sabato 16 gennaio 2010

Il poncho ricamato.


Ancora pochi kilometri nella selva poi, un altro piccolo paese, Zinacantan, poche case sparse attorno ad una chiesa bianca profilata di giallo vivo. Era in corso una festa e tutto il sagrato era addobbato di colori e di festoni, mentre gli uomini con in testa il Majordomo ballavano al suono di una orchestrina . Suoni che curiosamente mescolavano sonorità latine a ritmi più cupi, più antichi e severi capaci di dare un senso di estraneità senza vera allegria. Gli uomini a piedi nudi, ballavano ritmicamente e anche rimanendo a prudente distanza era tutto un rutilare di colori vivacissimi che emergevano con prepotenza dai mille ricami delle loro camicie che la tradizione vuole preparate con cura dalle donne della famiglia. Questa è una delle principali attività delle donne Tzoziles che abitano questa parte della selva e si dice che se non è in grado di ricamare una bella camicia per il suo uomo, una ragazza non è ancora pronta per sposarsi. Lasciammo la piazza lungo un sentiero laterale senza dare nell’occhio, dopo aver visto l’interno della chiesa in tutto simile a quella di Chamula, con un piccolo specchio alla base delle statue lignee dei santi, dove il postulante per liberarsi della brujerìa, il malocchio, dopo aver preso la pozione di erbe suggerita dal curandero, esegue la limpia, raccontando la sua storia tra le lacrime e pregando fino a che la sua espressione non appare serena. Lo specchio la restituisce tale solo quando il dio-santo lo ha perdonato, dopo l’offerta magari di quattro uova e della lunga preghiera protratta fino allo sfinimento. Niente sacerdote, neanche qui, un cappuccino viene solo qualche volta all’anno per somministrare i battesimi e se ne va dopo aver celebrato una breve messa. Curiosando tra le case, il volto triste di una bimba che fungeva da butta dentro, ci invitò ad entrare in una capanna a due stanze. Nella cucina, con il fuoco al centro bolliva una gran pentola nera con verdure, mais e fagioli, mentre il fumo usciva dalla piccola apertura sul colmo del soffitto. Buttò dentro una gran manciata di chilli rossi come il fuoco e come i ricami che ornavano la sua camicia bianca, mentre nell’altra camera, la figlia grande lavorava su un telaio mobile una lunga pezza di stoffa colorata. Su uno sgabello in un angolo, un vecchio televisore in bianco e nero forniva il rumore di fondo dell’ambiente. Comprammo un sacco di cose e non solo per gli occhi tristi della bambina, poi prima di andarcene, la vecchia, con un calcolato coup de theatre, ci mostrò uno straordinario huipiles, una sorta di poncho, vecchio di qualche decennio, con un fittissimo ricamo di uccellini colorati disposti con ordine attorno al buco centrale, un lavoro talmente bello e piacevole da non poterlo lasciare là. Breve trattativa con la vecchia tzozile, di poche parole, ma rigida nella definizione del prezzo e ce ne tornammo alla macchina accompagnati per mano dalla bambina, che già sembrava avere gli occhi un po’ meno tristi. Tornammo a San Cristobal mentre calava la notte, felici come ragazzini e festeggiammo la serata a El Tuluc. Tortillas con formaggio fresco e infine un piatto imperiale: uno strepitoso filetto relleno de queso amarillo con espinachas, completamente avvolto da fette di bacon e, come diceva Tex Willer accompagnato da una montagna di patate fritte.



2 commenti:

➔ Sill Scaroni ha detto...

Che bello post ...
Ciao Enrico, tutto bene?
Felice 2010 per te !
Un abbraccio.
Sill

Enrico Bo ha detto...

Grazie Sill, ho citato il tuo blog , quando ho cominciato a parlare di popolo indio, qualche giorno fa.

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