domenica 16 maggio 2010

Lettere dalla Kampuchea 12: Il libro della jungla.

C'è almeno un chilometro di bosco fitto prima di raggiungere la bassa muraglia ed il Victory gate per uscire da Ankor Thom. Attraversi il lungo ponte e subito ai lati altri due complessi templari, uno in rovina, il Chau Say, l'altro perfettamente conservato, il Thommanom, due templi quasi gemelli ,dove si pone davanti il prima e il dopo, la bellezza dell'essere e la disgregazione del non essere. Quasi non sai se sia più attrattiva l'una o l'altra delle due condizioni, entrambe così perfette nella loro apparenza. Fuori di Angkor, i turisti si sono diradati drasticamente. Sembra che la fretta del mondo moderno vieti alla maggior parte delle persone di godere di tutto quello che c'è al di là dei muri principali, così, di norma, tutto questo viene trascurato. Che perdita! C'è solo una monaca dal cranio rasato nel Thommanom. Mi metto in un angolo a seguire il suo rituale silenzioso, una piccola puja di frutti, il ritmico movimento di qualche bastoncino di incenso; intorno il rumore della foresta in mezzo alla perfezione dell'arenaria rosata, dei terrazzini, degli stipiti diritti, delle guglie ornate, delle leggerissime tonnellate di pietra. Me ne stacco a fatica, ancora un paio di curve poi l'immensa piramide del Ta Keo, dove la voglia di raggiungere il cielo si misura nella serie di terrazze sovrapposte, nell'infinito susseguirsi dei gradini per arrivare a dominare la jungla dall'alto, in una sorta di déjà vu mesoamericano, testimone della identità comune della immaginazione dell'uomo. Al di là, la jungla si infittisce, mentre il sole si fa alto ed il caldo opprimente consiglierebbe il riposo. Ma dopo poco, da una stretta porta si apre la meraviglia delle meraviglie, il luogo forse più coinvolgente di tutti, un sogno di pietra avvolto dalla foresta. Il Ta Prohm è testimone di una simbologia unica ed eterna. La lotta continua dell'uomo e della natura che coesistono tentando inutilmente di sopraffarsi l'uno con l'altra, in una battaglia epocale da cui nessuno, per fortuna esce mai vincitore. Entri attraverso brecce tra i muri spessi e tutto sembra crollato, morto, distrutto. Le grandi pietre scure ammonticchiate giacciono al suolo scompostamente come spazzate via da una forza superiore che abbia voluto dimostrare la piccolezza del costruttore, la sua incapacità di realizzare qualche cosa che potesse resistere al tempo, ma subito dopo indovini cortili e recinti, passaggi e camere ancora in perfetto stato, ma mostruosamente avvolte da radici d alberi giganteschi che mai ti sembra di aver visto in natura, che in un abbraccio mortale avvincono la pietra come per tentare di stritolarla, tentacoli smisurati che soffocano i muri distorcendoli, penetrandoli con filamenti più sottili, malignamente. Le costruzioni, coperte di muschio verde, soffrono disperatamente nel tentativo di sottrarsi alla stretta, per tentare di respirare, di scrollarsi di dosso quel peso terribile; qualcuna ha ceduto ormai e giace abbattuta, vinta definitivamente, altre sembrano uscire vittoriose dalla morsa e si alzano ancora libere, mentre le grosse radici chiare corrono ondeggianti ai loro piedi, come messe in fuga. Non c'è luogo che abbia visto, dove questa lotta primordiale sia così avvincente e piena di fascino. Se ti siedi in qualche angolo solitario, vieni anche tu subito avvolto dai suoni della jungla, decine di uccelli diversi che cinguettano, sibilano, chiocciano richiamandosi in continuazione. Frullio d'ali sugli alberi più alti, poi un rincorresi di piccole scimmie dalle fauci rosate, colori di farfalle che si posano leggere sulle pietre antiche. Tutto lo scenario è immobile attorno a te, ma nell'aria spessa, sotto l'afa opprimente, la sensazione è che tutto sia in un pur lentissimo ma continuo movimento, il terreno che a poco a poco si solleva al protendersi infido delle nuove radici, che bramano avvolgere, conquistare, sopraffare l'opera dell'uomo e questa che tenta di resistere all'abbraccio mortale per formare una situazione di statica bellezza, di immagini da cui non riesci più a staccarti. Che gioia esserci stato e che fortuna esserci arrivato in questa stagione, quando caldo e fatica tengono lontano la folla, lasciandoti solo tra queste mura contorte a sentire il respiro della foresta. Ma alfine bisogna andare, camminando lentamente sotto gli alberi, con l'aria spessa che brucia i polmoni. Davanti al bacino dello Sras Srang, un gruppo di capanne aspetta le poche persone che arrivano. Una dà acqua fresca e riso. Anche la birra, scelta tra le lattine avvolte da pani di ghiaccio, è bella fresca. Mi abbandono su un' amaca davanti all'enorme stagno artificiale. Lontano nell'acqua, gruppi di bambini giocano nel fango basso, qualche pescatore tira su le nasse. Gli occhi, stanchi di tanto splendore, si chiudono. Meno male che non ci sono zanzare.

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2 commenti:

bussola ha detto...

che costruzioni spettacolari.... veramente un viaggio mozzafiato...

Enrico Bo ha detto...

e soprattutto facile facile, ti assicuro è un viaggio per tutti, tra l'altro anche molto economico.

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