mercoledì 1 ottobre 2008

Un pane non integralista

Era un'estate caldissima quella dell'80. Con una 127 bianca da 100.000 km percorrevamo le strade, per la maggior parte non asfaltate, del centro della Turchia, boccheggiando per l'afa, storditi dal forte frinire di orde di cicale. In un punto incerto tra Ankara e la Cappadocia, la mancanza di indicazioni stradali ci faceva percorrere un po' a caso una carrareccia bianca e polverosa il cui unico pregio era la direzione sud-est. Era appena passato mezzogiorno, quando su un piccolo rilievo al lato della strada, d'improvviso comparve un gruppetto di case basse, di pietra e fango intonacate di bianco antico. L'informazione è la chiave del viaggio e contraddicendo l'assioma che l'uomo vero non deve chiedere mai, ci dirigemmo verso la prima casa, lasciando dietro di noi un'alta colonna di polvere bianca. Scesi dalla macchina nella corte deserta, anche per sgranchire le gambe che la calura aveva reso molli, guardandomi intorno alla ricerca di qualcuno. Da dietro la casa uscirono due donne con larghe gonne colorate lunghe fino ai piedi. Due visi contadini, larghi e interrogativi. Portavano tra le mani con l'aiuto di un largo telo, alcuni grossi pani di colore scuro, che dalla cautela con cui venivano tenuti, dovevano essere stati appena tolti dal forno che infatti scorsi a lato delle case; un basso tumulo tondeggiante con un pertugio basso da cui si intravedeva il rosso fiammeggiare del fuoco e la pala appoggiata di fianco. Ero alquanto impolverato e male in arnese quando tentai l'approccio, ma la mancanza di linguaggio comune che non fosse quello dei segni, non fu di grosso ostacolo, perchè le donne non si ritrassero come temevo, anzi si vedeva chiaro lo sforzo di capire la necessità dello straniero. Italia, dissi, poi mimando una direzione interrogativa chiesi la strada e questo bastò per aprire il sorriso. Quando intesero Uchisar e Goreme assieme a sehir, una delle poche parole in turco che conoscevo, cominciarono a indicare con grandi segni la direzione, accompagnandola con cenni affermativi del capo. Le ringraziai come potevo mentre risalendo in macchina ci apprestavamo a riprendere la strada, quando una di loro mi si avvicinò e mi prese il braccio per fermarmi. Io mi voltai dubbioso e lei, mentre la compagna ci guardava con uno sguardo affettuoso, mi mise tra le mani uno dei suoi pani; poi, entrambe si allontanarono rapide senza lasciarci il tempo di rispondere, salutandoci con i gesti delle braccia levate in alto. Dalla macchina Tiziana scattò una foto.Tesekkur, grazie, cercai di dire e ce ne andammo senza altre parole, pensando e quando più tardi ci fermammo vicino ad una fontana lo mangiammo con il formaggio che avevamo comprato il giorno prima. Lo ricordo ancora quel sapore, caldo e leggermente amarognolo con la crosta dura e croccante. Alla sera, i camini delle fate di Uchishar erano nella skyline del tramonto. Ci bastò per tre giorni il pane dell'ospitalità.

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