domenica 16 novembre 2008

Competizione e competitività

Il competere è la grande maledizione dell'umanità. Da un lato non si può negare che sia stata la molla dell'evoluzione che ha fatto trionfare la specie e abbia fatto avanzare la civiltà. In ogni caso giustifica la sopraffazione di una cultura sulle altre, che poi a poco a poco, scompaiono o vengono assimilate. Il competere per arrivare primi o anche solo per essere più efficienti, è glorificato dal nostro modello di sviluppo. Bisogna correre, lavorare di più degli altri e meglio, per batterli, per sopraffarli. Questa necessità spinge inevitabilmente ad oltrepassare i nostri limiti e se non si riesce bisogna comunque farlo anche a costo di ricorrere all'illecito, nello sport come nel lavoro, perchè comunque battere gli altri è più importante della serenità del fare bene le cose. Tutto questo genera sviluppo e miglioramento della specie nel suo complesso, ma è fonte di infinita infelicità per il singolo. Genera solo e comunque insoddisfazione, risentimento, accidia e male di vivere. Vincente è bello, perdente è un insulto, un marchio di infamia. Ma tutti sono perdenti e infelici, uno solo vince e solo per un giorno nella maggior parte dei casi, poi anch'egli precipita nella massa e da effimero winner diventa loser, la banale normalità. E anche in quell'unico istante di supremazia, non c'è gioia, serenità, c'è solo il piacere infame della sopraffazione degli inferiori. Forse l'evoluzione ha connaturato questo elemento tragico nella nostra specie. Diceva Gengis Khan: - Non c'è nulla di più esaltante per un uomo, che vedere il nemico inginocchiato ai propri piedi, ucciderne i figli, violentare le sue mogli, rubare i suoi cavalli.- In tutto ciò è racchiuso il successo della nostra specie. Le culture che facevano della felicità dell'uomo il fine ultimo, sono state spazzate via e il diritto alla felicità esiste solo sulla carta della Costituzione Americana (vane ed inutili parole) e negli intenti del Re del Buthan, mentre l'Oriente, terra antica di compassione e di meditazione ha sposato l'idea occidentale vittoriosa del vincente, superandoci di slancio nella corsa appunto ad arrivare primi. Miliardi di nuovi infelici chini sui deschetti da lavoro senza fine, la cui efficienza è invidiata e posta ad esempio dai nostri pifferai. Droghe e stimolanti, presto distribuiti gratuitamente, ci aiuteranno ad aumentare la nostra efficienza, a dare un rendimento più alto, a lavorare più intensamente e più a lungo.
Ciò detto, vi lascio ad una serena domenica (spero per voi di lavoro). Io devo allenarmi per un gioco di destrezza sul web dove sono ad un passo dal primo posto e non ho quindi altro tempo da perdere.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Stasera (sono quasi le h. 21.00) sono ancora in ufficio, ho 60 anni ed in questo momento sono lontano da casa (disponi a Tua scelta l'ordine delle circostanze), mi viene spontaneo domandarmi " ....e se Enrico avesse ragione ?.... perchè tutto questo ? "
Ecco Tu sai bene come sia difficile spiegarsi in contesti sottili che dovrebbero giustificare il proprio modo di vivere, ma mi verrebbe da dire che la competizione che conta è quella non con gli altri ma con te stesso . Superare il proprio limite, mettersi ogni volta in gioco, dimostrare che niente e nessuno è più forte di Te . E ciò non per sopraffare gli altri, per guadagnare di più , per scalare chissà quale gerarchia . Il motivo unico è quello di provare una volta ancora che sei vivo, vitale e che riesci ad andare oltre le Tue debolezze, le Tue insicurezze e , qualche volta, anche oltre le Tue paure. Insomma una perpetua provocazione a quella piccola entità fisica che ogni mattina vedi riflessa nello specchio e , almeno per quanto mi riguarda, delude assai . Poi magari ognuno di noi, come Tu stesso fai nel Tuo blog, rimpiange un tempo diverso da quello in cui vive . Ma non è colpa mia se , almeno per adesso, l'unico campo di battaglia rimasto ( salvo le scellerate stragi di ogni colore) è quello del businness. Solo lì in questi anni si compiono le grandi battaglie, si celebrano grandi vittorie e grandi sconfitte , si pongono in campo schiere di fedelissimi, si consumano tradimenti , si compiono atti di coraggio o di viltà. E' lo stesso spirito in definitiva che Ti spinge a salire in cima ad una montagna o su una barca a vela , senza girarti più indietro , solo con te stesso, in un contesto anzi spesso di totale solitudine . Gli altri non c'entrano nulla , anzi, per essere cinici,...chi se ne frega ! Ecco, se dovessi a questa tarda del giorno dire perchè ancora sono qui al lavoro , è perchè non voglio competere con nessuno , ma ancora desidero concedermi il lusso di avere un destino vedendomela con la mia inquietudine e , qualche volta, la mia viltà . E questa è l'essenza della giovinezza che prescinde dalla età biologica, è questa l'ebbrezza della sfida . Ti pare poco ?
Ciao Enrico -san, si dice così ?

Leo

Enrico Bo ha detto...

Caro Leo, ho capito, ma perchè bisogna dimostrare a sè stessi di essere giovani? Non dovrebbe essere sufficiente godere della vista di una montagna, leggere una poesia, guardare il sorriso della propria compagna senza cercare sfide per essere felici? Vivere con gioia la propria età? Forse questo malefico tarlo è incistato nel DNA della nostra specie; forse solo un nuovo umano OGM potrebbe potrebbe depurarsene. In questa società di sopraffattori, almeno tu sei pervaso dallo spirito del Kendoka, il cui unico vero avversario da battere deve essere la parte oscura di sè stessi.

Anonimo ha detto...

Questa immagine di una persona in ufficio a 60 anni alle 21.00 della sera il cui unico campo di battaglia rimasto è quello del businness mi da da pensare che la vecchiaia per alcuni è veramente brutta.

Anonimo ha detto...

Trovo anch'io abbastanza triste che a 60 anni il lavoro resti la parte fondamentale dell'esistenza; triste perchè la prospettiva dovrebbe modificarsi con l'età, triste perchè sono i giovani che dovrebbero entrare nel processo decisionale e i più anziani essere utilizzati per la loro esperienza e fornire appoggio e consiglio, non prevaricazione, triste perchè abbiamo la classe dirigente più vecchia del mondo (non solo in politica, ma in tutti i posti chiave, non ultima l'università), triste perchè assorbiti da sè stessi si perdono le tante cose belle della vita, prima di tutto gli altri. Perchè una visione così egocentrica della vita difficilmente costruisce dei legami affettivi importanti.
Devo dire che questo attaccamento, alquanto comune, a comportamenti "da giovane", mi fa venire in mente una domanda: davvero quando Dylan ci promise "forever young" ci credemmo a tal punto che a 60 anni pensiamo di essere ancora giovani? O si cerca solo di esorcizzare la morte?

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