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venerdì 5 settembre 2014

Decadenza?

Ma l’Europa ed in generale il mondo occidentale è davvero in una fase di decadenza inarrestabile? A giudicare dalle sensazioni, tutti lo pensano. Il problema è: ma da cosa dipende? Qual è il motivo per cui ad un certo punto una civiltà, un impero, un modo di vivere, raggiungono via via un loro apice, producendo arte, bellezza, scienza e perché no filosofia e poi inesorabilmente prendono a scivolare verso una china inarrestabile e decadono inesorabilmente, sorpassate da altri più giovani ed arrembanti, spesso più rozzi, ma come si dice con più fame, più voglia? Non è facile dare una spiegazione che non sia fondata sul pregiudizio, eppure basta guardarsi indietro e si vede bene che questa parabola è destino comune a tutti. Si potrebbe dire una storia già scritta, basterà solo mettere una dimensione temporale, per qualcuno più estesa, per altri brevissima. Qualcuno tira in ballo, nella progressione della decadenza, l’imporsi di costumi molli e, come si diceva una volta, in cui non era di moda il parlare politicamente corretto, depravati. 

Ma direi che è quasi il contrario. Il punto più alto della cultura greca è stato il IV secolo pericleo, quando i vecchi filosofi non disdegnavano di farsi i ragazzini e gli eroi della guerra, da Achille prima ad Alessandro Magno poi, che erano un po’ come tu mi vuoi, nel senso che passavano tranquillamente dalle belle Briseidi ai giovani di bell’aspetto, per non parlar di Saffo e chi più ne ha più ne metta. Se tuo padre ti prendeva un precettore di una certa fama da cui apprendere l’amore per la sapienza, potevi star certo che non salvavi le chiappe, salvo rifarti in un secondo tempo. Di Cesare marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti, ne son piene le cronache. Durante il nostro Rinascimento, poi, se non eri da quella parte lì, forse neanche ti prendevano a bottega. Altri invece, pongono la possibilità che la decadenza viaggi a braccetto con la violenza e la litigiosità che portano alle guerre e l’avidità della corruzione, che impesta ogni carica pubblica, lucrando su appalti, prebende e su ogni cosa dia la possibilità di fare soldi. Ma anche qui la storia sconfessa questa teoria. 

Ancora una volta chiamo in causa il nostro Rinascimento, dove venivano ordite le più atroci congiure, i Borgia si avvelenavano l’un l’altro, non c’era mercato a negozio che non volesse la sua brava tangente, si compravano cariche civili, politiche e financo ecclesiastiche, mentre bande di ventura mettevano a ferro e a fuoco la penisola, eppure le città italiane erano le prime nel mondo e generavano i Michelangelo e i Leonardo, mentre gli Svizzeri, brava gente per carità, che non cercano di corrompere neppure il boia, in 800 anni hanno inventato solo l’orologio a cucù (questa l’ho letta si internet). Non parliamo della Serenissima dove all’apice della sua storia, poco prima di Lepanto, si dovevano calcolare e mettere in preventivo quanto ogni armatore di galea avrebbe rubato sugli appalti per poter muovere guerra al Sultano. No, credo che anche corruzione e violenza non siano un metro valido per poter dire che una civiltà è in decadenza. Mi sono convinto invece, osservando un po’ le varie storie dei grandi imperi che il loro fulgore e la loro importanza crescesse inesorabilmente quando, l’avanzare nella società, le carriere e il raggiungimento di posizioni massime di potere era dato senza infingimenti dal merito e non dal nepotismo. 

Le varie dinastie che si sono succedute in Cina, avevano alla base del funzionamento dello stato, il difficilissimo esame per diventare funzionario. Era una lotta spietata a cui concorrevano ogni anno in migliaia, da ogni parte del paese. Tutti, in teoria potevano accedervi, naturalmente i più ricchi avevano più chances di arrivarvi, non era una questione di giustizia sociale, ma quello che contava era che alla fine venivano scelti i migliori in assoluto e per questo lo stato prosperava. Non si disdegnava di mettere ai vertici, come ministri, personaggi che arrivavano dall’estero e che forse avevano più ampie vedute. Kubilai Khan aveva come ministro delle finanze un arabo e elevò al rango anche il nostro Marco Polo, tanto per dirne una. I Sultani Ottomani sceglievano la loro classe dirigente tra i fanciulli rapiti nelle scorrerie o scelti appositamente tra i più dotati nei vari villaggi. 

