E’ una strada infinita quella che risale le alte valli del Jammu e Kashmir, stretta e pericolosa, su strapiombi mozzafiato. Più di trenta anni fa, quando stavo seduto su uno strapuntino di un vecchio autobus, mi mancava quasi il respiro, non so bene se per la paura nello scoprire le carcasse arrugginite di altri mezzi in fondo ai burroni, se per la quota che rendeva l’aria sempre più fine e leggera o per le immagini straordinarie che scorrevano fuori dai finestrini sporchi. Montagne immense dai fianchi corrosi e disegnati dal vento che cadevano a precipizio nella valle, mille metri più in basso, passi raggiunti a fatica mentre il motore lanciava suoni lamentosi, povere case che si confondevano con la roccia, stesso colore rosso ruggine, stesso senso di antico. Superato il Namika- la ad oltre 4000 metri, mentre pensavi –Toh, son quasi sulla cima delle Alpi!- arrivavi su un fondovalle ampio, circondato da montagne ancora più alte, senza nome, quinte anonime di colossi ancora più imponenti alle loro spalle, quelli sì con tanto di nome e quota segnata sulle carte.
Ancora avanti lungo la piccola strada tutta tornanti, tre giorni di viaggio per arrivare a Leh, la piccola città magica, centro dei piccoli commerci di un territorio vasto quanto l’Italia, un pezzo di Tibet rimasto all’India, il Ladakh, all’apparenza inutile e per questo vissuto in santa pace per secoli, adesso conteso tra Cina, Pakistan e India. Era il ’78 e non ci arrivavano ancora gli aerei. La strada tra Srinagar e Leh, te la dovevi fare per forza in pullman ed era forse anche questo uno dei motivi del viaggio. Vedevi scorrere di fianco a te tutti i segni della storia, dopo il lago ed i giardini di Srinagar, le piccole moschee con una luce verde sul basso minareto, poi dopo un ultimo passo lasciavi la terra di Maometto e passavi a quella di Buddha, senza quasi accorgertene, senza contrasti, senza contraddizioni con i gompa bianchi e le statue minacciose di Mahakhala a proteggerli.
Leh era come un piccolo presepe senza negozietti, i turisti erano stati ammessi solo da un paio di anni; la gente ti invitava in casa e ti salutava a mani giunte, i bambini ti rincorrevano gridando jullay e non sapevano ancora che portavi caramelle e chewing gum. I monasteri bianchi tra le rocce, erano pieni di monaci bambini che ti guardavano senza parlare, i chorten dorati sembravano funghi spuntati per caso qua e là nelle valli, i muriccioli di mani, le pietre con sopra inciso “om mani padme um”, l’invocazione al Buddha, lasciate dai fedeli in marcia verso i gompa, formavano lunghe strisce lungo il sentiero, arido come tutto quello che ti circondava, gli stentati campi di orzo, gli orti di patate dalle foglie rinsecchite per la mancanza di pioggia, gli dzog dal pelo lungo e le corna corte che ciondolavano qua e là alla ricerca di radi cespi di erba dura.
Sembrava che non piovesse mai in Ladakh. Invece piove ogni tanto, in maniera feroce e inaspettata, in poche ore cade magari la razione di sei mesi e porta via tutto, un fiume di fango che travolge le case, quelle dei più poveri naturalmente, che le case le devono fare nei posti più pericolosi; le frane sono continue in quel terreno di roccia marcia e argilla rossa che non aspetta altro che staccarsi, rovinare a valle travolgendo quello che trova sulla sua strada. Proprio per una grossa frana, rimanemmo bloccati quasi mezza giornata sulla via del ritorno; era una cosa da poco, non come quella che in questi giorni ha devastato tutto, prendendosi tante, vite compresa quella di un ragazzo italiano che forse sognava soltanto di vedere almeno una volta, come me allora, quel pezzo di paradiso così vicino al cielo da poterlo toccare.
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3 commenti:
Appena ho iniziato a leggere questo tuo interessante post mi è venuto subito da pensare a quellla tragedia che sta colpendo quelle zone proprio in questi giorni.
La natura a volte è tremenda ma anche l'uomo ci mette molto del suo.
ps- Per quanto riguarda il tuo commento al mio penultimo post "Lungi da me" il mio datore di lavoro era un notaio ed io un semplicissimo impiegato.
Lo ha quindi ceduto ad un collega.
Una vera, grande tragedia quella che si sta consumando in questi giorni in Oriente. E quello che tu hai visto come paradiso, ora si è trasformato in un inferno di fango e detriti per quei poveri umani che hanno la disgrazia di trovarsi lì. Madre natura sta facendo sentire la sua voce. Questi fenomeni così esagerati sono la testimonianza che le/ci stiamo facendo troppo del male, causa l'inquinamento e tutto il resto. Mi auguro che chi di dovere presti attenzione a tutto quello che succede e rifletta bene su quello ci aspetta in futuro se non interveniamo subito.
cari amici, la terra fa il suo mestiere , è l'uomo che è piccolo e fragile.
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