lunedì 2 novembre 2009

Torrone bianco.

Piove quasi sempre il due di novembre e il cielo è grigio piombo. Una vena di malinconia nell'aria. E' una malattia che si incista con gli anni? Probabilmente sì. Forse c'è meno disincanto nella testa, forse una visione più concreta delle cose. Quasi sessanta anni fa, avrò avuto quattro o cinque anni, in questo giorno si ripeteva una tradizione annuale che ancora ricordo con sporadici flash. Era mattino presto e la mia mamma mi portava, tenendomi stretta la mano alla stazione a prendere il treno per Valenza. Il viaggio (il primo di tanti che avrebbero percorso la mia vita) durava solo una ventina di minuti, ma a me bimbo, che guardavo la campagna grigia che correva fuori dal finestrino, sembrava così lungo. Uscivamo dalla stazioncina ed a piedi percorrevamo una carrareccia sempre fangosa per arrivare alla cascinotta della nonna, vicina alla ferrovia. Poi, tutti e tre, salivamo lungo la collina di fronte per andare verso il cimitero. Come mi pareva lunga e faticosa quella strada. Sicuramente mi lamentavo, già figlio capriccioso di tempi diversi da quell'ambiente contadino e lontano nel tempo e nello spazio. Attraversavamo un quartiere della città, arrivando finalmente a quella grigia costruzione tra i prati, di cui avvistavo le guglie lontane col piacere di chi vede la fatica arrivare al suo termine. Sostavamo un po' davanti alle due tombe, dove la mamma aggiustava con cura i fiori portati da casa, disponendoli con cura in una lattina dell'olio cilindrica e avvolta con carta dorata per non farla riconoscere. Io forse non comprendevo neanche bene il significato di tutto quello, ma ho davanti a me solo la piccola figura nera della nonna di cui non ricordo il viso e neanche la voce, ma forse parlava così poco, ingobbita e vinta dal dolore della mancanza del suo uomo, ad aiutarla a sopportare la perdita del figlio poco più che ventenne, appena dopo l'illusorio ritorno a casa, ucciso dalle offese del lager tedesco. Poi uscivamo e finalmente arrivava il momento tanto atteso. La nonna mi prendeva con sé ed andavamo fino ad un grande banchetto, che mi pareva tutto illuminato a festa con cascate di dolciumi e di ogni altro ben di dio che fosse desiderabile. Un posto del Bengodi dove mi veniva consegnata una sbarretta di torrone che subito con affanno, mi affrettavo a scartare del cellophan esterno e cominciavo a sbocconcellare lungo la strada del ritorno che mi pareva più corta, mentre ero intento nell'operazione. Che buono quel pezzo di torrone che si rompeva con uno schiocco netto mentre ne forzavo l'angolo duro e dolcissimo, mentre la mamma mi diceva: "Attento che ti rompi un dente!". Bianco e saporito, rigorosamente alla mandorla, guai a comprare quello con le "giapponesi". Chissà perchè a casa mia c'era questa avversione per le arachidi, forse simbolo di scarsa qualità prebellica. Quando arrivavamo alla piccola e malandata cascina, la tavoletta era quasi finita, il piacere sopito, il desiderio appagato. Prima di andare a riprendere il treno, attraversando un'aia piena dei segni della presenza di qualche gallina, che evitavo con attenzione, si stava un po' in quella grande stanza con un grande camino annerito dal fumo di cui non riesco a ricordare altri particolari. Poi ce ne andavamo verso la stazione, mentre la nonna rimaneva sola davanti al cancello, a guardarci andar via. Anni dopo ho ricercato quella vecchia casa dove la nonna avrebbe ancora trascorso un paio di anni di solitudine e avevo ritrovato solo qualche pezzo di muro ancora in piedi, in rovina come di un rudere millenario. Sono tornato per rivederlo un paio di anni fa, ma non sono stato capace di riconoscere nemmeno il luogo fisico preciso, sepolto sotto le belle villette degli orafi valenzani che coprono la collina rivestita di bei prati all'inglese. Mi è rimasto solo rumore secco della barretta che si spezza contro i denti, il sapore dolce di quel torrone bianco ed alla fine, il leggero sentore amaro, che ti rimaneva in bocca, dopo aver masticato la mandorla.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

I ricordi sono belli ma vista l'impermanenza (non dice così il Buddismo?) cerchiamo di non esserne troppo invischiati. Certo che alcuni di questi ricordi ci coccolano ancora oggi, in questo contesto sempre più difficle da sopportare. Ciao Federico

AdriRips aka Ginevra ha detto...

Grazie per i sentimenti che condividi con questo post, riscalda il cuore!

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Condivido le impressioni che ti dà questo giorno. Mi pare di ricordare che quando ero bambino in questo periodo facesse più freddo, perché indossavo sempre il primo paltorello della stagione.

Anonimo ha detto...

bellissimo il torrone bianco !!!!!!
sei un poeta !
Sono contentissimo che tu abbia avuto l'idea di trasmettere a costo zero tutte queste tue opere a tanti lettori affezionati.
Ne approfitto per correggere due miei errori dell'altro giorno.
L'Armenia non è il popolo, bensì "la terra delle pietre urlanti", per le numerosissime lapidi istoriate e per i crocifissi in pietra sparsi dovunque, senza il corpo di Gesù, ma con una forma quasi di tronco d'albero con ramificazioni adornate e istoriate anch'esse.
L'altro errore è che il monte che vedevo alla tivù sembrava tutto l'Elbrus, ma era il "monte sacro", proprio davanti alla capitale armena, ovverossia l'Ararat, non molto distante dall'Elbrus, ma meno alto e con due cime.
Noè con la sua arca vi sbarcò.
Sai che arca significa cassa? Come quella dell'alleanza.
E che l'arca di Noè era fatta di legno di cipresso.
E' scritto nel libro della Genesi.
Cipresso cipresso .... oggi mi fanno pensare a qualcosa
quelli in duplice filar
Oggi, alla mensa dell'ospedale di Ovada, c'era come primo piatto - oltre al riso in bianco e alle penne al pomodoro - una crema di verdure con i ceci: una delle cuoche mi ha ricordato che è il piatto della tradizione del giorno dei Defunti.
Non è commovente?
In una quasi anonima mensa di un "Presidio Ospedaliero" della nostra provincia, qualche cuoco ai limiti della pensione ha deciso di andare a comprare i ceci e li ha fatti cucinare alla maniera dei suoi antenati, Defunti ma ancora in grado di far ricordare all'ultimo dei Mohicani secoli di pentole affumicate che cuocevano ceci sopra fiamme di camini anneriti come quello della casa dei tuoi avi valenzani.
Beh, adesso vado a tavola: armeno ce ceno. (formaggio e pomodori)
g m

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