Anche qui selezione spietata, molti si perdevano, i più tosti andavano a formare la classe dei Giannizzeri, un esercito di specialisti di eccellenza, i migliori in assoluto diventavano ministri e visir, i governanti effettivi dell’impero, tutti provenienti dalle classi più umili. Quando cominciarono ad arrivare a queste cariche figli e parenti vari, arrivò anche Lepanto e l’Impero entrò in una inarrestabile decadenza. L’esempio più eclatante è poi l’impero romano, dove i primi imperatori, proprio per evitare il nepotismo, sceglievano il loro successore in base ai meriti, veri o presunti naturalmente, perché l’uomo nasce fallace per natura. Quindi lo adottavano garantendogli la successione. Anche qui, quando il sistema andò in disuso, cominciò inarrestabile, il decadimento. In fondo questa è la natura dell’uomo. Chi non vorrebbe il meglio per il proprio figlio, chi è così grande da essere capace a rinunciare ad aiutarlo, oltre i suoi meriti? Io credo pochi, per questo siamo destinati, sazi di benessere e lamentosi all’infinito, a scendere inesorabilmente verso il basso. L’importante è farsene una ragione.

giovedì 28 novembre 2013

The day after.

Pastore Masai - Tanzania - Febbraio 2013

Senza fine. Questa è la sensazione che ti incombe netta quando butti lo sguardo intorno. Una retta precisa e geometrica che segna il confine tra cielo e savana. Azzurro e verde che quasi si confondono e che da qui, dai contrafforti digradanti che salgono verso il cono scuro del monte Meru, appaiono ancora più distanti. Un luogo di apparente solitudine coperto di pascoli antichi, ricchi e che la pioggia frequente fa ancora più verdi. Dispersa lungo il pendio, l'immensa mandria di Mbili bruca erba senza fermarsi un attimo con dedizione esemplare. Sono vacche bellissime con grandi corna bianche che si levano orgogliose, mantelli pezzati multicolori che si confondono tra di loro come un pigro camaleonte marezzato immobile e seminascosto tra le foglie. Tutto ti dà l'idea di ricchezza generosa, di una situazione florida da sempre, di una agiatezza messa insieme in anni e anni. Mbili è seduto su un grande masso di granito tondeggiante vicino al boschetto di acacie che nascondono lo specchio di acqua dove la mandria finirà ad abbeverarsi a sera. Appoggiato al lungo bastone di legno duro, tiene lo sguardo rivolto verso terra, come sempre. Si vede bene che non avrebbe voglia di parlare con quella gente venuta da lontano che si è fermata lì, al bordo della pista, chiassosa e maleducata e che corre qua e là come un gruppo di impala spaventati, fotografando tutto quello che si muove e anche quello che sta fermo. In fondo gli dà fastidio rispondere a tutte quelle domande così banali, che gli fa quel ciccione sgraziato e curioso, col un cappellino ridicolo in testa per sembrare di più all'idea che ha del cacciatore bianco. Vuol sapere tante cose, troppe. 

