anni, ma mentre risalivamo sulla Toyota per andare verso la palude del delta mi disse: “Guarda che l’ho visto ieri sera Robert che sfregava il grasso delle bistecche sulle pietre davanti alla nostra tenda”. Non c’è niente da fare, in questo mondo omologato e globalizzato, quando paghi hai diritto anche alle emozioni impreviste, all included.

3 commenti:

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Hai talmente tante esperienze di vita e di posti da spaventare eventuali commentatori.

Martissima ha detto...

mi è sembrato di leggere il capitolo di un libro...salvo poi capire che il soggetto eri proprio tu........chiamiamole senza remora alcuna Emozioni con la E maiuscola.

Enrico Bo ha detto...

ragazzi non esagerate troppo se no si capisce subito che mi state prendendo per i fondelli

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