Oggi lascio l'area di Angkor per godermi il Benteay Srey, forse il tempio più raffinato della Cambogia. Anche se sono solo le sette del mattino l'aria calda arriva a zaffate, fastidiosa come
colpi di phon dati con distrazione da un parrucchiere ubriaco, quando i capelli sono già asciutti. Andiamo verso colline lontane ed i piccoli gruppi di capanne che sfilano lungo la strada sono sempre più miseri ed essenziali. Nei grandi orci disposti intorno ai muri di foglie secche di palma, un residuo di acqua piovana verdastra, segno che la stagione secca è al suo culmine. Anche se di tanto in tanto si addensano masse minacciose di nuvole nere, il cielo non è ancora disposto a lasciarle sfogare, a consentire che l'acqua scorra a torrenti per ridare vita e speranze ai campi bruciati, alle gole arse.
Si sente lontano, qualche tuono, mendace segnale di una promessa che anche oggi non sarà mantenuta. Il tempio isolato nella jungla è l'ennesima scoperta, rosso di pietra corrosa dal tempo, circondato da un fossato ormai trasformato in scarna palude in cui i loti sbocciano con fiori bianchi e violetti. Sono come al solito solo ad inoltrarmi nel sentiero che conduce al basso portale d'ingresso; un guardiano assonnato, mi controlla di malavoglia il biglietto e finalmente posso fare un giro attorno ala cinta muraria da cui si godono splendide viste del complesso. Entro dalla porta nord, dove la consueta orchestrina di invalidi da mina, la cui presenza mi suggerisce che non rimarrò solo a lungo, comincia un concerto personalizzato per il suo unico spettatore. Non posso sottrarmi e lasciato il consueto obolo, entro tra i muri cadenti e cammino nei cortiletti ricoperti di piccole costruzioni. Tutta la costruzione è estremamente armoniosa e proporzionata. La parte centrale poi, è anche completamente
leggibile e completamente conservata. I fregi che ricoprono le facciate, i frontoni, gli stipiti e gli architravi sono di tale raffinatezza da farti rimanere a lungo davanti ad ognuno, per poterli apprezzare, con calma, in questa luce fantastica che colora tutto di arancio scuro. Le volute complicate delle foglie e dei rami si intrecciano in modi complessi; le divinità raffigurate, nelle loro posizioni più steretipate, ma ricche di dettaglio, impressionano per la loro accuratezza. Hai voglia di fermarti a lungo, scambiando solo il tuo respirare corto con quello più disteso e pieno della foresta, dalla quale viene una continua serie di rumori, di sbattere d'ali, di grida d'animali. Rimango ancora, seduto davanti ad un lingam imponente circondato ancora dai residui delle devozioni, finchè non arriva un gruppo di giapponesi a spezzare l'incanto e a ricordarmi che comunque bisogna andare.
Intorno il bosco, nelle cui radure si insinuano le risaie, è ricco di vita; ogni pozza è la salvezza per qualche bufalo stanco. Risaliamo ancora la collina, fino allo Kbal Spean, un luogo santo nel fitto della foresta, che si raggiunge dopo un faticos(issim)o cammino, lungo un sentiero contorto e ripido, tra alberi giganteschi che ricoprono di rami il cielo, da cui pendono liane a rendere ancor più problematico il procedere. Il torrente, meta del cammino è però quasi in secca e le sculture fatte in secoli di devozione sulle rocce del fondo, sono quasi tutte affiorate ed allo scoperto. I mille lingam che devono fecondare le acque che,
carezzevoli, scorrono su di loro, ricoprendoli appena, emergono asciutti e neri, come inutili e sterili, in attesa che il monsone arrivi. Tutto però è coperto di muschio verde e le radici gigantesche ricoprono il suolo assediando lo spazio dove il torrente tenta di farsi largo tra le foglie secche, molte delle quali, invece, sono farfalle giganti che si alzano appena al mio passare per posarsi subito dopo a confondersi con il bosco. La cascatella è anch'essa un rivolo. Seguo il torrente per qualche centinaio di metri per osservare tutte le divinità che le forme delle rocce scure hanno suggerito nei secoli e poi scendo
lentamente a valle. Verso il fondo incontro una coppia di coreani che sale sbuffando; devono ancora soffrire parecchio. Ancora il pomeriggio dedicato al complesso di templi della zona di Roluos. Attorno al Ba Kong è pieno di venditrici di manghi. Grandi, gialli, maturi e profumatissimi. Ne faccio scorta pregustandone la delizia della polpa morbida e succosa. Mi vedo già all'opera col coltellino svizzero, con le mani tutte sbrodolate di sugo appiccicoso; sempre il purgatorio prima di conquistare un pezzetto di paradiso. Chissà perchè tutti questi frutti fantastici hanno un nocciolo così grande?
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