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domenica 31 ottobre 2021

Culti di morte

Vermont - Preparando Halloween


Vedo che oggi è halloween e quindi mi tocca come ogni anno sentire la tiritera consunta e insensata, di quelli che non è una festa della nostra tradizione, che chissà perché dobbiamo copiare gli americani, che io sono cristiano, con tutto il contorno del chiamarsi fuori, condito da orgogli senza costrutto, magari frettolosamente anche di un voler rimarcare appartenenze politiche che di questi tempi non guasta mai. Come chiunque sa, se ha voglia di informarsi, questo richiamo all'esorcizzare la morte è invece proprio di tutte le culture e proprio questa in particolare è proprio tradizionalmente nostra, subentrata a riti celtici e fatta propria dal cattolicesimo irlandese dove ha assunto questa forma passando poi all'America e traslata anche nel cattolicesimo latino con le feste gioiose e sguaiate de los muertos coi vari richiami a scheletrume vario che imperversa in tutta l'America latina. Da noi è dilagata anche nella cucina con i vari dolci dei morti, ossi di morto e altre prelibatezze e quando io ero bimbo, avrò avuto 5 o 6 anni, ricordo benissimo che mio zio, che portava il mio nome, mi regalava, oltre alla cassetta di cachi anche una zucca da intagliare coi denti aguzzi a cui mettere dentro la candela da esporre sulla finestra e stiamo parlando di 70anni fa, in barba alle zucche vuote odierne che con la bocca a cul di gallina proclamano a gran voce che io sono cristiano e non festeggio un bel niente. E suvvia, fate girare l'economia senza rompere le balle che ne abbiamo bisogno, dell'economia che giri intendo! 

Riconosciamo però che l'uomo è così, ha paura della morte e vuole esorcizzarla, il modo varia ma il senso è sempre lo stesso in tutte le culture. Vai un po' in giro per il mondo e lo capisci bene. Dipenderà dal fatto che siamo forse l'unica specie che si prende cura dei suoi morti e che ha compreso cosa sia la morte in se stessa, l'abbandono della vita. Infatti la cosa che più concreta che ci è rimasta del passato è proprio l'epitomia della morte. Immense necropoli ci sono rimaste, tombe monumentali, scavi ipogei meravigliosamente affrescati, piramidi e mausolei, proprio nell'ansia di non farci dimenticare, di far sì che dopo, qualcuno si ricordi ancora di noi ed il più a lungo possibile. I Toraja, una popolazione del centro di Sulawesi di cui vi ho già parlato, vivono tutta la vita nell'ansia di prepararsi un funerale fastoso che dimostri a tutti che nella vita sei stato un grande, per quanti bufali e belli, per quanti maiali e grassi, tu potrai permetterti di sacrificare, invitando anche migliaia di persone a questa festa, che di festa si tratta, di cui si dovrà parlare per anni. Magari si aspetta un anno a farlo, fino a quando non si è pronti, col cadavere semimummificato in una stanza del retro, che si definisce ancora malato grave, anzi gravissimo che non può guarire più, ma morto no, c'è infatti una parola apposta per definirlo, fino a quando non si è fatta la festa. Poi davanti alle caverne dove verrà messa a marcire la bara colorata, si metterà una statua delle fattezze del defunto, da andare a trovare, cambiandogli i vestiti man mano che diventano consunti per le intemperie. Perché coi morti bisogna stare allegri. 

Anche in Moldova, si va a fare il pastele, il pranzo coi morti su un tavolino appositamente preparato accanto alla tomba, così come in Giappone o in certe zone della Cina e nella vicina Romania a Sapinta c'è un cimitero dove sopra ogni tomba, la croce ha una targa dove il morto è preso in giro e raccontato in tutti i suoi difetti. In Madagascar,  la bara viene portata in un anfratto segreto tra i monti, facendo una strada contorta e tutta curve, tornando avanti e indietro più volte perché così il morto perda la strada per tornare a casa a disturbare tutti e solo quando è morto davvero, dopo 7 anni, si va a prendere la bara per metterla, con una festa, in un cimitero di famiglia. Nel Chapas in Messico, le tombe nella terra sono verticali e le bare vengono messe tutte una sopra l'altra, un po' perché tengano meno posto e poi perché rimangano tra loro, si tengano compagnia e si va a festeggiarli appunto in questo giorno. Gli hinduisti invece bruciano le salme con legni odorosi se hanno i soldi, se no, nei crematori comuni, poi i resti vengono abbandonati alle acque dei fiumi sacri che li portino lontano, pasto per i pesci. Tibetani e parsi lasciano i corpi agli elementi naturali affinché gli uccelli o gli animali selvatici cibandosene, rimettano in circolo la natura, i primi dopo aver smembrato i cadaveri, i secondi esponendoli agli avvoltoi nelle alte torri del silenzio. I mussulmani mettono i corpi nella terra nuda perché più velocemente la terra stessa si  riprenda ciò che è suo. Ma sia in India che in Egitto ci sono immensi cimiteri dove i vivi coabitano con i morti, vivendo tranquillamente nelle tombe, tenendosi compagnia. Gli uomini del mare li lasciano alle onde, quelli della montagna li mettono in piccoli cimiteri, presto coperti di neve a guardare quelle vette che sono state la loro vita. Ai simulacri, chi porta fiori, chi offerte, chi lascia messaggi d'amore, chi prega i suoi dei, chi si culla nei ricordi. Siamo esseri strani che sono certi di essere nel giusto, mentre tutti gli altri che non la pensano come noi sono solo nemici da sterminare.


