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martedì 6 ottobre 2020

Luoghi del cuore 66: Una spiaggia a Bali


Foto ricordo - Bali - Indonesia - Agosto 1996



Le risaie di Ubud

Quali sono le cose che più ci suscitano emozioni? Credo i contrasti. E cosa ci stimola maggiormente la curiosità? Le differenze. Solo la piatta omologazione annulla tutto in una salsa insapore di grigia e torpida assenza di interrogativi che ti lascia solo il tempo per una torva insicurezza che mina il desiderio di conoscere, di discutere, di tentare di capire. Un hamburger scipito o troppo sapido che ritrovi uguale da New York a Pechino. Ogni volta che mi sono trovato di fronte a forti contrasti ho provato la voglia di andare a fondo, di avvicinarmi di più a quello che percepivo e che in altri casi avrei lasciato alle spalle senza troppa attenzione. La bellezza da sola non basta. Ti colpisce, ti estrania, ti meraviglia, ma da sola spesso non è sufficiente. Difficilmente, ad esempio, trovi luoghi che ti propongono una varietà di paesaggi e di situazioni culturali come l'isola di Bali. Le valli con le risaie di Ubud disegnate col pennello, i templi della montagna con le torri in legno sottili che si levano contro il vulcano, le processioni colorate che avanzano con ceste di frutta e lunghe foglie di palma, la grazia con cui si muovono le ragazze nei loro sarong a righe orizzontali, i colori delle sete, pastelli di varietà infinita, i profumi forti delle spezie che dovunque senti nell'aria, le statue coperte di muschi che ti guardano con occhi sporgenti, le danze del kechak attorno al fuoco dove i ragazzi camminano sulle braci ardenti al tintinnare dei gamelan, le spiagge dorate su cui si frangono le onde di un oceano blu scuro. 

Danzatrice balinese

Già, un mare morbosamente attraente, profondo e bellissimo, ma anche violento e pericoloso. Eravamo su una lunga lingua di sabbia ambrata, non lontano dallo spettacolare tempio sulla roccia di Tanah Lot dove le onde spumeggianti si frangono con spruzzi esplosivi che salgono fino al cielo. C'era un forte assembramento sulla riva, piena di scolaresche in gita scolastica. Per la maggior parte ragazze e strano caso, mussulmane, su un isola completamente hiduista, avvolte nei lunghi veli bianchi delle studentesse indonesiane. C'era un grande assembramento sulla riva. Era successa una tragedia. Una ragazza che si era avventurata troppo pericolosamente tra le onde, era stata portata al largo ed era annegata. Il suo povero corpo giaceva lì sulla riva, un misero fagotto di stracci bianchi, bagnati, a coprire la morte. La vista di quel corpo a cui l'imprudenza di un attimo, la gioia di una emozione a lungo desiderata, aveva tolto la vita, mi strinse a tal punto il cuore che non riuscii più a rimanere nell'acqua su quella riva bellissima e tentatrice. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di quei genitori che a casa, aspettavano il ritorno di una figlia amata, che non sapevano nulla e che la pensavano felice, forse con un poco di apprensione per non averla vicina, sotto il loro occhio vigile  e amorevole. Che forse le avevano dato a fatica il permesso per quella gita, una decisione che sarebbe stata la maledizione della loro vita futura. Pensavo all'orrore di quando avrebbero ricevutola notizia, all'animo di chi gliela avrebbe dovuta portare, allo strazio di quanto sarebbe seguito. 

