domenica 13 settembre 2009

Ricami rossi.

Sono molti anni che non vedo più Zhenjia. Quando l'ho conosciuto cominciava l'inverno russo, con le sue poche ore di luce, il colore giallo delle lampadine e dei lampioni sovietici così fiochi, l'odore di benzina scadente per le strade quasi deserte di auto, con la neve sporca che si accumulava prima di ghiacciare fino a primavera. Mi guardava con sospetto malcelato all'inizio, timoroso come sempre delle cose nuove. Glielo aveva insegnato una vecchia zia nata a San Peterburg prima della rivoluzione, che era stata allo Smolnji da ragazza, che ogni cambiamento porta disgrazie e dolori. E ne aveva viste parecchie la vecchietta prima di morire, ma per lo meno le era stata risparmiato lo sfacelo dell'URSS con tutto quel che stava capitando alla maggioranza debole della gente. Zhenjia temeva sempre che ci fosse sotto qualcosa e quindi cercava di mettersi di lato, diremmo contro il muro, avendo imparato a lasciar passare la furia della corrente per non farsi portare via. Mi divenne amico affettuoso o forse fedele, temendo chissà cosa come sempre, cercando di mostrarsi servizievole, apprezzando che fossi interessato ai suoi racconti del passato. Di quando lo zio che raccontava barzellette sul regime, non era più tornato a casa, una komunalka nelle vie della vecchia Mosca; di quando poco più che adolescente visse con sgomento la morte di Stalin, delle sirene che per quindici minuti lacerarono l'aria per annunciarla in un silenzio tombale, di come si sentì orfano in quel momento; di come si sentiva felice e padrone del mondo, quando ebbe il primo stipendio di trecento rubli come traduttore. Parlava un italiano forbito, con lentezza, scegliendo con cura le espressioni e usando parole ricercate come "corpulento", che gli piaceva molto, anche se non ruscì mai a correggere il forte accento, per cui lo prendevamo un po' in giro. Non corresse mai la sua espressione proverbiale con cui cominciava tutti i discorsi. "Prego la scusa" iniziava sottovoce ed in tono dimesso, sempre timoroso di disturbare e quindi di subire chissà quali punizioni. E dire che la sua famiglia aveva visto grandi fasti un tempo; si favoleggiava delle sette gioiellerie che il nonno possedeva a San Peterburg prima della rivoluzione. Grande giocatore di scacchi, anche nella vita, cercava sempre di avere una seconda ed una terza soluzione ai problemi, una via di fuga, se andava male la prima scelta; questo aveva insegnato la vita a lui, ebreo, in un paese che gli ebrei non ha mai amato, nel migliore dei casi ha disprezzato, come qualche trombone di cliente che ci apostrofava: "Ma com'è che vi tenete quel giudeo?" mentre lui si ritirava nell'ombra. Una vita a prepararsi vie d'uscita, a declinare responsabilità, a scegliere il profilo più basso per non farsi notare, per tenersi nella penombra, eventualmente, se c'era bisogno per dare la pugnalata fatale. Non voleva il thé, ma si accontentava di un po' di "calda acqua" e a all'Hotel Kimik di Cerkiesk aveva rifiutato la camera Liux che per i cittadini sovietici costava un dollaro in cambio di quella Standàrd che costava mezzo dollaro a notte, per non fare spendere troppo alla ditta. Aveva voluto per sé un ufficetto misero, un vero bugigattolo, però situato strategicamente in fondo al corridoio, in modo che si avvertissero nitidamente i passi di chi arrivava e che lo sorprendeva sempre alacremente al lavoro. Quando era venuto a Roma ad accompagnare dei clienti era stato derubato dei pochi soldi che aveva da alcuni zingarelli davanti al Colosseo e non si dava pace. - Devo essere punito, assolutamente per la mia sbadataggine, nonostante tu mi avessi avvertito.- dichiarava come un mantra in una continua flagellazione, in perfetto stile da autodenuncia alla Lubjianka. Eppure era felice della sua vita, felice di lavorare per una azienda italiana, mai per i tedeschi che odiava senza fraintendimenti. La relativa agiatezza che questo gli dava, lo rendeva sereno anche se continuamente timoroso che tutto avesse fine prima o poi. Era felice a modo suo, pago delle piccole cose che amava. - Sai Enrico - mi diceva, quando ormai si era maturata una certa confidenza - non c'è piacere più grande di quando arrivo a casa, mi metto le pantofole d'orso che ho preso ad Irkutsk e mi sdraio nella mia vecchia poltrona con un bicchiere da 50 grammi di vodka (la vodka va a grammi in Russia) a pensare ai tempi felici. - Non so cosa intedesse per tempi felici; è un'espressione che dipinge bene la melanconia russa che leggevo spesso nei suoi occhi acquosi e gentili. Chissà come se la passa adesso, ma lo spero con quel bicchierino appoggiato sul vecchio bracciolo ed il bicchiere di thé fumante col manico di alpacca, sul vecchio tavolino di Kiev con la tovaglietta dai ricami ukraini rossi. Na sdarovjie Zenjia!

1 commento:

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Enrico, questo articolo mi ha commosso, anche perché è scritto davvero bene. Grazie, e bravo (alla francese)!

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