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lunedì 3 febbraio 2014

Cultura e informazione

Come sempre non mi sento pronto. Più passano gli anni e sempre meno, prima di partire, ho voglia di mettermi lì e raccogliere tutte le informazioni necessarie, per essere sicuro di non perdermi niente, di fare la lista della spesa da spuntare puntigliosamente, dell'essere "preparato". Tutto nella convinzione che conoscere e sapere prima, ti aiuti a godere meglio delle cose, a capirle di più. Un approccio molto occidentale di chi vuole la massima informazione. Oggi ancora maggiormente compulsi nervosamente il web, dove c'è tutto, di più, troppo. Che confusione! E' certo più comodo lasciarsi andare all'onda dell'avvenimento, impreparati ma pronti a cogliere i fiori nel giardino. I confuciani distinguevano la conoscenza o cultura che dir si voglia in xue - sapere scolastico, xing - condotta o approccio alle cose e shi qien- discernimento o vista interiore, che noi chiameremmo forse istinto non legato al ragionamento. A questi tre aspetti davano una importanza opposta a quello che in generale facciamo noi, che preferiamo far prevalere i fatti. Mi direte che questo modo di pensare poi porta ad accettare anche omeopatia o Stamina. Vero fino ad un certo punto. L'accondiscendenza alle sirene del tutto facile è più propria dell'incultura che della saggezza misurata. D'altra parte questa scala di valori era sostenuta proprio da Confucio che teoricamente era invece tutto regole e impegno, merito misurato con voti ed esami ferrei a dispetto anche della verità purché non fosse turbato l'impianto generale . Ricordiamoci, nel giudicare, che questo punto di vista permea prepotentemente anche la Cina moderna quando parla di stroncare chirurgicamente ogni forma di protesta (anche se giusta) che possa turbare l'armonia dell'impianto generale dello stato. 

Un uomo colto, quindi per i cinesi, ha giusti odi e giuste simpatie, dunque un suo specifico gusto, cosa che si accompagna all'incanto. Naturalmente il cane si morde la coda perché avere gusto e discernimento, richiederebbe capacità di pensare, indipendenza di giudizio, voglia di non essere tratti in inganno da ogni forma di mistificazione populistica sociale, politica o artistica che sia. Un equilibrio fragile insomma. Da un lato la necessità di standardizzare, che regala più efficienza di certo. Ecco dunque la sequenza delle certificazioni, ma che richiedono graduatorie e quindi punteggi ed allora via con esami, interrogazioni, prove. Tutti punti in cui sono più efficienti le domande a risposta chiusa che richiedono nozioni e precisione anziché sviluppo di gusto e di giudizio. Così più facile e utile per un insegnante chiedere date e nomi piuttosto che giudizi e vaghe opinioni, più facile certo per dare voti, per stilare classifiche addirittura in automatico con griglie vero/falso. Ma lo stesso Confucio affermava che la cultura che consiste nel memorizzare nozioni non crea nessun buon insegnante. Ecco quale dovrebbe essere il punto fondante del nostro Liceo Classico, insuperabile esempio di splendida utilissima inutilità. La più vicina delle nostre istituzioni alla cultura orientale e quindi consequenzialmente da distruggere un poco alla volta. Vuol dire che non mi farò più cruccio di partire in questo caso, come ogni volta un po' di più, quasi privo di informazioni, lasciandomi andare al fiume del viaggio, lasciandomi cullare dai profumi, dai suoni e dai sapori, facendomi scorrere tra le mani la ruvidezza di stoffe calde e superfici fredde, rimanendo confuso per il cangiare dei colori. Va bene. Allora mi considererò comunque pronto al viaggio. In ogni caso adesso vado, lasciatemi dare un'occhiata alla Lonely Planet che devo appuntarmi un po' di info sui vari mercati tra Saigon ed Hanoi. 


