mercoledì 3 giugno 2020

Luoghi del cuore 7: L'isola di Nolsoy


Nolsoy - Arcipelago delle Foroyar- agosto 1979

L'aeroporto
Tante cose capitano per caso. Decisioni nate in un attimo senza neppure un progetto, non come ora in cui si passano giornate intere su internet a controllare itinerari, a leggere recensioni, a progettare  facendo calcoli di tempi e di chilometri e a gestire prenotazioni. Allora i biglietti li andavi a fare in agenzia e così saltò fuori che quel volo per Reykiavik che costava meno (sempre lì a cercare di limare i costi, si scoprì che la Islandair, compagnia fuori Iata, aveva prezzi bassissimi al contrario di tutto il resto), faceva uno stop a Copenhagen, che è sempre una città deliziosa in cui passare una notte ed al ritorno anche a Thorshavn la capitale delle isole Foroyar o Faroer che dir si voglia, se vogliamo pronunciarle alla danese, delle quali fino a quel momento avevo ignorato l'esistenza. Così prendemmo la palla al volo, assieme ad una sosta di tre giorni in questo arcipelago perduto. Sono davvero solo quattro sassi che una natura giocherellona ha lasciato cadere nel centro dell'Atlantico settentrionale, in una posizione talmente sfigata da provocare una metereologia senza senso. Essendo lambite dalla corrente del golfo la temperatura non è mai troppo sotto lo zero anche in pieno inverno e d'estate difficilmente le massime superano i 15°C. Si dice che qui piova almeno 350 giorni all'anno tanto per dire, da farsi venire la muffa dietro le orecchie, poi solo nebbia e umidità atlantica, quella che ti penetra nelle ossa facendole scricchiolare a più non posso. 

La costa
Una popolazione di grifagni isolani, imbruttiti dall'endogamia ed abituati a quella solitudine triste che deriva dal chiudersi in casa ad aspettare mesi che compaia un raggio di sole. Poca gente, residuo di balenieri e pescatori di merluzzo, chissà come finiti su quegli scogli inospitali ed in perenne attesa che qualche nave vada ad infrangersi sugli scogli per razziarla, anche se poi sono solo leggende. Lunghi e bui inverni passati in case basse dai tetti coperti di torba, alla luce di fioche lanterne a raccontarsi saghe nordiche di fate e folletti, mentre il mare schiumeggia sbattendo su scogliere maestose. Le isole tuttavia, per chi come noi non aveva l'occhio al mondo del nord, si rivelarono subito di una bellezza maestosa e, forse perché era un agosto particolarmente fortunato, il sole che più volte sbucò tra le nuvole grige e nere che passavano veloci nel cielo, le illuminava con raggi che infiammavano il tramonto e rendevano l'erba di uno smeraldo vivo. Dal porto della capitale partivano i traghetti che si collegavano alle altre isole,una dozzina, tutte abbastanza vicine e separate da bracci di mare che sembravano fiordi norvegesi incanalati tra montagne a strapiombo. Un paesaggio mistico e sublime al tempo stesso, punteggiato nei valloni laterali, da casette dai tetti colorati che le facevano spiccare sul verde circostante come cubetti di un Lego delle fate. Prendemmo il primo traghetto che ci capitò che portava alla piccola isola di Nolsoy, una montagna in mezzo all'oceano, stretta e lunga non più di quattro chilometri, una gemma verde scuro, con un avvallamento al centro dove c'era un porticciolo con una manciata di case. 

Il porticciolo di Naosoy
Tutti gli abitanti del paese erano al molo ad aspettare la nave, l'unica della giornata, l'avvenimento atteso che la definisce, a seconda di chi arriva e di chi de ne va. Scaricammo masserizie varie e poi il traghetto se ne andò all'isola successiva. La gente ritornò nelle proprie case, chi accompagnato da chi era arrivato, atteso ospite o parente di ritorno a casa e chi con i pacchi e le masserizie attese da tempo. Noi prendemmo un sentierino che usciva dal paese ed attraversava l'isola per il lungo fino alle scogliere. Il terreno ondulato che saliva verso l'altura centrale, era un unico grande pascolo, di erba spessa e grassa punteggiato di pecore che brucavano senza sosta. Animali felici e rigogliosi, fossi nato pecora quello sarebbe il luogo dove vorrei vivere, sdraiarmi e ravvoltolarmi in quella meravigliosa massa di erba verde e gustosa dove brucare e brucare e brucare ancora senza fine, belando a squarciagola la mia soddisfazione. ancora tutte coperte di uno spesso strato di lana, dovendo passare ancora uno o due mesi prima della tosatura, cerimonia globale che credo impegnasse tutta la popolazione, che nel resto dell'anno si applicavano a filarla per ottenere i famigerati maglioni che si infeltriscono poi al punto di non lasciare più passare una goccia d'acqua e qui, Dio solo sa se ce n'è bisogno. Camminavamo risalendo la china che portava alla sommità della falesia che dominava l'isola, sprofondando nel terreno umido e torboso. 

Uccelli marini
Attorno si sollevavano di tanto in tanto stormi di rondini di mare a difesa nei nidi nascosti tra i cespi di erba. Planavano sulle nostre teste con stridii forti e minacciosi, piombando dall'alto su di noi per ripartire con cabrate improvvise e violente. Dal bordo della scogliera, lo spettacolo delle isole visibili attorno era superbo. Le onde si frangevano con scoppi di spuma improvvisi contro le rocce bianche e nude ed il mare rimaneva invece apparentemente piatto e lambiva le coste verdissime più lontane. Il sole provocava uno spicchio di arcobaleno sullo sfondo delle ultime isole in vista. Sulla parte più ripida della falesia a picco sul mare, centinaia di nidi di puffin erano popolati di nidiacei nati da poco; i genitori partivano come schegge con il loro volo rettilineo sbattendo le cortissime alucce in modo innaturale, prima di tuffarsi in mare in cerca di cibo. Uno spettacolo primordiale da lasciare senza fiato. Girammo tutti i sentieri dell'isola inebriandoci delle grida di gabbiani, delle urla delle folaghe e dei voli radenti delle rondini di mare. Quando a sera il traghetto ripassò e  tornammo a Thornshavn, piovigginava leggero, c'erano 10°C, ma i pochi pescatori che tornavano a casa non se ne davano per inteso imbacuccati nei loro maglioni e cappelli di lana da pioggia. Alle undici era ancora chiaro e la luce illuminava a giorno la stanzetta dell'ostello dove ci eravamo rintanati per la notte. Il termosifone pompava a manetta. Verso l'una ci svegliammo, tentando disperatamente di spegnerlo. C'erano almeno 40°C e fuori era già chiaro.

Puffin





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