giovedì 12 novembre 2009
Il thé georgiano.
Eccoci di nuovo al treno, la costante dei grandi spostamenti di questo immenso paese. Sarà lo scartamento maggiorato rispetto al nostro che lo fa apparire più grande e più misterioso, sarà che arriva(va) sempre in orario, ma al contrario dell'aereo, che da noi è sempre stato considerato un trasporto di elite, lì il treno era per così dire un trasporto più aristocratico con i suoi coupé con le tendine e i vasetti con i fiori di plastica. Andrej mi abbracciò sulla banchina e mi fece scivolare nella tasca della dublijonka una piccola bottiglia di kognàk Ararat di 25 anni, aveva capito le mie debolezze o aveva qualche cosa da farsi perdonare. Chissà che cosa. Lo capimmo appena saliti sul vagone n. 13 del treno di mezzanotte per Kharkhov. Il maledetto aveva comprato due biglietti di terza classe (disse poi che si non era scovato di meglio) e ci trovammo catapultati nel bailamme della lotta proletaria per prepararsi in modo dignitoso alla lunga notte incombente. Zhenija, che era chiaramente fuori di testa, terrorizzato che la preziosa persona a lui affidata (cioè io), subisse disagi imprevisti, forieri quindi di future punizioni e processi, saltava qua e là come un ossesso creando confusione e ulteriore irritazione nella massa dei viaggiatori. Scavalcando montagne di bagagli, balle di masserizie e animali vivi, raggiungemmo a fatica la nostra area, una specie di scompartimento a otto posti con pancacce di legno, già completamente invase di bagagli. Cercai di infilarmi in un angolo per creare un microhabitat accettabile al fine di trascorrere alla meno peggio le dodici ore che ci attendevano, abbandonando la gestione dei nostri altrettanto ingombranti bagagli. Davanti a me due enormi bionde baffute in stile Irina e Tamara Press, praticamente senza bagagli, che risultarono essere dirette in Polonia per uno shopping tour, il commercio fai da te, che stava prendendo piede con la liberalizzazione, grazie al quale la gente si spostava verso i confini cinesi o europei per tornare ai propri paeselli carichi di merci da rivendere. Stavano sulla loro, anche se erano ben disposte ad attaccare bottone ma stringevano inesorabilmente verso l'angolo, grazie alla loro prorompente massa specifica una vecchina col colletto di pizzo e camicetta bianca di poliestere inamidata che tornava dal sanatorj di Kislovodsk, quello tanto sognato da Zhenija. Forse non aveva visto i tempi prerivoluzionari, ma di certo sembrava uscita dallo Smolnij di San Peterburg e questo mondo, anche per lo schiacciamento provocato dalle sorelle, le stava di certo stretto. Stava così muta e con l'occhio basso cercando di occupare meno spazio possibile e quando le offrii un amaretto, della scorta di cui mi aveva amorosamente dotato Tiziana, per i momenti di saudade, lo scartò con meraviglia e lo masticò adagio regalandomi con gli occhi una sensazione di piacere tale da farmi dimenticare la situazione di disagio. Le bionde invece lo divorarono con furia intente a pensare, golose, ai futuri guadagni. Di lato una famiglia di mongoli aveva disposto diverse balle di cotone ed altre masserizie nel passaggio centrale per guadagnare spazio e preparare una specie di giaciglio per la notte incombente e intanto avevano estratto una serie di beni di consumo da una sporta capiente. Stesero giornali da cui erano emersi due grossi pesci secchi e, mentre li sbranavano di gusto, cominciarono a sgusciare un numero consistente di uova sode, dopo aver aperto e posto sul tavolinetto in equilibrio precario un grande recipiente di cetrioli in salamoia e un paio di bottiglie di vodka. Al mio fianco un orco ceceno, con una imponente barbaccia nera si era già accoccolato, reclinando il testone dalla mia parte e aveva cominciato a russare. Non riuscivo a capire dove sarebbe riuscito a mettersi Zhenija, non appena fosse ritornato dalla missione esplorativa di cui lo avevo incaricato, quella di trovare una sistemazione appena più decente, con la forza del danaro, cosa che ci dava un innegabile vantaggio rispetto ai nostri concorrenti. Intanto arrivò una bigliettaia camurriosa che pretendeva da me qualcosa che, a causa della mia povertà di comprensione non riuscivo a capire; che volesse controllare i biglietti o la nostra prenotazione? Mistero, fatto sta che capii che voleva farmi sloggiare dalla mia tana, per sistemare una coppia di banditi caucasici dalla faccia scura e decisi a conquistarsi il loro posto al sole, figurativamente parlando. Tutti nello scompartimento presero parte attiva alla discussione, sembrava il processo di Biscardi, che ricordo allora era già alla 14° edizione; per fortuna ritornò Zhenija con gli occhi spiritati che gli schizzavano dalle orbite per la tensione. Come gli avevo imposto, aveva tentato di comprare lo scompartimento privato della capavagone che pretendeva 10.000 rubli, circa 15 dollari, per cederlo e voleva l'autorizzazione all'enorme esborso. Lo maledissi per il cronico e ormai geneticamente incistato rifiuto di responsabilità e lo rimandai di corsa a bloccare l'affare, prima che un'altra coppia distinta che stava risalendo il vagone in cerca di occasioni, ce lo fregasse. Andò di corsa e tornò raggiante e vincitore, interrompendo la diatriba con la bigliettaia che cominciava a spazientirsi, come del resto i ceceni. Trasportare i nostri bagagli nella nuova accogliente sistemazione fu un sollievo e la notte buia e tempestosa calò con mano plumbea sulle nostre nuche assieme al torpore della tensione dissolta. Venimmo svegliati al mattino dalla cortese dezhurnaija che portava due bicchieri colmi di profumato thé georgiano forte e ruvido; la potenza del rublo le apriva completamente la chiostra dei denti ricoperti di acciaio, il sorriso metallico ma sereno di chi si era guadagnato la giornata. Anche Zhenija era di buon umore, così le cose dovevano marciare in un paese serio e anche se la tensione ed il sudore gelato gli aveva provocato una fortissima tracheite, sorbì il suo thé con voluttà assicurando che non ci sarebbero stati problemi e anche se la broncopolmonite avesse preso il sopravvento (come sembrava probabile) avrebbe tenuto bordone fino alla morte. Ci teneva molto a dimostrare la sua affidabilità a quello che ancora riteneva uno spietato supriore, al vertice della sua visione gerarchica e ci vollero mesi a farmi considerare come un amico oltre che un collega. La sconfinata pianura del Donbass coperta di neve, scorreva intanto lenta al nostro fianco. Ancora thé indiano medio forte e Zhenija, vista la disponibilità della vagonaia, ordinava senza vergogna; gli bruciavano i 10.000 rubli comunque, ma i continui accessi di tosse catarrosa scemarono di intensità mentre il treno entrava in stazione, ovviamente in orario. Sulla banchina, sull'attenti, la figura barbuta e paurosamente magra del dostovieskiano Alexej, ci aspettava come la grande mietitrice per l'appuntamento fatale.
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2 commenti:
Ancora uno spaccato di un mondo, di una condizione umana che fa sempre stringere un po' il cuore...
ciao Enrico,
g
accipicchia ...ma qui è meglio che al cinema....e quanti personaggi !!
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