Refoli spiranti da : Lin Yu Tang - L'importanza di vivere -1936


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lunedì 16 settembre 2013

Cocteau à Menton.

Cocteau à Menton
Quest’anno cade il cinquantenario della morte di Jean Cocteau e se vi capita di passare da Mentone, vale la pena di dare un’occhiata al museo a lui dedicato dalla città che lo scrittore, pittore e cineasta ha tanto amato, lasciando traccia notevole del suo passaggio. Oltre alle molte opere lasciate dall’artista nel bastione sul porto, tra le quali la famosa serie degli Innamorati, il nuovo museo, opera di Ricciotti, ospita da qualche anno una delle più complete collezioni tematiche su Cocteau regalate alla città dal collezionista Wunderman. Si tratta di oltre 1800 pezzi, esposti a rotazione, tra quadri, disegni, sculture, manifesti, la maggior parte dello stesso Cocteau, ma molte altre di artisti a lui vicini, da Picasso, a Modigliani, a Bérnard, con una serie di splendidi disegni dedicati a Sarah Bernhardt, musa del poeta. E’ possibile inoltre visionare i suoi film famosi da Les infants terribiles, a Le testament d’Orphée. Una vasta testimonianza fotografica dei momenti più importanti della vita artistica di Cocteau completa la collezione, che a mio parere vale la pena di guardare con calma. Poi, appena usciti, uno può sempre andare a fare il bagno sulla spiaggetta di fronte.




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mercoledì 24 novembre 2010

Con la cultura non si mangia.

Si fa presto a parlare di cultura. C'è chi dice che la cultura non si mangia, altri estremizzano sottolineando che "con" la cultura non si mangia, dimenticando, magari chi ci vive. Sarà pur vero che senza soldi non si fa cultura, ma alla fine io credo che in qualche modo a questo pane è difficile rinunciare e si tentano strade parallele. Ero al primo anno di università e grazie ad un inatteso risultato alla matura, avevo avuto un posto gratuito al Collegio Universitario di Torino. Uscito quindi per la prima volta dal guscio di una cittadina di provincia, dove al massimo avevo visto la Corazzata Potionkin al circolo del cinema del sabato mattina (con conseguente dibattito, naturalmente), mi ritrovavo di fronte ad un'offerta vasta e stimolante di musei, arte e spettacoli a cui non ero abituato.

Mi attirava soprattutto il teatro, ambiente e fenomeno a me ancora completamente sconosciuto. Che però costava un sacco, cosa che pareva tagliar la testa al toro. Fui così coinvolto da un compagno di collegio, un napoletano scafato alle difficoltà della vita, che mi aprì le porte del gruppo della clack del teatro Alfieri. Si andava una mezz'oretta prima dell'inizio dello spettacolo e in uno stanzino, un anziano, almeno così mi sembrava, capoclack ci dettava le malizie del mestiere. La mano a conchiglia per dare un colpo secco e il più possibile ritmato e rumoroso, ben distinguibile dalla massa che si sarebbe subito posta al seguito, scatenando un applauso fragoroso.

I momenti topici per il battimani, dalle entrate in scena della prima donna, ai punti chiave dove l'attore, al termine di un pezzo importante, disponeva una acconcia pausa in attesa dell'applauso; la ripresa quando, alla passerella finale, l'approvazione del pubblico, che si stava alzando per andarsene a casa, sembrava scemare prima delle varie uscite previste della compagnia. L'ordine era di non sprecare le forze quando la folla faceva il suo dovere, guidare invece il gradimento quando l'intensità dello stesso era sul punto di spegnersi, sempre con apparenza casuale, non preparata. Il capo avrebbe dato l'avvio con un paio di colpi ben scanditi e noi dietro, si era in cinque o sei, a rendere corposo l' avvio, poi le cose marciavano da sole. Lui stesso pensava a dispensare qualche "bravo" qua e là al momento opportuno.