La classe in gita scolastica

Eppure quella spiaggia grandissima era completamente gremita di gente in vacanza, poco più in là l'orrore per l'avvenimento già si stemperava nella sfumatura di chi neppure aveva ancora capito quanto era accaduto, troppo lontano, col brusio della folla a coprire tutto, a nascondere la morte. Mentre girovagavo sulla sabbia, il costume bagnato, la pelle bianca dell'occidentale non abituato al sole equatoriale, che si arrossava a vista d'occhio, mi circondò gioiosa, una classe intera di ragazze completamente coperte dal lungo velo che era anche evidentemente la divisa della scuola. I due professori che le accompagnavano attaccarono subito bottone e si chiacchierò un po' delle solite banalità che si dicono tra residenti e turisti, specialmente quando vieni identificato come arrivato da molto lontano. Di dove sei, quanto stai, cosa ti è piaciuto. Arrivavano da Giava, Surabaya, la città sulla costa di fronte a Bali e festeggiavano l'inizio delle vacanze estive. Il contrasto tra la mia nudità e le ragazze completamente coperte che mostravano a malapena una parte del viso e che ridacchiavano parecchio tra di loro, non creava tuttavia l'imbarazzo che credo avrei provato immaginandomi la scena. Dopo le foto di rito, si allontanarono poi in gruppo serrato, per tornare dall'altra parte della spiaggia, verso il pulmino che le avrebbe portate a casa. poi si girarono tutte assieme salutandomi con la mano e continuando a ridacchiare. La tragedia che si era consumata poco più in là, non le aveva toccate se non di striscio, forse solo un'ombra, un velo di tristezza da nascondere sotto l'altro velo candido che erano state ben attente a non bagnare nell'acqua spumeggiante, forse per non mostrare i piedi nudi. 

Il tempio di Tanah Lot



Una spiaggia
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Imputato alzatevi

lunedì 6 aprile 2015

Women that fart with sound

Accidenti vedo dalle statistiche che questo mesetto di assenza, ha ridotto le vostre presenze a una quarantina al giorno, roba da blogghetto di paese. Capisco che i miei tentativi poetici possano apparire velleitari, ma tanto è, qualche cosa volevo lasciarvi comunque. Però adesso bisogna risollevare un attimo l'audience, ragazzi, per cui dato che è Pasquetta e prima di cominciare la gran tirata indiana che forse qualcuno aspetta, provvedo con un post interlocutorio a rilasciare una notizia scovata su un giornale di laggiù, vediamo se la trovate di vostro interesse. La riporto tal quale scannerizzando l'articolo del supplemento culturale Blink di sabato 4 aprile del Hindu Businessline di Kolkata, giornale di una certa serietà, quindi la prendo per buona senza ulteriori verifiche. Poiché non si legge benissimo, riporto la terza e quarta riga  del pezzo, che comunque non riguarda l'India ma una disposizione di legge del comune della Aceh dell'Indonesia : Modest women don't break wind. La notizia è riportata senza commento, quindi non è chiaro se è indicata per screditare la minoranza mussulmana indiana o se invece darla come esempio da applicare anche nel campo della maggioranza Hindu. Vedete voi a seconda delle vostre tendenze.

Mi sembra che tre mesi di prigione o in alternativa 20 frustate siano una corretta punizione per le donne che "fart with sound", prerogativa invece corretta e assolutamente pertinente da lasciare al maschio che queste cose le sa fare come si deve, anche perché basta che le signore, come è correttamente consigliato, provvedano a to sit sideways and passe it quietly, l'arte della micidiale loffa, deve essere ancora poco conosciuta da quelle parti, non per nulla ci è passato lo tsunami.



martedì 28 giugno 2011

Il Milione 48: Tra i cannibali.


L'Estremo Oriente mi ha sempre affascinato. Ogni volta che ho potuto calcare quelle strade, un senso di meraviglia mi accompagnava. Lo potremmo catalogare come fascino dell'esotico, non ci sono dubbi, ma è anche lo stupore per il nuovo e diverso, per le cose talmente lontane da quanto si conosce per abitudine e cultura a prenderti, lasciandoti sempre osservatore curioso e pronto ad immagazzinare le nuove informazioni che ti circondano. C'è una piccola isola davanti a Singapore, Sentosa, oggi adibita a zona di relax e divertimenti per la grande città stato dove tutto è meticolosamente organizzato per la produzione e l'efficienza. Come era gradevole trascorrere qui una giornata tra il grande acquario e lo zoo a conoscere tutte quelle creature strane e mai viste, la voliera di cui non vedi i confini, l'area enorme dedicata alle farfalle che a migliaia si posano sulle tue braccia, il giardino botanico dove ad uno ad uno sfilano i legni odorosi e le spezie, i ristoranti all'aperto dove, la sera, con i piedi nella sabbia guardi il cielo e non trovi più la rassicurazione della stella polare, a constatare che non sei più nel mondo che conosci. Rimani con gli occhi in su a ricercare disegni sconosciuti pasticciando con le bacchette nella tua scodella di porcellana azzurra, sorbendo la laksa, la zuppa di noodles di riso al pollo e gamberi, l'abbinamento regale dell'oriente, mentre il gusto di spezia e di cocco ti vellica le papille. (chiisà se sarà poi stato davvero lui a portare gli spaghetti n Italia, cosa di cui comunque non si è mai vantato).