Come mai lui che è tanto ricco, forse uno dei più ricchi tra le tribù di tutta la valle, che si può permettere un mantello rosso fuoco di stoffa costosa e un telefonino così moderno anche se non ha nessuno da chiamare, se ne sta sempre lontano dal villaggio e non ha una nutrita serie di giovani mogli come si potrebbe permettere e perché non è capo del villaggio. Parla bene il mzungu, così a poco a poco si lascia tentare e gli racconta la storia. Di quando giovane ancora e già ricchissimo, pensava di essere il più furbo di tutti, già comandava al consiglio degli anziani e assaporava un potere quasi assoluto sulla tribù. Le ragazze più giovani e belle non aspettavano altro che portarlo nella loro capanna, anche se era piccolo e bruttissimo, per farsi regalare capre e vacche la mattina dopo. Quando venne la siccità, tutta la tribù soffriva e mancava tutto, le mandrie si assottigliavano e diventava sempre più difficile mangiare qualcosa. Così molti dividevano quello che avevano con gli altri. Quando fu chiesto a lui, aveva già predisposto tutto. Aveva portato le sue mandrie lontano, al di là dei pascoli conosciuti perché nessuno le vedesse e raccontò che le sue bestie erano quasi tutte morte e che poco poteva contribuire alla necessità comune. Quando scoprirono la sua menzogna, tutti gli uomini del boma rimasero in silenzio a guardarlo. Lui capì subito, lasciò sulla grande roccia davanti alla porta del villaggio le insegne del comando e se ne andò per sempre sulle colline lontane. Il bianco chiacchierone era curioso e insisteva a chiedere perché, con tutto il suo potere e la sua ricchezza si fosse rassegnato a lasciare ogni cosa. 

Non avrebbe potuto facilmente comprarsi con un po' di vacche l'appoggio di qualche anziano? Le ragazze poi, anche se non contavano nulla nelle decisioni, avrebbero certo spinto perché lui rimanesse e si sa che durante la notte potevano essere assai convincenti con i loro uomini. Mbili alzò la testa con uno scatto e lo fissò per la prima volta gli occhi. "Ma in quale terra vivi, uomo, da voi non sapete cosa significa dignità? Come avrei potuto guardare in faccia il mio vicino insistendo a rimanere con gli altri dopo aver rubato al mio popolo, pretendere di amministrare il villaggio dopo avergli mentito e continuare ad avere su di me gli occhi di tutti, occhi muti che sapevano. Come è possibile che un uomo degno possa sopportare una simile vergogna? L'onore è l'unica cosa che rimane". Il bianco si alzò, asciugandosi il sudore con un fazzoletto, pensò di dirgli che ci sarebbe stato ancora molto da fare, appellarsi ai suoi fedelissimi che gli stavano sempre vicini, nutriti a latte e carne delle sue bestie, affinché lo spalleggiassero, che avrebbe potuto appellarsi al consiglio degli anziani dei villaggi, regalare un po' di vacche a qualcuno che testimoniasse che le mandrie erano fuggite a sua insaputa e che lui le avrebbe trovate miracolosamente dopo giorni e giorni, che avrebbe fatto libere e felici tutte le ragazze che avessero saltato per lui per amore, ma capì che forse era inutile, i valori cambiano da luogo a luogo. Fece ancora un paio di foto alle vacche sparse sulla collina, poi salì sulla Toyota che aveva già il motore acceso e se ne andò lasciando una lunga scia bianca polverosa e puzzolente.


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venerdì 12 novembre 2010

Umberto Eco - Baudolino.

L'altro ieri era San Baudolino, patrono della nostra città e personaggio emblematico della stessa. Visse nell'VIII secolo al tempo di Liutprando e seguendo il filone pauperistico fece l'eremita facendo miracoli, parlando agli animali e prevedendo il futuro, un po' sciamano, un po' Vanna Marchi, tanto per capirci. Perchè è un archetipo della mentalità alessandrina? Per capire bisogna raccontare il suo miracolo principale, che bene definisce il Santo e quello che sarà la sua città. Dunque ecco il fatto: Liutprando in una caccia colpì per errore l'amatissimo nipote Anfuso, con una freccia che si rivelerà fatale. Pazzo di dolore il re corse da Baudolino che nel suo eremo si intratteneva davanti al volgo parlando a cervi e orsi della zona, pretendendo il miracolo e promettendo sfracelli in caso non fosse stata esaudita la sua richiesta.


Il potere è sempre uguale, quando pretende vuole essere soddisfatto. Cosa avrebbe fatto un santo normale, concreto, possiamo dire banale? Avrebbe fatto guarire il giovane e raccolto le prebende. Troppo semplice e non in linea con la mentalità alessandrina. Il buon Baudolino parlò a lungo col re e lo convinse che non c'era niente da fare; il giovane sarebbe morto e che si mettesse l'animo in pace. Liutprando convinto se ne andò in lacrime, ritirando le intenzioni malevole e sostituendole con opere buone. Ecco il miracolo all'alessandrina. Così, pensando a queste cose ho ripreso in mano il Baudolino del mio conterraneo Umberto Eco, libro che mi sono gustato moltissimo e che vi invito a scorrere se ancora non lo conoscete.