Così mi feci tutta la stagione, affascinato da quel contatto con la parola viva, così lontana dalla patinatura della celluloide, così reale e vicina, così coinvolgente come mai avrei pensato. Mi godetti Gassman, Poli giovanissimo, Foa e tanti altri. Fui stravolto da Beckett e Ionesco, ammirato da Molière, stordito da Shakespeare e come mi parve affascinante la leggerezza di Goldoni che nelle letture a scuola pareva così insipido. Un orgia di sensazioni mai provate insomma. L'unico problema era quello di cercare di sfilarsi, mettendosi in fondo alla coda degli applausi finali, sfuggendo alle occhiate del cerbero che ci controllava. Il Collegio chiudeva a mezzanotte e venti e anche correndo, se arrivavi dopo, ti toccava andare a dormire alla stazione.


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mercoledì 10 novembre 2010

Hotel Rossija.

E' certo vero che la bellezza è salvifica, ma credo che sia altrettanto provato che l'homo inscipiens sia portato naturalmente al brutto. Se tutto questo può avere un suo senso nei casi emergenziali, bisogna dire che la maggior parte degli scempi viene perpetrata anche e soprattutto quando la lussuria della bramosia economica si accoppia al desiderio di cambiamento e alle necessità contingenti. Alcune delle cose più brutte vengono fatte proprio in questi frangenti. Mosca non fa eccezione di certo a questo assioma, senza parlare delle periferie, che quelle sono orribili in tutto il mondo. Il centro zarista di un tempo aveva di certo una sua unità mirabile di palazzi e monumenti che, nella lucida visione urbanistica ottocentesca, conducevano attraverso un crescendo di solida bellezza alla gemma centrale del Cremlino, facendo di questa capitale una mirabile commistione di grandeur europea pervasa dalla mollezza concessa dai grandi spazi asiatici e dalle suggestioni dei suoi imperi secolari, perfetta mescolanza di raffinatezze bizantine e ferocia mongola.

Proprio ai piedi del Cremlino sorgeva lo Zaryadye, uno dei quartieri probabilmente più belli d'Europa, un insieme apparentemente disordinato di chiese ortodosse dalle cupole orientali colorate e di palazzetti che costituivano un unicum straordinario. Nel suo delirio di potere, al culmine del risultato economico della NEP e del successivo slancio industriale, Stalin decise di raderlo al suolo nel 1935, per costruirvi uno dei grandi grattacieli di stile assiro-americano che tanto lo avevano colpito di New York. La distruzione fu completata appena prima dello scoppio della guerra, come si vede in una cartolina dell'epoca. Quindi, quando si potè mettere mano al progetto erano ormai arrivati gli anni 60. Cominciò allora la costruzione dell'Hotel Rossija, forse la più grande offesa dell'umanità al buon gusto ed alla cultura. Mi ci portava l'amico Ferox, data la comodità della posizione. Arrivavo sempre la sera tardi dall'aeroporto ed il gigantesco cubo nero che emergeva dalla notte ti dava subito un senso di tenebrosa inquietudine. Nell'ingresso squinternato e semideserto si aggiravano losche figure dagli incarichi incerti e sempre in cerca di attività border line nella migliore delle ipotesi.


Al bancone, infastidite incaricate ricoperte di belletti cospicui, controllavano di malavoglia i documenti e la prenotazione ottenuta tramite amici degli amici, che diversamente avere una camera in maniera normale, con una telefonata ad esempio, era impresa impossibile. Con il tuo passi in mano, osservato altezzosamente dal finto facchino che evidentemente svolgeva altre poco pulite attività, ti caricavi il valigione alla ricerca, prima degli ascensori per vedere se almeno uno funzionasse e poi ti incamminavi lungo gli infiniti corridoi resi bui dalle lampadine rotte o rubate, dove si allineavano senza fine le quasi 4000 camere dell'albergo più grande del mondo. Anche la dejurnaija del piano, quasi sempre appisolata su un divano letto sgangherato, non faceva da ultima barriera come suo compito, così ti trovavi da solo la chiave abbandonata su una rastrelliera arrugginita e ti ritrovavi finalmente nella tua camera malandata e squallida. Staccavi subito la cornetta per impedire ai drappelli di signorine, che invece in folti drappelli svolgevano una alacre attività, di telefonarti ogni dieci minuti per tutta la notte, al fine di offrirti un relaxing massage, evidentemente uno dei servizi più richiesti nell'albergo e ti buttavi distrutto dal viaggio nel letto sgualcito in attesa di fuggire la mattina, dopo aver tentato di fare una specie di colazione, in uno stanzino triste, dominato da un gigantesco samovar di acciaio con un thé annacquato e qualche fetta di pane rinsecchita con cetrioli e composta.