Cap. 161

...e dopo 500 miglia a mezzodie si truova un'isola ch'à nome Pentain e che è molto salvatico luogo. Tutti i loro boschi sono di legni odorosi... ed io Marco Polo vi dimorai 5 mesi per lo mal tempo che mi tenea e ancora la stella di tramontana non si vedea, né le stelle del maestro (Orsa Maggiore)... In questo reame sono uomini ch'ànno coda grande più di un palmo e dimorano ne le selve de le montagne; le code son grosse come di cane e àn molto pelo.

Credo che chiunque si trovi di fronte agli occhi buoni dell'orango che sbuccia una banana non potrebbe descriverlo se non come un uomo, tanto i suoi sguardi ammiccanti ed i suoi movimenti per attrarre l'attenzione sono vicini a noi ed al nostro sentire. Ma la vicina Indonesia è ancora oggi una delle terre più interessanti per le culture primitive e diverse che ospita nelle sua centinaia di isole, in ognuna delle quali, antiche abitudini, magari solo edulcorate dalle leggi attuali, rimangono a ricordare un passato recente di tagliatori di teste, di lavori di rimpicciolimento, di strani culti dei morti.

Cap. 162-166

E vo' vi far a sapere di quei che menano li piccoli uomini d'India, si è menzogna, ché quelli che dicon uomini sono piccole scimmie, che ànno volto simile all'uomo e li fanno in queste isole; le pelano salvo la barba e il pettignone (l'inguine), poi lascianle seccare, concianle che pare che siano uomini e questa è una grande buffa... Qui la gente è molto selvatica e quando uno muore poscia lo cuociono e quando è cotto vengono tutti li parenti del morto e mangiallo con tutte le midolla dell'osso, che non vogliono che ne rimanga sostanza che faccia li vermini che poi morrebbero per falta di mangiare e di questo, l'anima del morto n'avrebbe grande peccato. Poscia piglian l'ossa, pongonle in un'arca e apiccalle in caverne ne le montagne. Così se posson pigliare alcun uomo d'altra contrada, sì 'l mangiano.

Certo i costumi cannibali sono oggi forse scomparsi, ma il culto dei morti è ancora oggi in certe località interne, di grande impatto. Al centro di Sulawesi, (come ho già raccontato qui) tra le caverne dove i Toraja ripongono le arche con le ossa dei loro morti, io e la mia bambina ci aggiravamo solo pochi anni fa, cercando lo spazio dove mettere i piedi senza calpestare tibie e teschi, che fuoriuscivano dalle casse muticolori che il tempo aveva marcito e aperto naturalmente. E il grande funerale a cui assistemmo durava da un mese, con sacrifici giornalieri di bufali  e maiali, la cui carne, bollita in grandi pentoloni dietro le capanne,  poi maggiammo con tutta la comunità nei piatti che venivano distribuiti a tutti gli astanti, tra canti e danze che coinvolgevano il villaggio, almeno ritengo fosse maiale o bufalo. Questo rappresentava certo una redistribuzione della ricchezza, come presso altre culture i grandi matrimoni, ma anche un legame con riti ancestrali mai dimenticati. Fu una esperienza forte che ancora oggi mia figlia ricorda con particolare intensità. Marco Polo non poteva certo non riportarla.


