La mattina presto Prakash ci aspettava sulla strada fangosa davanti all'albergo con la Ambassador bianca appena lavata e tirata a lucido. Partimmo senza perdere tempo, ma lui volle fare comunque una breve sosta al tempio di Ganesh per rivolgere una piccola puja che ci garantisse un viaggio senza inconvenienti. Il tempietto era basso e buio, pieno di fumi e di odori. Consegnammo due banane e una coroncina di fiori al sacerdote che salmodiava assorto e che le depose assieme a un bastocino di incenso acceso assieme alle altre sull'altarino. Ci appose la tikha di ordinanza sulla fronte e dopo aver fatto scivolare la banconota tra le pieghe del dothi bianco, riprese a cantare le Upanishad tranquillo in attesa del prossimo cliente mentre la statua del Dio dalla testa di elefante, coperta di ghi untuoso, sogghignava augurandoci buon viaggio. Era piccolo e sorridente Prakash e quando ciondolava la testa per confermare, ti dava una impressione di tranquillità che ti faceva accomodare sereno sul sedile posteriore. Pareva particolarmente affezionato alla nostra ragazza, che evidentemente considerava dei suoi, ma la trattava con particolare deferenza cercando sempre di darle per prima riparo dalla pioggia. Il monsone non era particolarmente forte quell'anno, ma l'umidità spessa ti ricopriva la pelle come il burro chiarificato che si cola sulle statue che meglio assicurano l'esaudirmento dei desideri. Su strade fangose uscimmo dalla città, quasi subito aggrediti dalla selva, dapprima meno fitta e con ampie radure dove bufali sfiancati tiravano piccoli aratri di legno per ritagliare fazzoletti di risaia. Dietro, file di donne dagli sdruciti sari colorati, sollevati fino alle cosce, trapiantavano l'oro verde pallido, muovendo a fatica le caviglie nelle buche di fango grigio e colloso. Contadini poveri ma non affamati, in un equilibrio precario che la natura amica/nemica regola a fasi alterne, ma che difficilmente conduce alla carestia più nera. Gli Adivasi (quelli che c'erano prima) sono quasi un quarto della popolazione dell'Orissa e, come tutte queste popolazioni "primitive", ambirebbero solo ad essere lasciate in pace, cosa che in linea di massima il governo centrale fa per non crearsi problemi ed evitare spese. La grana sorge quando qualche azienda decide di "valorizzare" un territorio, avendovi individuato qualche cosa da sfruttare (vedi la storia della Vedanta Resources contro la tribù dei Dongria, di cui ho già parlato qui). Allora per l'area scelta son dolori; in generale, la gente viene depredata dei suoi territori e delle sue pur misere ma sufficienti fonti di sopravvivenza e lasciati a marcire in bidonvilles ai lati del nuovo insediamento, magari con quattro soldi per dare una parvenza di legalità alla cosa. Il governo chiude gli occhi sulle porcherie più grosse e magari garantisce una baracca/ambulatorio dove una volta al mese passa un infermiere a dare un'occhiata. Il fatto è che in India ognuno pensa di appartenere ad un gruppo (indù, mussulmano, giainista, cristiano) o ad un sottogruppo (casta o sottocasta che dir si voglia) ritenendo che questo sia assolutamente superiore a tutti gli altri, con cui ha orrore a mescolarsi, né ha alcuna intenzione di cambiare ad esempio con una scalata sociale. Questo significa disprezzo assoluto per tutti i non appartenenti al proprio gruppo e totale e spietata indifferenza per i loro eventuali diritti. Solo la forza del denaro e del potere possono garantirli ed è chiaro che per gli Adivasi lo spazio è quasi nullo ed il loro destino è segnato nel tempo. I Kondh appartengono al gruppo delle lingue dravidiche e divisi in sottogruppi popolano le colline circostanti. I primi villaggi che vedemmo, già nel folto della foresta, erano di Kutia Khondh, forse il gruppo più numeroso. Sono noti anche come il popolo dei tatuaggi. Ci fermammo a riposare in un largo spazio tra le capanne. C'erano poche persone, la maggior parte impegnate nei lavori dei campi, ma schiere di bambini interessati ad eventuali caramelle e parecchie ragazze e donne di ritorno dalla consueta corvée del rifornimento dell'acqua. Avevano le orecchie quasi frastagliate per l'enorme numero di anelli ed altri piercing che ne deformavano anche le dimensioni ed i volti piccoli e scuri ricoperti di tatuaggi. A volte simboleggiano fiori, ma nella maggior parte dei casi sono punti e righe nere e sottili che ricoprono completamente il viso. Sono i baffi del felino più temuto, che ogni tanto si porta via qualcuno rimasto isolato nella foresta e questi segni servono ad esorcizzare la paura e a spaventare la belva. Le donne tigre vanno da sole tra gli alberi, non hanno timore dell'animale affamato che le aspetta nell'oscurità nebbiosa verde e grigia; in effetti, non ce ne sono quasi più di queste belve e loro ne ridono, se ne fanno beffe, esibendo con orgoglio i volti sorridenti. Altre belve, invece, sono acquattate nella pianura, meno interessate alla carne, più ai terreni o magari alla bauxite di cui pare queste colline siano ricche. Ma queste, non sembrano spaventarsi molto se le ragazze si girano mostrando fiere i baffi della tigre.
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giovedì 25 febbraio 2010
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Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 116 (a seconda dei calcoli) su 250!
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2 commenti:
Interessante come sempre il racconto
Purtroppo mi accorgo che non riesco a rendere con le parole le sensazioni di quei luoghi e di quelle persone. D'altra parte avrei fatto lo scrittore invece che il commerciale eheheh
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