Un piatto di plov a Taskent |
Sarà la neve, anche stanotte ne è venuta una spruzzata e stamattina la temperatura era sotto i -10°C, saranno le immagini che venivano da Alma Ata, io la chiamo ancora così come quando era la capitale kazaka e l'URSS era ancora un ricordo vicino e ben presente nello stile e nei fatti, ma non riesco a distogliere la mente da quando frequentavo quei sentieri lontani dell'Asia centrale, quasi fossi un pastore errante alla ricerca non di nuovi cieli, non di immensi spazi, di deserti e steppe, di creste lontane imbiancate e di aria fina, ma banalmente di omini grigi con l'occhio sveglio che vedevano nel nuovo che avanzava, opportunità di fare ed io con la mia valigetta nera piena di bozze di contratti e di depliant, saltabeccavo da qui al Turkmenistan o all'Uzbekistan, accompagnato di volta in volta da Stefi, dal caro Eugenio o dall'amico Gianni. Quanti ne abbiamo incontrati nella polvere delle estati roventi o nel gelo dell'inverno impietoso! Ognuno pronto a farci vivere anche il senso di quei luoghi lontani e la loro diversità. Gulija che al ristorante di Taskient, ordinava per noi con voce addolcita dai suoi denti d'oro "выбор ваших лучших салатов", una scelta delle vostre migliori insalate, e arrivavano una serie di piatti golosi che cercavo disperatamente di non mangiare per prendermi inutilmente cura del mio intestino, che tanto avrebbe ceduto di schianto dopo la cura di plòv, il riso rimestato per ore nel pentolone di ferro, ricco piu' di mosche che di uva passa, mangiato dopo un paio di giorni in un villaggio vicino per festeggiare la firma dell'epico contratto dell'impianto di produzione di preforme in PET.
Una disperata esperienza di potente e irrefrenabile dissenteria che mi impegnò per un paio di giorni nel deserto attorno a Bukhara, cercando ogni volta, per quanto consentiva l'urgenza, di allontanarmi sufficientemente dalla macchina, nella speranza di trovare almeno un cespo di sterpaglia secca dietro il quale accucciarmi. E le croccanti lepioske, le deliziose ciambelle di pane uzbeke, che sgranocchiavamo sotto le mura di Samarcanda, mentre si discuteva di un colossale impianto di essiccazione di fette di melone, quello uzbeko, ovviamente il piu' dolce del mondo per produrre le cosiddette banane secche di melone, che non mi è chiaro quale mercato potessro avere. Oppure quando nel centro di Ashgabad seguivamo un tipo con cappellaccio di astrakan che voleva impiantare una colossale fabbrica per fare seta a partire dai bozzoli di cui il Turkmenistan era ancora grande produttore. Una spettacolare triangolazione di macchine che avremmo fatto arrivare dalla Cina tramite l'amico Ping e altre, raffinatissime prodotte attorno a Como che illustrammo con dovizia di particolari e di immagini ad uno stranito direttore di banca da cui il probabile pastore raccoglitore di bozzoli, ci aveva condotto, convinto che i cinque milioni di dollari necessari, sarebbe bastato andare a chiederli per ottenerli.
Era un mondo ancora grezzo e naif in cui le metodologie ed i meccanismi del mondo occidentale erano desideratissime, ma ancora completamente sconosciute e travisate, mentre Bulik il circasso, mediatore di cotone che ci aveva proposto il contatto non sapeva piu' da che parte girarsi per scusare la cantonata presa e proponeva allora, per recuperare il tempo perduto, mirabolanti affari di barter con veleno di api, corna di cervo o bile di orso da rivendere in Cina dove ogni cistifellea veniva scambiata con tre Toyota 4x4. Oppure attraversare le steppe kazake verso Chimkient, la città del nuovo farwest, il nuovo Eldorado con il grande Kural, due metri di kazako dal testone colossale, che pareva essersi schiantato frontalmente con un camion, tanto aveva il naso schiacciato per raggiungere un suo magazzino che avrebbe destinato all'imbottigliamento di bibite varie, inclusa la Cola kazaka (forse KazakCola?). Kural il patriarca che voleva combinare il matrimonio con la nostra Stefi con il suo fido Almaz, che si era già dichiarato disponibile, avendo già parlato con i propri genitori, mentre lo Zio insisteva che il numero di cammelli e caproni non era assolutamente sufficiente, dato il valore della ragazza, che nel frattempo continuava ad eserciare il suo compito di traduttrice, elencando l'entità delle mandrie proposte pur con un certo imbarazzo.
Kural il gigante, il grandioso, come un principe mongolo, che fermava le macchine nella steppa di fianco ad una depressione, dove una ventina di cavalieri partecipava ad una competizione di buzkashi, e mentre galoppavano sui loro piccoli cavalli mongoli strappandosi l'un l'altro la carcassa del montone, lanciando loro per aria mazzi di tenghé, le banconote simili a quelle del monolpoli che avevano sostituito orgogliosamente il rublo e che già dopo pochi mesi non valevano il costo della carta con cui erano fatti. O quando ci conduceva alle sue serre per la produzione di frutti esotici o davanti alla costruzione bunker che voleva trasformare in albergo a cinque stelle, che a noi appariva come appena uscita da un bombardamento, fatta com'era di cemento sbrecciato e cadente ed invece era secondo lui appena finito e da arredare lussuosamente. Allora questi imprenditori d'assalto si occupavano di business di ogni tipo, senza alcun timore di mancare della necessaria esperienza in campi completamente diversi, a volte con successo, altre dimostrando una disarmante ingenuità. Oggi vedere le strade della Città delle mele avvolta dai fumi dei lacrimogeni e dalle truppe che sparano sulla folla ad altezza d'uomo, fa un certo effetto. Dove saranno adesso i nostri Kural, Almaz, Gulija? E tutti gli altri che ci abbracciavano stretti davanti alla scaletta di aerei puzzolenti, cercando di baciarci in bocca alla russa, ormai amici per la vita, quella amicizia che si cementa soltanto tra i pastori che errano nelle steppe dell'Asia centrale sotto la scimitarra lucente della luna.
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