 
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martedì 21 giugno 2011

Il Milione 47: Leocorni e alberi del pane.

Prahos nel porto di Surabaya

Adesso basta con le leghe che me lo hanno affettato abbastanza. Però è difficile levarsele dalla testa certe cose, quindi rimaniamo sulle leghe, ma molte e assai distanti da noi, quelle che Marco Polo ha già percorso con la sua flotta di navi sul viaggio di ritorno nella circumnavigazione dell'Asia. Il passaggio obbligato è l'arcipelago indonesiano di cui ci racconta ricchezze e stranezze con dovizia di particolari.

Cap. 159

Frutti della palma da vino
Quando l'uomo si parte da Ciamba (Vietnam) e va a mezzodie ben 1500 miglia, si viene a una grandissima isola ch'à nome Java e dicono che è la maggiore del mondo. Ed è di molto grande ricchezza: qui à pepe e noci moscade e spigo e galinga e cubebe e garofano e tutte le care spezie. Non ànno grano ma riso . E ànno albori che tagliano li rami , gocciolano e quell'acqua che ne cade è vino e àvvine del bianco e del vermiglio. Qui à una grande maraviglia , che ci àn farina d'albori che sono grossi e ànno la buccia sottile e sono pieni dentro di farina (sago)e di quella si fa mangiar di pasta e buona e io più volte ne mangiai. A questa isola viene grande quantità di navi e mercatantie e fannovi grande guadagno. Lo grande Kane no l'à potuta conquistare per lo pericolo del navigare e della via sì lunga , ma li mercanti ne cavano grande tesoro.

Albero del pane
Certo Giava è un'isola che per noi rappesenta l'esotico per eccellenza a partire del nome. Anche io rimasi impressionato dalla enorme presenza nel porto di Surabaya, di navi di tutti i tipi, che si affollavano caricando e scaricando merci in grosse balle avvolte in stoffe e strette da cordami rozzi e all'apparenza primitivi. Imbarcazioni antiche che ti riportavano alla mente i prahos di Sandokan e i pirati della Malesia, ma rappresentazione di una vita commerciale  frenetica e carica di odori di spezie. Gli stessi che trovavi nei piccoli ristoranti del porto, tra spiedini di pollo annegati in montagne di Nasi goreng, il riso fritto con il dolce dell'uva secca, di certo arrivato con i mercanti arabi, i piatti a base di sago o dell'albero del pane. Non ho mai avuto cuore di provare il vino di palma che tanto entusiasmò Marco anche se con il ayram goreng bumbu (pollo fritto speziato di cui Acquaviva mi ricorda la ricetta) ci sarebbe andato a pennello. Ma il suo racconto è come al solito molto dettagliato sia nel raccontare le attitudini religiose che nel chiarire la falsità delle leggende che giravano nel mondo antico, sempre disvelate quando le cose si vedono di prima mano e con i propri occhi.

Cap. 162

I famosi unicorni
Sappiate che li mercanti sarracini che usano in questo reame con lor navi, ànno convertito questa gente alla legge di Maomet... ma si richiamano al Khane ma no li fanno neun trebuto perché son sì a la lunga ma alcune volte presentano d'alcuna strana cosa. Elli ànno unicorni che non son minori di elefanti; e son di pelo bufali, i piedi come di lefanti; nel mezzo de la fronte un corno grosso e nero; lo capo ànno come di cinghiari e la lingua tutta spinosa. E dicovi che portan la testa inchinata verso terra e sta molto volontieri tra lo fango. Ell'è molto laida bestia e non è come si dice di qua, ch'ella si lasci prendere da la pulcella, ma è il contrario.

Certo sull'unicorno, che si credeva creatura bellissima che solo una vergine pura poteva catturare, circolavano leggende ben lontane dalla realtà cruda con cui Marco descrive alla perfezione questo rinoceronte, mentre certifica la presenza mussulmana che i mercanti arabi vi avevano insediato da almeno un secolo in particolare sulle zone costiere di Giava. Caldo, monsoni, profumi di spezie, palme e lungo la spiaggia gruppi di studentesse velate davanti ad un oceano dalle onde maestose. Un ricordo composito che mi è rimasto di questa terra affascinate e ancora segreta per molti aspetti. Marco l'ha soltanto sfiorata, ma anche lui ne è rimasto conquistato. 

