martedì 11 maggio 2010

Lettere dalla Kampuchea 9: Un tuk tuk in affitto.

L'alba a Battambang è calma e sonnacchiosa come si conviene ad una pigra cittadina di provincia, che se non fosse per l'ospedale di Emergency, che per primo se ne è occupato, neppure ci si renderebbe conto di essere al centro di uno dei territori più fittamente ricoperti di mine antiuomo del mondo. Ne hanno seminati a milioni nelle risaie e nella foresta fino al confine thailandese di questi ordigni schifosi, studiati apposta per non uccidere. Troppo semplice sarebbe; no, la mina rende soltanto invalido, senza gambe, senza braccia o cieco, così da farti diventare un problema per il tuo paese per decenni, per sempre. Legioni di invalidi popolano questo paese, che darebbe loro una pensione di 25 dollari al mese, ma ritirabili anche tutti assieme, cosa che quasi tutti hanno fatto e che in un attimo si sono esauriti; così rimane soltanto il problema di vivere ogni giorno. Eppure è un territorio ricoperto di bellissime risaie, che non appena comincia la stagione delle piogge, si vela del un tenue verde oro degli steli di riso, la ricchezza della Cambogia. Il tuktuk di Toni scoppietta lento lungo la strada. Che piacere girare così al ritmo di questa campagna, adesso polverosa e calda, tra poco ricoperta di acque. Gruppi di capanne su basse palafitte, costruite da poco di fianco alle buche delle mine o delle bombe, su terreno finalmente sicuro, oppure villaggi vecchi con le case fatte di legno antico che la furia della guerra ha solo sfiorato, dove il proprietario, camminando a piedi nudi, sul lucido impiantito di scuro tek ti racconta in francese la serena vita del nonno che lo ha costruito, mostrando con orgoglio un vecchio mobile di foggia europea che chiama la consolle. L'antico tempio Phnom Banan sulla collina ha 5 stupa in rovina. Le pietre sembrano oscillare su queste strutture quasi morenti; eppure il tempio vive, con piccoli altari dove qualcuno porta un'offerta, brucia qualche bastocino di incenso, lascia un frutto. Qualche monaco solitario sembra meditare silenzioso nella calura del meriggio. Uno di loro, magro e allampanato, stretto nel suo telo arancio, all'ombra di una grande albero, mi attacca un bottone. Vuol sapere chissà perchè, quante lingue parlo, poi si richiude nel suo silenzio statico, lo sguado perso nel vuoto, parte dell'arenaria ambrata che lo circonda. Mi sembrava impossibile salire lungo i quasi 400 gradini corrosi dal tempo, una lunga scala ripida e cattiva che vuole sofferenza prima di farti meritare il Paradiso, la vista dall'alto della campagna circostante, delle emergenze di roccia lontane nella piana. Una fatica feroce, spietata e senza intervalli per chi come me, oltre al pesante fardello dei propri peccati deve anche portare quello del lardo, uno zaino che non si può lasciare a valle, mentre i rivoli di sudore ti fanno dimenticare i due ematomi che la gita in barca di ieri ti ha lasciato per ricordo, in una parte del corpo che non posso per rispetto al tempio, nominare. Un ragazzino astuto ed ingegnoso, dotato di grande ventaglio mi segue per tutta la dura salita, facendomi aria per tutto il percorso, lento, passo dopo passo, ridendo del mio ansimare, ma che non ho la forza di scacciare, ma anzi della cui refolo leggero, procurata dai movimenti sapienti del labello, godo, mentre il sudore evapora provocando un fremito di frescura a lenire la fatica. Mai mancia sarà più guadagnata. Qualche kilometro più ad ovest, il monte su cui sorgono i vari piccoli edifici religiosi del Phnom Sampeau, che culminano in piccoli stupa dorati di recente costruzione. Questo è un altro dei luoghi di morte dove gli Khmer rouges compivano le loro mattanze. Dirupi e forre dove le vittime, torturate a dovere, venivane gettate; templi trasformati in prigione, montagne di teschi che la pietà dei monaci raccoglie in grandi teche. Queste cose ti lasciano sempre senza fiato; il contrasto tra l'orrore e la bellezza del luogo stridono a tal punto da rendere difficile il fare ragionamenti, tentare spiegazioni. Così disceso, rimani seduto alla capanna a riprendere fiato, fisicamente e mentalmente. Toni ha voglia di chiacchierare; così con un pezzetto di ghiaccio tra le mani prelevato dalla ghiacciaia, tra le lattine di Coca, racconta la sua storia. Era piccolo Toni, quando arivarono gli Khmeri rouges, aveva poco più di tre anni, eppure ancora si ricorda di quando arrivarono in città e come cominciò il rastrellamento casa per casa. Il padre insegnava francese nel liceo di Battambang e sapeva cosa gli sarebbe capitato, così fuggì sulle montagne con quattro compagni per tentare di arrivare in Thailandia. Con la mamma ed i suoi sette fratelli, lui era il più piccino, furono portati in un campo tra le risaie. La madre ed i fratelli più grandi ad alzare argini con zappe e badili fino allo sfinimento, i piccoli raccolti e saparati e privi di tutto. Erano circa quattrocento bambini e dopo tre anni, dieci mesi e ventidue giorni di fame e di stenti, rimasero in una ventina. Lui perse due sorelle e un fratellino più grande. Il padre non riuscì a superare il confine ma visse quel tempo nella jungla dei monti Cardamomi, cibandosi di bacche e radici e alla fuga dei soldati, torno a valle coperto di foglie. Ritrovò quel che rimaneva della famiglia che finì in un grande campo profughi vicino al confine. Toni aveva ormai più di sette anni e benché la vita del campo fosse durissima, potè andare a scuola dove, spinto dal padre, imparò l'inglese. A quel punto fu data loro la possibilità di andare negli Stati Uniti, ma il vecchio professore pensò che nel nuovo paese che stava nascendo ci sarebbero state occasioni per chi aveva una istruzione. Così rimasero. Ma venne ancora la guerra civile e l'adolescente Toni finì in uno dei quattro eserciti che si combattevano a vedere altri orrori, a provare altre sofferenze. Adesso le cose vanno meglio. Lui parla inglese e se arriveranno molti turisti, avrà buone occasioni di guadagno e anche se l'affitto del tuk tuk gli costa 50 dollari a mese, magari un giorno riuscirà a comprarsene uno, per poter guadagnare un po' di più, per poter mandare la sua unica bambina ad una buona scuola superiore, perchè, come diceva suo papà, puoi perdere tutto, ma l'istruzione è l'unica cosa che ti rimane nella vita. Ho già capito che toccherà largheggiare nella mancia.
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2 commenti:

Angelo azzurro ha detto...

Che orrore tutti quei teschi, quei morti senza pace...
riguardo alle mine antiuomo...nessuna paura da parte vostra girare in quei territori così a rischio?

Enrico Bo ha detto...

Ma no in effetti, oggi tutti i luoghi con un minimo interesse turistico sono stati sminati. (basta non allanyanarsi troppo dai sentieri , eheheheh...)

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