martedì 26 gennaio 2010

Verde jungla.

Ci rimaneva un’ultima tappa irrinunciabile per completare il nostro breve giro guatemalteco, il sito archeologico di Tikal, nella selva del Peten, il luogo maya per eccellenza, il punto chiave della ruta Maya, il più grande e nascosto allo stesso tempo. Prendemmo un piccolo aereo per Flores, una cittadina su un lago nella piana costiera. Sembrava fragile, l’aereo, una quindicina di posti, un po’ stretti almeno per la mia stazza, ma quello che preoccupava di più era la provvisorietà delle strutture, lo schienale del mio sedile quasi divelto che non mi permetteva di appoggiare la schiena, pena precipitare sulle ginocchia del passeggero retrostante, i pannelli che penzolavano e poi la condensa che mi pioveva in testa e mi costrinse a tenere il cappello in testa per i quaranta minuti del volo. La bambina si divertiva al continuo beccheggiare dell’aeromobile, ma come volle il cielo riuscimmo a toccare terra senza danni ed anche quel rischio fu archiviato, a quel tempo poi non si paventava neppure Al Qaeda, quindi…Il Peten è forse la più rigogliosa e selvatica tra le selve tra Messico e Guatemala e la sensazione costante è che sia in continua lotta per cancellare la presenza umana da quei luoghi. Si vede chiaramente che basta poco tempo di non intervento perché la foresta riprenda il sopravvento e ricopra l’opera dell’uomo in un sudario verde e inconsapevole. Questo è accaduto a Tikal, si presume in pochi decenni dopo il suo misterioso abbandono attorno all’anno 1000. La selva si è ripresa il suo spazio in pochi decenni e ha ricoperto una città immensa, con costruzioni grandiose, cancellandola completamente alla vista. E allora ci si inoltra nel verde, lungo sentieri continuamente riaperti e ripresi dalla vegetazione che, anche il calpestio dei visitatori, mantiene aperti a fatica. Sei circondato da fruscii di animali sconosciuti, dalle strida rauche e dai colori squillanti dei pappagalli, dagli schiamazzi delle scimmie che ti inseguono sui rami alti degli alberi. Una analogia che si avverte solo in certi templi perduti in India o, credo, ad Angkor wat. Non è chiaro se questa area gigantesca sarà protetta dagli appetiti degli agricoltori e dalla loro fame di terre, ma per il momento addentrarsi nel fitto della boscaglia rimane una grande emozione. Camminammo a lungo nella foresta prima di arrivare alla Grande Plaza, dove due immense piramidi incombono con scalinate ripide e minacciose, assolutamente presenti. Rimanemmo nel sito quasi tutto il giorno ad osservare i tucani dagli immensi becchi gialli e i colori della farfalle, spostandoci lungo i piccoli sentieri tra un gruppo di templi e l’altro, indovinando, sotto ripide colline quelli ancora ricoperti di tronchi e liane, aggirandoci tra le strutture del Mundo Perdido, 38 strutture con una enorme piramide al centro, comprendendo senza fatica i significati nascosti della Casa del Sudore, sostando, quasi senza fiato nella calura pesante che avvolge l’Acropoli, arrampicandoci a fatica lungo le balze del tempio 4 per rimanere immobili a godere il sole che scendeva sempre più rosso dietro gli alti alberi lontani, tra nuvole dense e scure, mentre le cime delle piramidi lontane sfumavano nella foschia, emergendo con fatica nel verde che si faceva scuro. La pioggia ci colse sul sentiero del ritorno, calda e nemmeno fastidiosa e in un attimo ci inzuppò completamente, poco male, il giorno dopo saremmo approdati alla riviera maya, civiltà e turismo di massa garantiti, lasciandoci alle spalle i misteri scolpiti nella pietra.

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