Studentesse di una scuola di Surabaya

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domenica 25 aprile 2010

L’oggetto misterioso 7: La linea di Wallace.


Un grande catamarano un po’ fetido solcava veloce lo stretto. Le acque sotto di noi erano blu scuro, quasi nere, certamente profondissime. Era la prima volta che passavo la linea di Wallace, che mi spingevo così ad est. Lontano, la sagoma scura della costa di Lombok occupava tutto l’orizzonte ed era come una promessa velata di nuove emozioni. Di certo quel viaggio indonesiano, ne aveva già regalato molte, ma poche terre come quella, sanno mostrare diversità imprevedibili e sconosciute al viaggiatore europeo. Ci eravamo lasciati alle spalle la cultura induista di Bali per passare all’Islam di questa isola così differente. Il cambiamento di clima è subito evidente e dimenticammo in fretta il lussureggiare delle coste piovose e coperte di risaie a terrazze, per passare ad un territorio più secco, più ruvido e coperto di una foresta rada e di alberi all’apparenza stentata. Lombok ha una dimensione decisamente più casalinga se la si raffronta alle folle balinesi di vacanzieri in cerca di spiagge assolate, ma non per questo è meno attrattiva, anzi, direi che, sia i piccoli paesi che i villaggi di pescatori della costa che circonda l’isola, sono molto piacevoli e vivibili e meno oppressi dalla sindrome dell’assalto al turista. Ce ne stavamo quindi facendo un piacevole giro nell’interno, percorrendo una zona naturalistica dove vedemmo qualche elefante intento a lavori nella boscaglia, quando ci fermammo lungo un corso d’acqua nascosto, cercando un po’ d’ombra, per sgranocchiarci la frutta comprata al mercato di Mataram, il piccolo capoluogo. Mentre eravamo intenti alla bisogna fummo circondati da un gregge di capre belanti che brucavano tutto quanto capitava loro a tiro inclusi i nostri zaini, che mettemmo subito in salvo, tra le risate del pastore. Ci guardava con interesse, stando in una posizione tipica, in piedi appoggiato ad un lungo bastone con la gamba sinistra sollevata ed il piede appoggiato al ginocchio destro. Aveva uno straccio bianco tuttofare avvolto attorno alla testa ed un altro attorno ai fianchi, una sacca sulla spalla ed il nostro oggetto misterioso a tracolla. Dopo un tentativo di approccio reso difficoltoso dalla mancanza di linguaggi comuni oltre a quello dei segni, simpatizzammo comunque e io tentai subito di capire quale era la funzione del marchingegno, che però fu subito evidente, non appena se lo tolse e me lo mise aperto tra le mani. Si trattava di un manufatto di legno chiaro lungo circa 15 cm con un inserto di legno nero. La chiusura scorrevole sulle cordicelle era una specie di riproduzione, con fini ornamentali, dei tetti delle case di diverse etnie indonesiane. Il tutto coperto da gradevoli intagli a formare un disegno geometrico, primitivo ma sufficientemente complesso. Mi conoscete a sufficienza per pronosticare che, dopo una breve trattativa l’oggetto traslò nel mio zaino per far parte della collezione della mia wunderkammer. Fate un piccolo sforzo intuitivo perché stavolta è proprio facile. Non vi risponderò subito in quanto come sapete non sono più tra di voi. Al mio ritorno (se ci sarà un ritorno) provvederò a soddisfare la vostra curiosità.

lunedì 21 settembre 2009

Bianco argento.


