mercoledì 17 agosto 2011

Lampada a petrolio.

Ferragosto in città è una cosa strana, accidenti, quasi tutto chiuso e in questa città di provincia poi, dove non passa un turista a pagarlo, ancor di più. Quando ero bambino invece, da fine maggio a fine settembre, ero in villeggiatura. Si diceva così, ma era andare a cinque chilometri dalla città a casa dei nonni a Valle San Bartolomeo, un paesetto ai piedi della collina. Anche lì faceva lo stesso caldo tremendo e la sera sotto la "topia" di uva americana era pieno di zanzare, ma la mia mamma diceva che cambiare aria faceva bene al bambino, che poi ero io. In effetti mi divertivo molto a giocare nel grande cortile ed ero troppo piccolo per poter valutare i piccoli disagi che la sistemazione di fortuna imponeva ed in fondo erano quasi quattro mesi di maggiore libertà. Certo, nella città tentacolare mi era impedito di andare a giocare in cortile; brutta gente secondo mia madre. Quindi la possibilità di stare all'aperto quasi tutto il giorno faceva passare in secondo piano tutto il resto. Le giornate, anche quando ero troppo piccolo per avere il permesso di oltrepassare il cancello in fondo allo stradino, passavano velocemente. Poi alla sera, secondo i turni della ferrovia, mio papà arrivava dalla città in bicicletta e il giorno dopo si dedicava all'orto, chilometro zero ante litteram. Mia mamma mi teneva comunque sotto discreta sorveglianza, si sa i bambini non bisogna perderli di vista un attimo che se no guai, continuando a guatarsi con le cognate in una situazione ambigua di non belligeranza che da un momento all'altro però, poteva sfociare in guerra aperta. Di quel periodo non sono riuscito a conservare quasi nulla, forse perché non c'era quasi nulla, a parte i ricordi. Un vaso da notte, di maiolica bianca, grande e pesantissimo. E certo, il bagno non c'era in casa. Bisognava andare ad un casotto di legno in mezzo all'orto, con una porta un po' sbilenca fatta di assi di legno pieni di schegge che si piantavano nelle dita tenerelle e che dovevi tenere chiusa con una cordicella, all'interno del quale stavi su altre assi con un gran buco in mezzo sospeso su una fossa puzzolente, che mi faceva una paura terribile, avendo il continuo timore di caderci dentro. 

Tale e quale a tante altre che avrei trovato dopo tanto tempo in Cina, in Uzbekistan, in India, forse un segno o un disegno del destino. Forse anche nella cacca si possono leggere i segnali del futuro. Bisogna solo saperli interpretare. Comunque la pipì cercavo di farla in giro, inseguito da mio nonno che mi minacciava col bastone, non mi ricordo praticamente null'altro di lui; per il resto cercavo di utilizzare al meglio il vaso prodigioso e salvifico, che con il suo candore perfetto, omnia munda mundis, mi impediva di cadere nel baratro infernale. Per l'acqua, altro problema, c'era una pompa nel cortile e toccava portarla dentro a grandi secchi. Mia mamma mi faceva il bagno in una grande mastella in cortile, cosa di cui mi vergognavo moltissimo di fronte alle cuginette più grandi che mi pareva facessero a bella posta di passare a poca distanza facendo finta di nulla e ridacchiando. Forse mia mamma capì il disagio e ad un certo punto passammo all'interno della casa, anche se i secchi d'acqua da portare erano pesanti. La sera dopo cena si stava ancora un po' fuori nel cortile ad aspettare che facesse buio completo alla luce della luna, prima di andare a dormire. Quando gli zii avevano raccolto le pannocchie di un piccolo campetto di granoturco, che erano state messe a seccare contro il muro assolato della casa, toccava sgranarle a mano. 

Era un vitreo rosso, tipo Maranino e vorrei poter ricordare che se ne faceva una meravigliosa polenta dai profumi e dalla consistenza di quelle che adesso non se ne fanno più, invece mi rammento solo che faceva un male cane a sgranarle, quelle pannocchiette mefitiche con quei granellini duri che si piantavano nelle dita come delle pietroline. E niente racconti fatati degli anziani a tenere avvinti i bimbi nella semioscurità. Quella è roba da romanzotti consacratori di un passato favolistico che forse non è mai esistito davvero. Niente altro che uno spettegolare vario delle nuore sulla gente del paese e altra arte varia di cui allora non afferravo neanche bene il senso. Nessuno si lamentava delle zanzare, eppure ce n'erano un sacco e a me venivano dei ponfi enormi su cui la mia mamma faceva delle croci profonde con l'unghia del pollice, cosa che mi pareva dare grande sollievo. Poi quando era buio, mi prendeva per mano e si andava a letto, facendo attenzione. Il problema non era l'impianto elettrico non a norma, era che non c'era l'impianto elettrico, anzi non c'era proprio l'elettricità. Così guadagnavamo la nostra camera con l'aiuto di un lume a petrolio, il secondo oggetto che ho conservato. Era davvero una lampada magica, anche se il liquido che veniva messo all'interno di tanto in tanto aveva un odore sgradevolissimo. Una base liberty di vetro lattiginoso azzurro chiaro, su cui emergeva uno stoppino bianco a pescare nel liquido sottostante, con una rotella che lo poteva far emergere a poco a poco mentre si consumava. Mamma, invece di sfregarlo, lo accendeva con un fiammifero che faceva una fiamma chiara di zolfo e la illuminava tutta, era davvero bella la mia mamma, poi quando la luce era costante, calzava sulla base un cilindro di vetro trasparente, che in verità era già un poco sbrecciato in cima e, tenendola saldamente si saliva le scale. 

Un soffio sulla fiamma ed era notte vera. Ieri, mentre scrivevo il post cinese nella stessa calura agostana di allora, ho sentito un gran fragore. Un chiodo nel muro aveva ceduto e un grande quadro, pesante, forse troppo per quel povero chiodo, si è abbattuto sul tavolinetto del corridoio, proprio sopra alla vecchia lampada a petrolio dalla punta che si era sbrecciata forse sessanta anni fa. L'ha distrutta in mille minutissimi pezzettini di vetro, trasparenti e azzurri, che ho radunato a fatica, mescolate com'erano tra le altre cose sul pavimento. Piccole schegge di passato che non volevano a tutti costi farsi spazzare via, tenacemente abbarbicate al tappeto per resistere ancora un po' prima di rassegnarsi all'oblio definitivo, alla completa cancellazione del passato. E' rimasto intero solo lo stoppino a guardarmi implorante. Ma vuoi davvero buttarmi via per sempre? La scopa, però, non ha pietà dei sentimenti, è come una livella metafisica che azzera anche i ricordi, un reset intenzionale che formatta il disco. Forse qualche scheggia più minuta sarà rimasta negli angoli. Ci penserà l'aspirapolvere. Ora resta soltanto più il vaso da notte, ma lui è vigile, attento, robusto, abituato ad una vita più dura e ad un lavoro non gentile, diciamo meno da fighetto. Solo i veramente duri resistono, forse lui ce la farà. 


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2 commenti:

Adriano Maini ha detto...

Io hosolo sfiorato alcune situazioni di quellevda te narrate, ma a bambino sicuramente mi sarebbe piaciuto intensamente viverle tutte!

Enrico Bo ha detto...

@Adri - per forza, sei troppo giovane!

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!