domenica 21 giugno 2009

Verde smeraldo.

Cosa è che dà all'Isonzo quel colore? Un verde smeraldo terso e chiaro, che sa di pulito, che accompagna il fiume fin dalle sorgenti nel parco del Triglav, mentre si precipita in basso in forre tortuose, tra rocce bianche e tormentate, quando ancora si chiama Soča, e lo segue, magari un po' più lattiginoso e spesso, come un taglio cabochon d'altri tempi, quando più a valle rallenta il suo corso prima di scendere nella piana friulana. Lo abbiamo seguito quasi tutto, questo corso, come per verificare, increduli, che il verde rimanesse tale, intoccato dalla pervasione umana che di ogni cosa si appropria. Da Kraniska Gora attraverso i cinquanta tornanti del passo di Vrsič, guadagnato con fatica dal corpaccione del bus con continue manovre per la disperazione di chi ci seguiva, per lasciarsi poi andare nella valle di Trenta, quando, tra pareti pur sempre incombenti, il rilievo diventa più tranquillo ed il fiume, ancora torrente alpino, scava le rocce prima di diventare adulto. Una montagna selvatica, popolata di orsi bruni; un ecosistema che ancora si difende bene dall'invasione antropica, o perlomeno che ha trovato un momento di tregua, di equilibrio, tra le alte malghe e i piccoli paesi di poche case in cui si pratica un'agricoltura difficile, con molta manualità a causa delle ripe scoscese, con piccoli prati cosparsi di costruzioni in legno che secoli di tradizione hanno rese perfette macchine per essiccare il fieno, in una regione tra le più piovose d'Europa. A poco a poco si allarga l'Isonzo e si fa fiume, sempre smeraldo, sempre traslucido, sempre brillante, sia colpito dai raggi del sole che riflettono piccole stelle tra le spume, sia se si acquieta nelle anse sotto l'ombra spessa delle piante che ne affollano le rive. Tu guardi, cerchi tra quel verde intenso, ma non lo trovi, non riesci a vederlo per tanto che ne è stato versato, il rosso del sangue di tutti quelli che qui hanno perso la vita. Lungo questa linea verde, per tutto il secolo scorso decine di migliaia di uomini si sono scannati scegliendo i modi più efferati ed efficienti, dai cannoni più potenti, a tutte le armi da fuoco possibili, dalle baionette alle mazze ferrate, ai gas. Il museo del soldato di Kobarid (Caporetto) raccoglie tutte queste memorie. Senti la lettera del soldato dopo la battaglia, vedi centinaia di foto di sofferenze inaccettabili, segui la storia, conti i morti, arrivi fino alla camera degli orrori dei campi dopo la fine della battaglia. Un anziano te la racconta, con una voce grave resa partecipe dalla sua storia personale. Poi ti domandi, ma come poteva la gente non vedere, non capire; eppure andavano sulle piazze, gridavano, applaudivano, odiavano quello che stava dall'altra parte. E la storia si ripete due, tre volte, nessuno impara mai da quanto è accaduto prima; che bisogna creare un nemico, un colpevole, per coprire i propri problemi, per cercare di risolverli a spese di altri, per proteggere i privilegi. Questa terra, dove sono passati turchi, francesi, austriaci, tedeschi, italiani, tutti con cattive intenzioni, adesso sembra tranquilla, attorno al fiume di smeraldo, ma non si avverte allegria negli occhi della gente.

1 commento:

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Mio nonno Costante ebbe la fortuna di finire in artiglieria e di non vivere la follia della prima linea. Morì nel 1961, quando avevo cinque anni. Tra le poche cose che ricordo di lui c'è però una frase che mi diceva di continuo: "La guèra l'è ona bruta bestia". E spesso ricordava i suoi amici partiti per la valle dell'Isonzo e mai più tornati: "Pori fioeu, pori fioeu". Mia mamma mi diceva che non partecipava alle feste dei Combattenti e Reduci del 4 novembre perchè aveva vergogna di farsi veder piangere.

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