Io ci casco quasi sempre. Sono attratto con una certa morbosità dal lavoro dell'artigiano, di qualunque tipo esso sia, forse per l'invidia che provo verso chi ha capacità manuali, io che ho "les deux mains gauches", come diceva la mia zia Blanche di Parigi, forse per la bellezza dell'opera che nasce e cresce sotto i tuoi occhi, prende forma, ricopre l'idea di materia, sempre diversa, sempre unica anche nella sua ripetitività. Mi piace fermarmi a guardare il lavoro nelle piccole botteghe, spiare le donne turche che annodano un tappeto, i sarti indiani attaccati alle vecchie Singer che pedalano furiosi, gli intagliatori di legno duro di Ceylon che creano le loro piccole statue serene. Ricordo un tardo pomeriggio, in un piccolo vicolo di Surabaya a Giava, mentre il sole insanguinava il cielo dietro i vulcani lontani (porca miseria se sono melenso oggi!), un negozietto stretto e lungo pieno zeppo di lastrine di argentone sbalzate, con tanti scaffali lungo le pareti colme di bicchieri, scatole di ogni dimensione, quadri, da cui nella penombra emergeva il tuttotondo di figurine di dei, guerrieri, fanciulle a cantare di un'epopea antica, di fasti perduti. Con la scusa di guardare la merce mi attardai a lungo, sedendomi infine su un basso sgabello a tre gambe, proprio davanti al piccolo deschetto in fondo al negozio dove un rugoso vecchio picchiettava con un martelletto una lastrina quadrata. Pareva non vedermi e continuò il suo lavoro lento e costante. Dava piccoli colpi con una serie di chiodi dalle punte diverse e sotto le spinte si gonfiava una testina, un torace possente, le strie sinuose di una lunga chioma, due seni voluttuosi di una fanciulla. A poco a poco la lastrina si completò sotto i miei occhi, più volte voltata e rivoltata per precisare i contorni dello sbalzo. Quando giudicò finito il lavoro, alzò gli occhi con un lieve sorriso, guardò il lavoro con soddisfazione e me lo mostrò. Era una scena con il demone Ravana che rapisce Shita. Si poteva apprezzare, pur nelle piccole dimensioni, il viso spaventato della principessa, i muscoli gonfi del feroce assalitore in un equilibrio complessivo che riempiva completamente il piccolo quadrato lucido. Aveva gli occhi contenti il vecchio. Trattai poco, più per onor di firma che per far calare il prezzo. In fondo compravo un lavoro, un progetto, un opera, non un oggetto.

giovedì 2 luglio 2009

Una morte meritevole.

