Ero a Teheran una decina di anni fa e anche allora era da poco terminato il Ramadan. In quella atmosfera allegra ed eccitata, dopo una lunga giornata di incontri d'affari, mi ero fatto lasciare dal mio amico Safavipour nel centro del gigantesco bazar, una vera città nella città. Mi piace molto stare nel vivo di un luogo, passeggiare da solo sentendo suoni, odori e assorbendo colori e immagini per cercare di capire il senso di un posto e delle persone che lo popolano. Come tutti i suk orientali era diviso per zone merceologiche. Ero passato nella odorosa area delle spezie e in quella dei gioiellieri con le piccole botteghe piene di turchesi e lapislazuli; infine arrivai nel bazar dei tappeti. Non ne avevo mai visto uno così grande, un piccolo paese di viuzze, vicoli e piazzette; una sfilata senza pause di negozietti, buchi, botteghe, anfratti completamente pieni di tappeti di ogni dimensione e colore. Amo i tappeti, mi piace toccarli e sentire la forza e l'arte di chi li ha annodati; molto di più di un artigianato pur abile e sensibile. Quando ho potuto ho sempre tentato di comperare qualcosa nei luoghi di produzione e lì ero nel cuore stesso del tappeto. Ne ero completamente circondato. Le pareti dei vicolierano coperte di grandi Farsh, mentre l'interno delle botteghe erano completamente occupate da cataste di tappeti in una sorta di orror vacui su cui sonnecchiavano appollaiati i vari venditori. La qualità della merce era piuttosto scarsa e mi aggirai per i vicoli per un po' assaporando l'ambiente finchè arrivai in uno slargo tra le vie, una sorta di piazzetta centrale dove le stamberghe lasciavano il posto a negozi più ariosi e promettenti. Una balconata circondava lo spazio con belle vetrine che ospitavano pezzi veramente belli e di pregio. Dopo averne esaminate alcune, entrai con calma in quella che mi sembrava ospitare i pezzi più accattivanti. Il proprietario mi accolse con un largo sorriso senza la piaggeria del venditore. Mi piacque subito e cominciai a guardare la merce in vista. Scorsi un bel Navahand dai vivaci blu e bianchi, dei vecchi Sarough e un magnifico piccolo Lilian con le volute eleganti sul fondo mattone. Nel tentativo di comunicare scoprimmo entrambi con dispiacere di non avere nessuna lingua comune se non quella internazionale dei gesti e dei numeri. Chiesi se avesse un Farahan, da sempre in cima ai miei desideri. Andò nel retro e riemerse portando sulla spalla un tappeto che srotolò con cura sul pavimento, con l'abilità del venditore conscio della unicità del suo prodotto. Un Sejjadé di una bellezza straordinaria; rimasi stordito dall'eleganza del prato fiorito che occupava interamente il centro con occhi vividi in un fondo scuro, dalle cinque bordure dai colori perfettamente amalgamati e coerenti tra di loro. Ne fui conquistato e lo volevo a tutti i costi. Cercai di dissimulare il mio interesse chiedendo i prezzi di qualche altro pezzo, ma compresi che ero scoperto, quindi cominciammo la trattativa. Il mio antagonista apprezzò il mio approccio e mi fece accomodare su un basso e comodo divano e subito un ragazzino arrivò con il thè e un po' di dolciumi e pistacchi. Magnificò il prodotto, un primi '900 con una annodatura molto fine. Lo feci girare al rovescio constatando come non avesse strappi o riparazioni, anche il vello era sì rasato ma perfetto, senza punti particolarmente consunti. La trattativa, con l'aiuto delle dita, della calcolatrice e di carta e penna proseguì calma per un'oretta. Safavipour mi aveva avvertito che i prezzi difficilmente ribassano oltre il venti per cento dalla richiesta iniziale, così miravo a quel traguardo godendomi la situazione. Fahim, così si chiamava il negoziante, apprezzava ugualmente il mio approccio poco occidentale dispiacendosi di non poter comunicare maggiormente. La trattativa era resa complicata anche dal fatto che Fahim pur essendo disposto al pagamento in dollari, trattava il prezzo in Rial che convertivamo in dollari con la calcolatrice e successivamente io lo trasponevo mentalmente il Lire. Dopo diversi bicchieri di thè e le tipiche scene della contrattazione, con dichiarazioni di bancarotta da parte del venditore e simulazione di abbandono da parte mia con conseguente richiamo sulla porta per l'ultimo ribasso, arrivammo alla fase finale dopo aver mangiato un ultimo lukumi al miele, dolce ma non stucchevole. Capii dalle tappe di avvicinamento che avremmo chiuso attorno ai 400 dollari e, come faccio di solito, insistendo un po' sui 390, gli lasciai il piacere di avere l'ultima parola. E' una tecnica che uso sempre e che lascia sempre un ottima atmosfera tra le parti e concede la sensazione di essere uscito vincitore dalla tenzone al tuo avversario. Così, mentre Fahim si apprestava ad impacchettare il mio meraviglio acquisto, tirai fuori dal mio borsellino da collo tre fogli da 100 e due da 50 per consegnarli ad un perplesso Fahim che mi guardava con occhi interrogativi. Dopo un vicendevole tentativo di spiegazione, compresi con orrore il misundertanding; il prezzo era 4000 dollari e non 400! Come potevo pensare che una simile meraviglia costasse così poco. Mi crollò il mondo adosso, compresi in un attimo che il mio piacere si era frantumato nella logica dell'impossibilità. Lo stesso Fahim era dispiaciutissimo, oltre che per l'affare sfumato, nel vedermi così affranto. Conclusi frettolosamente per il Navahand a 200 dollari e, seguito dall'alto della balconata dallo sguardo dispiaciuto ed affettuoso di Fahim, me ne andai verso il taxi che mi avrebbe portato all'hotel. Una persona piacevole in un luogo pieno di sensazioni; non riesco a pensare al momento in cui lo bombarderanno.
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