Il mattino dopo, affittammo un maggiolino per raggiungere alle rovine di Palenque. Anche il mezzo, tra i più comuni in Messico, serviva a tornare indietro nel tempo, con la sua forma così rassicurante e d’antan. La strada scendeva tortuosa e ripida con curve continue lungo i fianchi della montagna, nell’alternarsi di radure e di selva più fitta. I radi e corti rettilinei erano cosparsi di topes, piccoli dossi artificiali, che attraversano proditoriamente la strada per moderare la velocità, che spesso, purtroppo, compaiono a tradimento impegnando con severità le già esauste sospensioni di Herby, come avevamo battezzato il nostro mezzo. Prima di raggiungere la piana, le cascate di Agua Azul compongono un quadro di tale gradevolezza e frescura, mentre la temperatura si alza senza posa, da imporre una sosta per riprendere fiato, seduti lungo le rive del corso d’acqua a godere degli spruzzi e del colore dei salti eleganti che si susseguono lungo il bosco. Un quadro di Fragonard in cui le ninfe sono sostituite dai venditori di mocillas colorate che, senza invadenza si dispongono nei punti critici del passaggio. Poi Palenque, con i suoi monti di pietra che emergono dalla selva verdissima e che senti mossa dal desiderio di seppellire nuovamente e in fretta quanto a fatica è emerso dall’oblio dei secoli. Ci rifugiammo in un piccolo alberghetto con un giardino arruffato, dove una serie di amache ti riconciliavano con i kilometri percorsi e ti facevano prendere il ritmo corretto del paese. Il mattino dopo, la scoperta delle costruzioni che emergevano quasi a fatica tra le piante diradate per scoprire una nuova scalinata, una ulteriore piccola piramide, furono un entusiasmante percorso ad ostacoli pieno di sorprese continue e di faticose salite per esplorare il sito. La piramide di Pakal è naturalmente, il pezzo forte. Dopo averne indagato l’interno con la tomba del misterioso re alieno, rimanemmo a lungo seduti sugli alti gradoni della cima a sentire il sole che saliva nel cielo illuminando a poco a poco gli angoli più segreti della città morta, indovinando ai suoi estremi confini, nascosti dalla selva, altri monticelli, altri rigonfiamenti che di certo nascondevano le altre meraviglie che anno dopo anno vengono alla luce ad arricchire questo già splendido sito. La strada del ritorno fu assai più faticosa. Risalire la montagna sembrava penoso, forse per il rammarico di aver lasciato un luogo così intenso o forse perché l’usura del motore rendeva problematico l’arrampicarsi lungo le balze de Los Altos. Vicino ad Ocosinco, un paesetto di poche anonime case, improvvisamente un blocco, tutte le macchine ferme e la strada chiusa da barriere. Cercammo di capire cosa succedeva, mentre le macchine venivano fatte passare lentamente ad una ad una. Notammo con una certa preoccupazione dei mitra senza accenno di divise militari, se pure l’organizzazione della cosa pareva non troppo concitata e diremmo alla messicana, per essere pericolosa. Ci spiegarono che si trattava di un blocco dell’esercito di liberazione zapatista del mitico subcomandante Marcos, che chiedeva un contributo alla lotta, con tanto di blocchetto di ricevuta. Questa di Marcos è una storia abbastanza curiosa e indicativa delle tante incongruenze del paese. Detentore effettivo di un certo potere nella regione, la gente fa continuo riferimento alla presenza sua e dei suoi uomini e lo sente come una specie di difensore dei diritti di una popolazione dimenticata e deprivata delle esigenze elementari, mentre il potere centrale a volte tollera questa presenza ingombrante, anzi pare coesistere con questo antipotere senza troppi contrasti, in una sorta di vivi e lascia vivere, dosato da entrambe le parti; in altri momenti invece esplode in fiammate di repressione che amplificano l’importanza del movimento e lo rinfocolano. Comunque donammo i nostri 30 pesos alla causa, di cui purtroppo ho perduto la ricevuta, non si sa mai, con una certa eccitazione; tutto sommato una cifra onesta, considerato che non fummo discriminati in quanto visibilmente gringos. Anzi, mentre procedevo nell’operazione, incitai le mie due trasportate a riprendere in qualche modo la scena, documentando comunque tutta la fase estorsiva a futura memoria, ma mi giunsero solo borbottii di non fare il cretino e di non cercarmi delle grane, così passammo la barriera e mentre uno scalcagnato zapatista con bandoliera alla Pancho Villa, ci faceva un cenno di saluto con la mano, riguadagnammo la strada principale mentre il sole scendeva dietro la foschia tra gli alberi fitti della pianura lontana.
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3 commenti:
Il subcomandante Marcos non ha i rimborsi elettorali come qui da noi. Eppure, nei giorni della santificazione di Craxi, dovresti sapere che la politica ha i suoi costi.
ciao enrico, grazie a te per aver linkato il mio blog, ho ricambiato molto volentieri... a presto!
@Ten- grazie
@Pop - sei un bel perfido eh? ma guarda che Alessandria è stata la prima città d' Italia a fare via Craxi ( e non ci siamo fatti mancare neanche la Rotonda Almirante), Poi per politically correct hanno fatto anche un paio di vie per la sinistra! Ahahahahah
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