sabato 13 giugno 2009
Rosso vermiglio.
Aveva appena finito di piovere. L'aria era pulita e si vedeva lontano in un bagliore verde scontato. Se l'Irlanda non fosse così verde non avrebbe senso. Così parcheggiammo il camper vicino ad una piccola baia, sul mare, vicino al Connemara National Park, un minuscolo molo con quattro barche e poche case basse tra cui una locanda antica con i soffitti bassi e le sedie di legno pesante che si spostano con fatica. Scegliemmo un tavolo vicino ad una finestra da cui si apprezzava il sole che minuto dopo minuto magnificava i colori. Dopo poco non fummo più soli. Entrarono in fila indiana sei giapponesi che si disposero subito con ordine nel tavolo vicino al nostro, lasciando al posto d'onore, vicino alla finestra che godeva della vista sulla baia, il più anziano, evidentemente persona di rango, che, tra i consueti inchini a cui rispondeva con piccoli cenni, veniva trattato con particolare deferenza. Se ne stava silenzioso tra il cicaleccio discreto dei suoi, osservando con attenzione tutto quello che lo circondava, come volesse imprimere negli occhi stanchi ogni sensazione, ogni particolare. Rimase infine, dopo avere appena assaggiato il piatto che gli era stato proposto, ad osservare la baia che ad ogni mutar della luce, che andava via via rafforzandosi tra le nubi grige ancora gonfie, ravvivava i colori cambiandone la composizione. Dato che la nostra bambina si era concentrata con decisione su di un gigantesco trancio di salmone al buro fuso e non richiedeva attenzioni, mi dedicai ancora ad osservare quell'uomo. Mentre la sua compagnia mostrava grande apprezzamento per la tavola, con un piccolo cenno chiese ed ottenne dalla giovane che gli era più vicina, una piccola scatola che aprì con cura e depose sul tavolo al posto del piatto appena toccato. Ne estrasse un pennellino, i colori, un blocco di piccole dimensioni di spessa carta porosa e un bicchierino che riempì con poche gocce di acqua. Bagnato il pennello rimase ancora un poco ad osservare la baia, poi pochi colpi leggeri lambirono il foglio. Vedevo distintamente il lavoro che stava prendendo vita. Un tocco di azzurro, una linea quasi indistinta, un tono monocromatico e acquoso a confondere cielo, nubi e mare. Si fermò un poco, piegando la testa da un lato, pensoso, poi, umettato per un ultima volta il pennello e caricatolo di colore, diede un ultimo ma decisivo colpo, un fendente di lama, una virgola rosso vivo, una piccola barca sul bordo dell'insenatura. Rimase ad osservare il cartoncino mentre si asciugava, perfetto nell'armonia della sfumatura che la porosità della carta fondeva con gradualità, lasciando scandire lo spazio alla pugnalata vermiglia che ne giustificava l'esistenza. Asciutto, lo girò rivelando le righe di una cartolina su cui vergò con cura un indirizzo formato da eleganti caratteri kanji con un apposito pennellino nero da scrittura. L'angolo della bocca era piegato in un leggero sorriso di soddisfazione. Quando noi ci alzammo dovette scostarsi un poco per lasciarmi uscire. Guardai lui ed il cartoncino che teneva ancora tra le mani, dicendogli:"Domo arigatò, Sensei". Il Maestro sorrise abbassando leggermente il capo. La mia bambina, mentre uscivamo mi disse: " Papà, hai visto che bella barchetta ha disegnato quel signore?".
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1 commento:
Grazie per aver raccontato questo momento! Una poesia con due tratti...
Graziella
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