E' uno dei suoi libri più gustosi. La storia di un picaro alessandrino chiamato proprio Baudolino in onore del Santo, mentitore e intelligente e della sua folgorante carriera, in cui verità e menzogna si mescolano in maniera indistricabile fino alla fine. Un affresco medioevale stupendo e divertente, con l'imperdibile incipit di un intero capitolo in una lingua inventata tardo latino-dialettale, che vale da sola l'intera opera, che tanto essendo ormai nei tascabili costa anche poco, per dirla all'alessandrina. Perchè la nostra testa funziona così, cari miei, troppo smagati e poco inclini all'entusiasmo, sempre pronti alla critica distruttiva e allo stare a guardare le altrui iniziative con incredulità. Per questo la città è sprofondata in una decadenza senza speranza. Se escludiamo l'800, in cui proprio da qui è partita l'idea di una rivoluzione che ha condotto all'Italia unita e, sull'onda di questo entusiasmo, la città è rifiorita fino agli anni 30 del 900, è poi cominciato l'inarrestabile declinio, la cui responsabilità o il merito va ricercata soprattutto nella testa dei suoi abitanti.



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lunedì 12 luglio 2010

Sportivo è una parola grossa.


Si fa presto a dire: non sei sportivo. Intanto se uno è grasso, diciamo leggermente sovrappeso, non più di una trentina di chili certo, questa menata dello sport come metodo per consumare calorie, oltre che terribilmente noioso e privo di interesse, diventa anche una sorta di stress psicofisico che non fa bene, anzi è di certo foriero di più gravi problematiche. Se poi anche lo sport come spettacolo diventa delusione e noia, allora andiamo a goderci una serata al fresco tra le frasche, con una fetta di anguria in mano che è meglio.


Aver visto un campionato del mondo mediocre, con una finale tra squadre mediocri, buone solo a tirarsi calcioni nello stomaco, le migliori comunque tra tanta mediocrità, con partite condizionate da errori di arbitri mediocri, mentre la tua nazionale è stata cacciata come ultima del girone più debole e scalcagnato, è sintomo chiaro di un mondo che si è adagiato e si crogiuola nella crisi e nell'impotenza, nell'incapacità di reagire al sopruso e all'arroganza, con l'intelligenza, la ragione, la bellezza; piegandosi all'oscurantismo, alle religioni, all'immobilismo del potere più becero. Siamo diventati tutti grassi nel cervello, ci siamo adagiati in comode nicchie di benessere in cui la mancanza di fame, ha fatto nascere la pseudocultura dello slow food.


Eppure nel dopoguerra eravamo tutti bei bambini che parevano volenterosi di fare, figli di un baby boom che sembrava voler cambiare il mondo. Veramente io, magro magro non lo sono mai stato, anche quando, piccino, la mia mamma mi portava dal fotografo con la maglietta che mi aveva fatto ai ferri con relativo fiocco di palline al collo (ero peraltro un bellissimo bambino, come si può ben vedere, e tale sono rimasto), salvo un brevissimo periodo servito ad intortare quella poverina della mia GS (gentile signora) che evidentemente, obnubilata dall'amore, avrà creduto che sarei rimasto bellissimo per sempre; diciamo che ero un bambino grassoccio, anche se molto carino. Un po' molle in verità, che non riusciva ad arrivare in cima alla pertica e per questo motivo tentava sempre di farsi esentare dalle lezioni di educazione fisica, per evitare la derisione dei malevoli compagni.


Allora andava di moda la pallacanestro nelle scuole, i maschi erano una quindicina per classe e anche coi cambi qualcuno doveva rimanere fuori giocoforza. La palestra del nostro liceo era una cantina piuttosto vecchia e piena di spigoli, pericolosi anche per giovani dalla vitalità prorompente. Così era necessario che qualche allievo a caso venisse messo a protezione delle esuberanze liceali. Così toccava sempre a me fare da paraspigoli, dopo che alla prova dei fondamentali tre passi, non riuscivo mai a buttarla nel cesto. In effetti, però, non provavo alcuna frustrazione. Forse da lì nasce la mediocrità di una nazione.





