venerdì 19 dicembre 2008

Relatività e relativismo


Erano gli anni di piombo. In Italia si sparava per ideologia, ma ce ne accorgevamo solo dalla televisione e leggendo le pagine di giornali. A Sana'a, la capitale dello Yemen, invece avevano appena ucciso in un attentato il capo dello stato ed il paese era sull'orlo della guerra civile che dopo poco avrebbe portato alla riunificazione con lo Yemen del Sud. Per tradizione gli yemeniti vanno in giro armati e se non hanno armi da fuoco, il minimo che serve a dimostrare la loro mascolinità è la jambya, un grande pugnale ricurvo che viene donato al maschio appena raggiunge la maggiore età e che si porta trionfalmente sul petto pronto alla bisogna.


Eravamo nella piazzetta centrale di Sana'a di fronte alla libreria internazionale che esponeva qualche giornale straniero e quasi senza che ce ne accorgessimo fummo circondati da una gruppo di uomini, chi più chi meno, tutti armati come si dice fino ai denti. Chi esibiva una pistola alla fondina, chi un kalashnikov appeso alla spalla con nonchallance, fino ad un alto vecchio con una lunga barba bianca che esibiva con fierezza un lungo moschetto. Mentre ci guardavamo attorno capimmo che si stavano commentando i titoli delle testate esposte all'esterno della libreria. Al centro, la famosa copertina del settimanale tedesco (Stern credo) che esibiva la pistola sul piatto di spaghetti e le foto del brigatista mascherato che dalla Vespa sparava al sindacalista genovese. Con grande cortesia, che subito dissolse le nostre perplessità, chi parlava inglese iniziò a dibattere con me (naturalmente nessuno si permise di interpellare Tiziana, bionda ed oltretutto neppure velata, come le rare figure oscure che scivolavano senza apparire rasentando i muri). Saputo che eravamo italiani, il più ardito, brandendo il mitra per avvalorare meglio il suo concetto, concluse la discussione dicendo: "Ma come potete vivere in un paese così pericoloso!". Era un ingegnere e qualche anno prima era passato dall'Italia per andare a Vienna e mi assicurò che le tre ore passate alla stazione Centrale di Roma erano state per lui una esperienza di terrore e paura che ancora ricordava. La compagnia si sciolse, era ormai sera. Tornammo al funduk che ci ospitava mentre le ombre che a quelle latitudini cadono improvvise come un sipario indaco, ci mettevano meno inquietudine del consueto.

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