Credo che uno dei pochi posti del mondo dove ancora oggi si possano trovare culture e stili di vita completamente diversi dalla nostra, non ancora omologati, sia l’Indonesia. Saltando di isola in isola se ne trovano molti di questi popoli “primitivi”, in realtà vivono solo in maniera diversa dalla nostra, e sono tra loro tanto diversi come lo sono paragonati a noi. Non è soltanto questione di vestirsi in maniera tradizionale come i Dayak del Borneo o i Batak di Sumatra, di portare l’astuccio penico come i Dani in West Irian (chissà come è scomodo, in certe situazioni, poi), ma proprio del modo di vedere ed intendere la vita. Una di queste popolazioni vive in una zona montuosa e un po’ isolata al centro dell’isola di Sulawesi. Non pensate ad Indiana Jones, basta arrivare all’aeroporto di Udjung Padang e ci trovate un sacco di gente che, per la giusta mercede vi accompagneranno per un piccolo trekking di tre o quattro giorni nella zona. Vivono sparsi in piccoli villaggi e praticano una agricoltura tradizionale basata sulla risaia e l’allevamento del bufalo che è un po’ il centro della loro cosmogonia. Come non capire, dà loro latte, carne e forza lavoro, praticamente dipendono dal bufalo, per forza che ne fanno l’asse portante della loro vita. E della loro morte. Ecco questo è l’aspetto più inquietante di questa gente. Tutte le attività, i pensieri, i comportamenti quotidiani della loro vita sono finalizzati ad un unico scopo: il momento della morte e della conseguente cerimonia funeraria. Forse solo nell’antico Egitto questo aspetto è così ossessivo e presente in ogni atto quotidiano. Poiché i mesi estivi sono liberi da attività agricole, in questo tempo si celebrano i funerali. Ma ohibò si muore tutto l’hanno, allora come risolvere la faccenda? In ogni casa, bellissime costruzioni con alte facciate a forma di prora di nave colorate per ricordare la leggenda che li vuole arrivati dall’Oceano, c’è una stanza in cui si mette l’eventuale morto, sottoposto a particolari trattamenti perché resista anche un anno (l’odore comunque non è gradevolissimo), e si usa per lui una parola specifica che significa malato gravissimo che comunque non guarisce più. Morto lo si può definire solo dopo che è avvenuta la cerimonia funebre, nel corso della quale viene disperso quasi l’intero patrimonio accumulato dal defunto; un modo di redistribuzione della ricchezza che in altre culture viene affidato ai matrimoni. Il metro del successo nella vita si misura con la dimensione del proprio funerale. La cerimonia può durare anche un mese. Si costruisce un piccolo villaggio tra le risaie, dove vengono invitati parenti, amici e interi villaggi vicini a seconda delle disponibilità. La bara in legni finemente dipinti da schiere di artigiani, viene posta su una piccola torre al centro delle costruzioni. La gente arriva e il maestro di cerimonie annuncia le provenienze ed i nomi e il numero maiali che sono stati portati vivi e ben legati a spalla, per essere sacrificati. Come è ovvio, questo è fonte di critiche a non finire sulla tirchieria dei parenti vicini e lontani, quando invece in occasione del loro morto erano stati portati maiali ben più grassi e pasciuti. Infine comincia il sabba dei sacrifici, dei maiali e dei bufali che il morto aveva accuratamente accumulato in vita, in una arena dove il sangue scorre a fiumi tra i muggiti di terrore e i colpi di machete che calano sulle giugulari delle vittime, fatte poi a pezzi, scuoiate e cotte dagli addetti in giganteschi pentoloni ai margini dell’arena. Intanto per giorni e giorni si mangia e si beve e quando si va a casa, a seconda dell’importanza, si riporta un bel pezzo di carne per i giorni successivi in cui si spettegolerà a non finire sull’evento. Intanto i giovani occhieggiano le ragazze dei villaggi vicini (c’è un saggio tabù che proibisce i matrimoni all’interno dello stesso villaggio) e la vita continua. Al termine la bara viene portata in una grotta e buttata per la verità senza troppa cura sulle altre, di decenni precedenti, mezze sfasciate in un ossario alla mercè del mondo. Fuori della grotta si mettono le statuette a sembiante dei defunti. Ci si può fare invitare facilmente ad una di queste cerimonie, basta portare un piccolo dono (qualche stecca di sigarette ad esempio), si viene fatti accomodare assieme ad altri locali e si mangia quello che gli inservienti fanno continuamente girare. Noi ci siamo piazzati vicino ad una famiglia un po’ altezzosa in verità, ma pare che fossero i parenti ricchi del villaggio vicino, avevano addirittura portato un bufalo molto grasso, come ci fecero notare con sussiego prima dello sgozzamento. Questa cultura della morte permea così fortemente questa società, che il ragazzino sedicenne che avevamo assoldato come guida ci fece sapere che parte di quei soldi guadagnati avrebbe cominciato a risparmiarli per comprare il suo primo bufalo che lo avrebbe accompagnato nell’ ultimo viaggio. Diceva con occhi sognanti:”Avrò un funerale che se lo ricorderanno tutti!” e guardava la mia bambina che aveva undici anni con orgoglio, pavoneggiandosi un po’. Curioso vero? Negli altri giorni camminammo di villaggio in villaggio a vedere le splendide case ornate dalle decine di corna di bufalo che testimoniavano l’importanza della casata. Anche questo è un modo di vivere, vivere per la propria morte, per avere la propria piramide più grande degli altri, per guadagnarsi la propria piccola, personale immortalità, forse è proprio questo il file rouge che lega tutte le culture.

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