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domenica 14 marzo 2010

Elezioni regionali.

Certo l'Europa è una vecchia signora demodée e priva di slanci. Ha finito gli ormoni e si preoccupa solo, ricca e decrepita, delle rughe della pelle che mostrano la sua irrimediabile discesa e non pensa né si preoccupa per la quantità di neuroni che ogni giorno le si spengono nella testa, i giovani che diminuiscono o se possono se ne vanno. L'Italia va ancora peggio, ormai infettata dal virus di un declinio inarrestabile e si lascia andare come quei vecchi in un triste ospizio, ossessionati solo dai problemi della sicurezza, che infermiere interessate istillano loro ogni giorno assieme al Valium, per sedarne gli ultimi momenti di lucidità. In fondo non è nemmeno spiacevole accettare un allettamento definitivo, in un bambagismo senza spigoli, che ti fa guardare con occhio benevolo l'amoralità dei comportamenti, che ti fa superare il disgusto per la corruzione istituzionalizzata, accettata comunque perchè almeno così qualcosa si fa, senza un moto di ripulsa quando ogni volta che scoperchi una pietra, vengono fuori i vermi. Il tutto condito con la più classica invidia dell'anziano verso il potere smaccato, che non ha potuto avere o che non ha più o che se ancora ne detiene uno scampolo non vuol mollare a tutti i costi perchè gli mantiene l'illusione della gioventù, il potere che serve ad avere danaro e sesso, le due ossessioni dell'uomo. Ma scendiamo ancora più giù lungo le ripe scoscese delle Malebolge ed arriviamo alla mia terra, alla mia città popolata di vecchi accidiosi che tali, per tradizione erano anche da giovani, già nati vecchi; una città che da 80 anni non ha saputo mai innovare, ma che è scesa lentamente verso il basso, perdendo a poco a poco ogni suo punto di eccellenza. Il mio amico Ping, quando viene in città dalla Cina, si meraviglia di ritrovarla sempre uguale. - In 20 anni, avete fatto tre case nuove e un ponticello che va bene per la Barbie.- Eh già, da loro, una città come la nostra la rifanno in un anno. Ora le toglieranno anche quello scampolo di Università che manteneva, con qualche ragazzo, un minimo di presenza giovanile. Città specchio di una regione, il Piemonte ormai diventata simbolo nazionale della decadenza, delle occasioni perse, delle rimostranze su come si doveva fare. Quadro troppo pessimista e negativo? Lo specchio e la conferma di tutto questo sono le elezioni regionali alle porte. Ieri un amico, acuto osservatore del dibattito politico, mi faceva notare una cosa interessante. Con l'aria che tira, le elezioni le vincerà certamente un personaggio di una forza politica dichiaratamente milanocentrica, proveniente da un'area del Piemonte che non si sente affatto piemontese, ma lombarda. Un partito che non ha mai fatto mistero di considerare il Piemonte come un'area depressa da tenere come serbatoio di voti, ma da depredare progressivamente di ogni attività economica utile alla crescita. Chiedetelo ai dipendenti del San Paolo, vi faranno un bel quadro di come sono contenti da quando quella che doveva essere un'unione alla pari, ha spostato l'asse del potere completamente ad est. Anche la piccola Cassa di Risparmio di Alessandria è stata assorbita da una banca milanese. Il Gruppo del Credito Valtellinese è venuto a fare shopping da noi, dove ormai tutto è in svendita. Un Governatore della regione di tal fatta completerà l'opera? Se questo avverrà, non bisogna piangere, io credo che abbiamo quello che ci meritiamo. Pensate che un argomento come questo non viene neppure utilizzato dalla sua avversaria politica. Forse neanche ci pensa più il piemontese tipo, abituato a pensare sempre al ribasso, a ridurre le spese, a resistere con quel poco che ha fino a quando arriverà la mietitrice a toglierlo dalle grane, di potersi ancora permettere la Mercedes (Bresso).

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