Negli anni, mentre il degrado aumentava in parallelo al malaffare, le mafie probabilmente si impadronirono dell'intero controllo dell'edificio. Per evitare il completo cedimento della funzionalità, alcune parti, come pezzi di corridoi, furono cedute a società private che ne fecero dei sub-alberghi, rinfrescandone alla meglio le camere prese in gestione. Così dopo essere penetrato nel mostro ti infilavi in una sottosezione chiamata Hotel Gioconda, gestito da "Italiani" con annesso ristorante detto dei Salernitani, che proponeva "pesce appena arrivato dall'Italia", dove robuste guardie del corpo presidiavano gli ingressi rinforzati, selezionando i clienti attraverso le porte trapuntate. I business più ambigui fiorivano da quelle parti, suscitando credo, robusti appetiti.


Il direttore del Rossija fu infatti presto assassinato tra l'indifferenza generale, come molti responsabili di funzioni in odore di "sviluppo commerciale" in quel periodo. Però su tutto dominava il mostro assoluto di quella costruzione che da un lato ottundeva la vista delle mura rosse del Cremlino, dall'altra sgorbiava irrimediabilmente il lungo fiume, tristissimo e orrendo al tempo stesso. Solo un bombardamente avrebbe potuto risolvere la situazione. Bene, inopinatamente nel 2006 un'orda ruspe salvifiche circondarono il cadavere putrescente e lo demolirono completamente. Oggi l'area, mi dice l'amico Ferox, è circondata da una completa recinzione, in attesa, si dice, della ricostruzione di un'Hotel a 7 stelle per rappresentare meglio l'orgoglio Putiniano e della Nuova Russia. Nessuno conosce davvero il progetto. Forse il nuovo mostro che sta per nascere sulle macerie delle delicate chiesette ortodosse, subirà altre modifiche. Gli appetiti dei vampiri non demordono, anzi si fanno più brutali e famelici, d'altra parte si sa, con la cultura non si mangia, provate a mettere la Divina Commedia in un panino.



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mercoledì 25 febbraio 2009

Lǎo shī


La parola di oggi, "Lǎo shī ", si presta come di consueto a molte considerazioni su quello che era la cultura cinese. Il carattere di destra significa semplicemente insegnante e comprende, a sinistra il simbolo semplificato della lama, quasi a voler sottolineare quanto deve spingersi all'interno degli allievi zucconi per potervi infilarve il frutto dei suoi insegnamenti, mentre il carattere di destra significa "anziano" ed era in origine costituto da tre segni antichi, oggi difficilmente identificabili nella semplificazione del tratto, "capelli", "persona","cambiamento", cioè la persona a cui cambia il colore dei capelli col tempo, ma con una accezione assolutamente positiva, infatti il significato reale è diventato "saggio, colui che grazie all'esperienza conosce le cose", in netta contrapposizione con "Shao", giovane e quindi inesperto. Anche nel nostro mondo fino ad un paio di generazioni fa solo chi aveva accumulato una forte e lunga dose di esperienza poteva dirsi istruito o sapiente; il progredire del sapere era così lento che il potere culturale era decisamente in mano agli anziani; i vecchi contadini che avevano visto per decenni il fluire delle stagioni, da noi come in oriente, erano i soli in grado di prevedere fatti che si ripetevano in conseguenza di altri fatti. Adesso basta guardare il meteo del colonnello Giuliacci. Oggi il progresso scientifico e la tecnologia sono stati così rapidi che la maggior parte dei giovani venticinquenni hanno più conoscenze della maggioranza degli anziani, che oltre al decadimento fisico hanno perduto anche il potere psicologico della saggezza e sono costretti a passare il tempo a dare i giudizi rancorosi e criticare i lavori stradali appoggiati alle transenne dei cantieri (mantenendo ovviamente il potere economico-politico e da quello sarà dura schiodali). Da questi ideogrammi si capisce dunque il grande rispetto di cui godevano in Cina gli anziani visti come i depositari del sapere che deriva dall'esperienza. Unito al suono Hua , parola, abbiamo "proverbio" , la parola saggia che viene dall'anziano. Sintomatico il carattere Kao, derivato appunto da Lao, che significa esame, come a dire che solo un anziano possiede la necessaria esperienza per esaminare un giovane. Dunque lǎo shī , insegnante anziano, vuol dire Maestro nell'accezione più completa del termine; non solo colui che sa e mostra la tecnica, ma chi sa dare anche il completo insegnamento morale e spirituale. Il concetto che accompagna veramente il concetto di Maestro in tutte le arti marziali.

sabato 10 gennaio 2009

I punti cardinali sono molto importanti nella lingua cinese. Bei-nord, Dong-est, Nan-sud, Xi-ovest, ricorrono continuamente nei toponimi, come Beijing (la capitale del Nord), Xi an (la pace dell'Ovest) Nan jing (la capitale del Sud), Shan dong ( a Est della montagna), He bei (a Nord del fiume). Nelle parole comuni sono poi frequentissimi, come in Xi gua (anguria- la cucubita dell'Ovest) , Dong fang (il nostro vento dell'Est, appunto).
La grafia dell' ideogramma Xī (Ovest) è particolarmente interessante e come al solito dà un'idea dell' inclinazione poetica della cultura cinese. Sembra infatti che il carattere raffiguri un nido con gli uccellini affamati, rivolti verso il sole che tramonta, che, pigolando, sono ansiosi di scorgere, nell' ultimo raggio di luce aranciata, una sagoma amica, l'arrivo della madre che porta loro il cibo. E' una cultura antica, ricca di questi spunti pittorici, che da oltre duemila anni, aveva compreso, secondo i precetti della medicina taoista, che non fa bene costringere i pantaloni alla vita con lacci troppo stretti, perchè in questo modo il Chi, la forza vitale che equilibra la salute del corpo, non viene lasciata libera di scorrere e fluire in modo naturale. Oggi tutti i cinesi che possono, si strizzano con le cinture di Pierre Cardin e quelli che non possono, bramano di farlo al più presto. Insisto, li stiamo fregando alla grande.

domenica 16 novembre 2008

Competizione e competitività

Il competere è la grande maledizione dell'umanità. Da un lato non si può negare che sia stata la molla dell'evoluzione che ha fatto trionfare la specie e abbia fatto avanzare la civiltà. In ogni caso giustifica la sopraffazione di una cultura sulle altre, che poi a poco a poco, scompaiono o vengono assimilate. Il competere per arrivare primi o anche solo per essere più efficienti, è glorificato dal nostro modello di sviluppo. Bisogna correre, lavorare di più degli altri e meglio, per batterli, per sopraffarli. Questa necessità spinge inevitabilmente ad oltrepassare i nostri limiti e se non si riesce bisogna comunque farlo anche a costo di ricorrere all'illecito, nello sport come nel lavoro, perchè comunque battere gli altri è più importante della serenità del fare bene le cose. Tutto questo genera sviluppo e miglioramento della specie nel suo complesso, ma è fonte di infinita infelicità per il singolo. Genera solo e comunque insoddisfazione, risentimento, accidia e male di vivere. Vincente è bello, perdente è un insulto, un marchio di infamia. Ma tutti sono perdenti e infelici, uno solo vince e solo per un giorno nella maggior parte dei casi, poi anch'egli precipita nella massa e da effimero winner diventa loser, la banale normalità. E anche in quell'unico istante di supremazia, non c'è gioia, serenità, c'è solo il piacere infame della sopraffazione degli inferiori. Forse l'evoluzione ha connaturato questo elemento tragico nella nostra specie. Diceva Gengis Khan: - Non c'è nulla di più esaltante per un uomo, che vedere il nemico inginocchiato ai propri piedi, ucciderne i figli, violentare le sue mogli, rubare i suoi cavalli.- In tutto ciò è racchiuso il successo della nostra specie. Le culture che facevano della felicità dell'uomo il fine ultimo, sono state spazzate via e il diritto alla felicità esiste solo sulla carta della Costituzione Americana (vane ed inutili parole) e negli intenti del Re del Buthan, mentre l'Oriente, terra antica di compassione e di meditazione ha sposato l'idea occidentale vittoriosa del vincente, superandoci di slancio nella corsa appunto ad arrivare primi. Miliardi di nuovi infelici chini sui deschetti da lavoro senza fine, la cui efficienza è invidiata e posta ad esempio dai nostri pifferai. Droghe e stimolanti, presto distribuiti gratuitamente, ci aiuteranno ad aumentare la nostra efficienza, a dare un rendimento più alto, a lavorare più intensamente e più a lungo.
Ciò detto, vi lascio ad una serena domenica (spero per voi di lavoro). Io devo allenarmi per un gioco di destrezza sul web dove sono ad un passo dal primo posto e non ho quindi altro tempo da perdere.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!